In occidente quasi neppure sappiamo cosa significi mecha design. Questo non pare comunque abbastanza per fermare il francese Zamak, che riesce anche a fornire un'interpretazione tutta europea di questa disciplina tipicamente nipponica.
mercoledì 31 dicembre 2008
lunedì 29 dicembre 2008
The Good, the Bad, the Weird di Kim Ji-Woon (Corea del Sud/2008)
Questo era il film che tutti, consciamente o meno, stavano aspettando. Perché Ji-Woon Kim ci consegna, finalmente, un capolavoro di puro intrattenimento. Senza alcun compromesso. The Good, the Bad, the Weird è un blockbuster privo di difetti, cinema enorme che si afferma come tale senza politica, senza piani di lettura, senza riferimenti colti o poetiche autoriali. The Good, the Bad, the Weird è tutto quello che conoscete già, ma fatto meglio. Molto molto molto meglio.
Ji-Woon Kim si dimostra un virtuoso senza pari (e in questa occasione supera di gran lunga anche il connazionale Park Chan-Wook), giocando continuamente con gru, profondità di campo e dolly vorticose. Dopo anni e anni di visioni per la prima volta mi trovo a sperare, con la paura di dover tarare su nuovi standard la definizione di perizia registica, che certi passaggi siano realizzati con l’aiuto della CG. Picchi assurdi di cinema si piegano al volere della spettacolarità, sempre in funzione di un ritmo e di una messa in scena che non permettono un solo istante di noia.
Esplosioni di violenza mai caricaturale vanno a braccetto con una sceneggiatura ricca di sottile umorismo, mentre colpi di scena calcolati con il bilancino (in senso buono) fungono da raccordo a scene action di 25/30 minuti (senza che, notate bene, una sola inquadratura venga ripetuta due volte). E poi c’è il cattivo supercool, le musiche che non c’entrano nulla, le spalle assurde e una sceneggiatura che costruisce un mondo più che raccontarci una storia.
The Good, the Bad, the Weird è uno di quei film dove si vedono tutti i (molti) soldi che ci sono stati investiti: nessun intervento digitale, set sconfinati (e perfetti per sparatorie), decine e decine di comparse pronte a cadere come mosche, una fotografia raffinatissima e un montaggio che pare calcolato al millesimo di secondo. La superficie si eleva a contenuto, senza che nessuno se ne accorga o ne abbia a male. Ji-Woon Kim vince ancora una volta il premio di regista più furbo della Terra, dimostrando anche di saper gestire la complessa macchina organizzativa di un kolossal come questo.
In conclusione: The Good, the Bad, the Weird è tutto quello che i produttori di Hollywood tentano di fare da 20 anni a questa parte, ma che non riusciranno mai a raggiungere. E’ la dimostrazione che la leggerezza può essere più intelligente di mille voli pindarici da intellettuale scoppiato. Sempre che si sappia come fare.
Se siete utenti BitTorrent e cliccate qui può darsi che riusciate a vedere il film con i sottotitoli in inglese. E se un distributore vi viene a dire che certe cose non si fanno perchè danneggiano il cinema voi rispondete che potreste tranquillamente affermare lo stesso. Ma nei suoi confronti.
Ponyhell Records: il MiniDisc come stile di vita
Alla Ponyhell Records non hanno mezze misure. Il loro scopo è sempre stato quello di diffondere e supportare le più sghembe forme di noise, fregandosene alla grande di tutto quello che non è underground.
Come palesare questi intenti all'ascoltatore occasionale? Semplice, scegliendo il MiniDisc come supporto unico e studiando packaging talmente intricati da limitare le tirature a un massimo di 50 copie per uscita (ma qui si parla già di bestseller). I ragazzi in questione sono dei grandi, e nella mia scala di gradimento personale hanno battuto anche la cassettina pelosa dei Nightbear.
Si noti che ho evitato di postare immagini dei lavori di cui si sta parlando, così da costringere gli interessati a farsi una visitina sul Myspace dei soggetti in questione. Quando ci vuole, ci vuole.
Come palesare questi intenti all'ascoltatore occasionale? Semplice, scegliendo il MiniDisc come supporto unico e studiando packaging talmente intricati da limitare le tirature a un massimo di 50 copie per uscita (ma qui si parla già di bestseller). I ragazzi in questione sono dei grandi, e nella mia scala di gradimento personale hanno battuto anche la cassettina pelosa dei Nightbear.
Si noti che ho evitato di postare immagini dei lavori di cui si sta parlando, così da costringere gli interessati a farsi una visitina sul Myspace dei soggetti in questione. Quando ci vuole, ci vuole.
sabato 27 dicembre 2008
Be a Man! Samurai School di Tak Sakaguchi (Jap/2008)
Se tutta una serie di pellicole fintamente nipponiche (come Tokyo Gore Police o Death Trance) sono riuscite ad arrivare nei nostri lettori un po’ di colpa è anche di Tak Sakaguchi. Noto ai più come Prisoner KSC2-303 (da Versus), attore e action director per la gran parte dei film del compare Ryûhei Kitamura, presenza fissa di un certo tipo di produzioni pensate con più di un occhio al mercato occidentale ora, per il Nostro, è il momento del grande salto dietro la macchina da presa. E, incredibile a dirsi, il risultato non è dei più terribili.
Be a Man! Samurai School è un film minuscolo, mediocre dal punto di vista tecnico e nullo da quello della scrittura, ma con il pregio di essere indiscutibilmente jappo. Non una cosa da poco, in tempi di globalizzazione forzata come i nostri.
Be a Man! Samurai School è iscrivibile nel genere/cliché delle botte liceali, filone che pare sul punto di rifiorire anche grazie al recente contributo di Miike, ma il suo obbiettivo è ben altro rispetto alle solite guerre intestine tra gang rivali. Nel suo debutto alla regia Tak Sakaguchi mette alla berlina tutta una serie di stereotipi su virilità, onore e senso di fratellanza troppo ancorati alla cultura nipponica per essere completamente digeriti dal consumatore occasionale di cinema. Dalla recitazione sopra le righe a una serie di crudeltà che stridono non poco con i toni da commedia dell’insieme, il prodotto finito assume una conformazione troppo di nicchia per ambire a nuovo cult da nerd orientofilo.
Se invece avete passato ore e ore in compagnia di samurai, yakuza e falangi mozzate allora c’è anche la possibilità di farsi qualche grassa risata. Il tenore dell’umorismo è sempre sospeso tra il surreale e la feroce parodia, con diversi picchi di totale demenza. Molto controllato lo splatter (era ora che qualcuno si accorgesse che gli schizzi di sangue non fanno ridere per forza) e non malaccio la regia, capace di regalare anche qualche colpo di testa non da poco.
Tak Sakaguchi dimostra di saper giocare col fuoco scrivendo e dirigendo un film ben più pericoloso e destabilizzante di quelli ultimamente spacciati come tali. I valori derisi (e non certo con raffinata ironia inglese) sono fulcro centrale di una fetta enorme della produzione giapponese, oltre che parte integrante della mentalità di questo popolo. Deriderli senza pietà significa esporsi molto più che filmare l’ennesima donnina nuda coperta di sangue.
Senza prendere in considerazione quei casi dove non c’è neppure la donnina nuda.
martedì 23 dicembre 2008
Nobody Dies: il superflat di Mr. invade Parigi (ma Kenta Fukasaku c'era arrivato prima)
Fino al 10 gennaio, presso la galleria parigina Emmanuel Perrotin, sarà possibile visitare Nobody Dies, l'ultima mostra del nipponico Mr. Esponente della corrente del superflat, pungente osservatore della nostra realtà mediata, abile manipolatore di medium e linguaggi. Insomma, un gran figo. Anche se, per essere sinceri, c'è qualcuno che tutto questo l'ha gia fatto nel 2002. Parlo di uno dei registi più incompresi degli ultimi anni. Parlo di Kenta Fukasaku.
Quando, nel 2002, gli appassionati poterono mettere le mani su Battle Royale 2 fu il finimondo. Il figlio del maestro Kinji aveva consegnato ai posteri un manifesto della società liquida potente quanto una bomba termonucleare, incomprensibile a chiunque si fosse avvicinato al lungometraggio bramando la solita dose di sadismo e mutandine bianche da weirdata nipponica.
A sei anni dalla sua uscita Battle Royale 2 gareggia ancora con Starship Troopers per il titolo di blockbuster più politico, amorale e disturbante di sempre. Qui (e qui, nel caso vi interessi la seconda parte) trovate un mio speciale sul regista e sull'opera in questione. Fatemi sapere cosa ne pensate.
Quando, nel 2002, gli appassionati poterono mettere le mani su Battle Royale 2 fu il finimondo. Il figlio del maestro Kinji aveva consegnato ai posteri un manifesto della società liquida potente quanto una bomba termonucleare, incomprensibile a chiunque si fosse avvicinato al lungometraggio bramando la solita dose di sadismo e mutandine bianche da weirdata nipponica.
A sei anni dalla sua uscita Battle Royale 2 gareggia ancora con Starship Troopers per il titolo di blockbuster più politico, amorale e disturbante di sempre. Qui (e qui, nel caso vi interessi la seconda parte) trovate un mio speciale sul regista e sull'opera in questione. Fatemi sapere cosa ne pensate.
lunedì 22 dicembre 2008
Sukiyaki Western Django di Takashi Miike (Jap/2007): come mi riprendo il Giappone e me ne fotto degli americani.
Difficile trovare una figura più controversa di Takashi Miike nel panorama cinematografico dei nostri giorni. Il regista di Osaka riesce a imporsi nel medesimo tempo sia come autore austero che come perfetto prodotto del mercato. Inutile stupirsi di come un artista osannato da Ghezzi e Muller (mica gli ultimi due arrivati) possa passare alla speculazione videoludica, senza dimenticarsi di essere stato scelto dagli intellettuali nipponici come regista di The Great Yokai War e di essere amato in tutto il mondo per la sua misoginia e crudeltà, cosi come per le sue dolci digressioni infantili. Una schizofrenia che lo ha portato, a solo un anno di distanza dalle sperimentazioni queer di Big Bang Love, Juvenile A, a dirigere questa marchetta pulp.
Sukiyaki Western Django è chiaramente un’operazione studiata a tavolino (come testimonia il cameo di Tarantino nei panni di Ringo), un mezzo fallimento concepito come il prossimo cult planetario. Lo stadio finale di un piano ben congegnato, ma sabotato dall’interno da Miike stesso. Un uomo che non riesce in nessun modo a rendersi invisibile, abbassandosi al livello di shooter pagato a ore.
La prima barriera contro cui il grande pubblico rischia di infrangersi è la concezione di ritmo del Nostro: assistere a un film di Miike è una prova non da poco. Si ha la sensazione di aver assistito a un lungometraggio di 3 ore dopo soli 20 minuti di proiezione. Per lassi di tempo enormi non succede nulla, poi tutto si brucia nel giro di una manciata di secondi. Nel frattempo davanti ai nostri occhi si affastellano decine di personaggi, situazioni, storie apparentemente inutili. Un linguaggio cinema che non affabula lo spettatore, che non lo anestetizza. Una continua corsa alla sperimentazione all’interno del genere puro che non può che ricordare il pioniere Seijun Suzuki. Esattamente come il regista di Tokyo Drifter (1966) la composizione dell’inquadratura è maniacale, sfruttando a pieno l’enorme talento visivo di Miike, ma mai convenzionale. Si ruba a piene mani da manga, videogiochi, cinema di ogni parte del mondo. Quello che ci viene restituito è un affresco western rivisto con ottica iper moderna. Dentro ci trovi un po’ di tutto: fondali dipinti, sangue a fiumi, pose plastiche, umorismo slapstick, dramma, citazioni dalla serie Female Prisoner Scorpion di Shunya Ito fino a Da uomo a uomo di Giulio Petroni,… Il perfetto prontuario per una versione wasabi del Grindhouse statunitense, se in ballo non ci fosse il regista meno adatto a questi contentini per un pubblico di nostalgici.
La messa in scena è sontuosa, dai paesaggi agli stupendi costumi, e tutto gioca con la confusione tra occidente e oriente. O meglio: tra come l’oriente voglia apparire occidentale e come appare in realtà. Una recitazione in un inglese stentato diventa cifra stilistica se messa in mano a un pazzo come l’uomo dietro Ichi the Killer. Scelta confermata dal fatto che l’unica frase in Giapponese di tutto il film viene urlata da un uomo in punto di morte. Come se il tempo dei giochi fosse finito. Come se, sotto sotto, la propria nazionalità fosse più forte di ogni condizionamento.
E se questo Django fosse il primo film moraleggiante di Miike? Cosa vi sareste aspettati da un remake di un film italiano (anzi, per un certo senso, del film italiano per eccellenza) girato con mentalità statunitense da un giapponese? Una puttanata, poco altro. Takashi si toglie un sassolino grande quanto un macigno dalla scarpa e rincara la dose di polemica bulldozer portata avanti dal suo episodio Imprint per la serie Masters of Horror (l’unico episodio di un regista orientale per una serie americana, l’unico episodio censurato). Probabile che la sua parentesi americana nasca e finisca qui, con sua (e nostra) grande felicità.
Iconoclasta fino alla fine. Proprio come il Django di Corbucci.
venerdì 19 dicembre 2008
[trailer] Samurai Zombie di Tak Sakaguchi (Jap/2009)
Basta! Qualcuno ricordi ai giapponesi quanto è stato grande il loro cinema. Ne ho francamente piene le palle di ragazze mitragliatrici, macchine delle polpette e katane da Final Fantasy. Eppure c'e chi, come Tak Sakaguchi (protagonista di Versus, regista di Be a man samurai school), ancora non l'ha capito. Si prevede diffusione capillare tra i circolini del bizzarro a tutti i costi, festival del retrobottega, classifiche di fine anno (prossimo). Io passo.
Qui sinossi e trailer.
Qui sinossi e trailer.
domenica 14 dicembre 2008
Protest the Hero - Fortress (Vagrant Records/2008)
La tecnica e la follia dei Between The Buried And Me. La paraculaggine degli Every Time I Die. Un goccio di Faith No More e di classic rock/metal a insaporire ulteriormente il tutto. Mentre si perde tempo a giustificare dischi nati morti e si spendono soldi per arricchire ancora di più vecchie cariatidi, qualcuno cerca di portare avanti un discorso che i più cinici dichiarano morto da almeno 20 anni. I Protest the Hero ci si presentano con un miracolo: Fortress è accattivante, melodico, accessibilissimo. Ma anche maledettamente complesso, ricco e impenetrabile nelle sue architetture math. Basterebbe una sola canzone di questi canadesi per avere tante idee da spazzare via qualsiasi democrazia cinese, sarebbe sufficiente scegliere una delle decine di linee melodiche del cantante Rody Walker e ripeterla a loop per tre minuti e avremmo tra le mani il singolo dell’anno. Eppure non funziona così, perché una volta qui era tutta campagna e si stava meglio quando si stava peggio. Continuiamo a pagare 60 euro per vedere i Metallica toppare gli stessi passaggi che sbagliavano negli anni ’80, tiriamo fuori i 120 euro per comprarci il cofanetto a forma di bara bianca e lasciamo ancora una volta sullo scaffale Mastodon, Dillinger Escape Plan e da qualche mese a questa parte anche questi Protest the Hero. Tanto a cambiare il rock ci pensano gli scartini di Axl. Che bello.
giovedì 11 dicembre 2008
Lo specchio dell'amore di Alan Moore e Villarrubia José (Edizioni BD/2008)
Le dichiarazioni seguenti sono tratte dal forum del Corriere della Sera. Sono commenti riguardo alla scelta della RAI di trasmettere il film Brokeback Mountain in versione censurata. Si consideri che non si vuole discutere della qualità artistica del film in questione, ma dell’atteggiamento di certa gente nata nel nostro stesso secolo (difficile a credersi, lo so).
“Come molti sanno l omosessualità è una deviazione della sessualià, una risposta psicosessuale sbagliata , come l'incesto , come il sadomasochismo il voyerismo ecc. Una certa medicina in seguito ai numerosi e riprovevoli (oltre che criminosi) atti discriminatori verso gli omosessuali ha pensato bene di eliminare l omosessualità dal prontuario delle malattie , piu per un fatto politico che su basi medico scientifiche , tant'è che ancora oggi esistono molte terapie per guarire dall omosessualità. Col tempo però un certo potere mediatico entrando nelle nostre case ha forzato la nostra cultura facendo passare l omosessualità come comportamento corretto. Quando ho letto della proiezione del film mi sono molto meravigliato di questo notevole abbassamento di livello culturale da parte del servizio pubblico , evidentemente però esiste ancora un sistema in Italia capace di tener lontano dalle fasce protette. E' giusto che il "ben pensante progressista" possa accedere a spettacoli che reputa consoni al proprio modo di pensare e vivere, ma è giusto che cio avvenga a pagamento e o soprattutto lontano dagli orari in cui le famiglie ancora sono riunite davanti alla tv. Per chiudere inviterei la RAi a spostare ulteriormente programmi violenti cruenti ed inauditi a fasce notturne (es Criminal minds ecc)”
“Ha fatto bene la RAI. Non è che vedere l'atto amoroso tra due uomini sia il massimo della bellezza. I gay la smettano di comportarsi da diversi e saranno trattati da uguali.”
“con buona pace dell'arcigay, non e' che alla maggioranza della gente faccia molto piacere vedere scene omosessuali. la rai ha fatto bene a tenerne conto.”
“Ma finitela con i piagnistei, non siamo tutti omosessuali e alla maggioranza degli uomini, vedere due maschi che si sbaciucchiano fa veramente schifo, imparate a rispettare anche gli altri, invece di pretendere che la maggioranza si adegui ai gusti bizzarri della minoranza. Trovo giusto non trasmettere certe scene in una tv nazionale che, deve rispettare l sensibilità di tutti.”
“Sinceramente il rischio che qualcuno dei miei figli potesse vedere due maschi che si baciano mi preoccupava alquanto. Ancora ricordo il disgusto di quando ho visto un bacio simile in un film di Ozpetek. Bleah”
C’è forse bisogno di chiedersi se un’opera come “Lo specchio dell’amore” abbia ancora senso di esistere? Sorvolando sul lato più tecnico della composizione (non ho le competenze necessarie per analizzarla in maniera competente) rimane da discuterne l'immenso valore artistico.
Il poema del Maestro Moore trascende la sua identità di opera queer fin dalle prime pagine, assurgendo a manifesto dell’amore negato in ogni sua forma. Senza moralismi o cadute nel patetico, il Bardo ci lancia in una cavalcata (è proprio il caso di dirlo, vista la velocità con cui si consumano le pagine) tra i secoli e i volti di una lotta che, evidentemente, non vede ancora la fine. Alternando umorismo dallo spiccato accento britannico, ubriacature di libertà e la solita, immane quantità di riferimenti storici quello che ci rimane tra le mani è un volume da lasciare a portata di mano, per essere letto e riletto fino allo sfinimento. Perché parlare solo di amore tra le persone dello steso sesso sarebbe un delitto per tutti quelli divisi da convenzioni e convinzioni che non hanno più di senso di esistere da secoli. Ma altrettanto delittuoso sarebbe parlare solo di amore, quando in ballo c’è la libertà di essere ciò che si vuole essere.
Completano il volume le fotografie di Villarrubia José. A tratti semplici semplici a tratti deflagranti, sempre suggestive e mai banali. Preziose come un forziere colmo di emozioni e sogni, vicine come un libro di fiabe.
Correte a comprare "Lo specchio dell’amore". Subito.
mercoledì 10 dicembre 2008
[ma quanto lo aspetto?] Thirst [Bakjwi] di Park Chan-wook (KR/ 2009)
Direttamente da tg korea le prime immagini dal nuovo lavoro di Park Chan-wook. Secondo le anticipazioni il lungometraggio parlerà di vampiri e dovrebbe essere il film che la troupe protagonista del segmento coreano di Three...Extremes (di Park Chan-wook, Takashi Miike e Fruit Chan) sta girando all'inizio del segmento stesso (alla faccia dell'autoreferenzialità!). Cosa aspettarsi quindi dal regista di Old Boy, Lady Vendetta e di I'm a Cyborg, but that's ok ? Difficile immaginarselo quando il soggetto in questione ama passare dalle commedie surreali a noir amorali fino all'affresco politico. Riconfermando ogni volta il suo feticismo per la carta da parati.
martedì 9 dicembre 2008
[trailer] Yatterman di Takashi Miike (Jap/2009)
Da regista icona dell'estremo più intollerabile a mente dietro a questo live action di Yatterman. Solo Miike poteva tanto.
lunedì 8 dicembre 2008
[trailer] Elite Yankee Saburo di Yudai Yamaguchi (Jap/2009)
Il buon Yudai Yamaguchi nasce come sceneggiatore di Ryuhei Kitamura. Esatto, quest'uomo ha sceneggiato Versus. Probabilmente su di un postit attaccato al retro di una cartuccia per Gameboy.
Dopo un avvio di carriera così importante è sembrato logico a tutti il passaggio dietro la macchina da presa. Tra le sue gemme possiamo ricordare il geniale dittico scolastico Cromartie High School/Battlefield Baseball e la fuffa per nerd occidentali Meatball Machine.
Fortunatamente con il prossimo lavoro del Nostro pare si torni nei territori del film di bande liceali. Con tutto il bene e il male che ne verrà.
Fortunatamente con il prossimo lavoro del Nostro pare si torni nei territori del film di bande liceali. Con tutto il bene e il male che ne verrà.
domenica 7 dicembre 2008
Evil Dead: The Musical
E se andate sul sito c'è pure un trailer stupendo.
giovedì 4 dicembre 2008
Natale, tempo di buoni sentimenti
Scoprite il senso della vita ascoltando la triste storia di Pete, il burattino di carne. Cocaina, cannibalismo, catene di fast food e tanto altro ancora!
A seguire simpatici consigli per i vostri regali natalizi.
mercoledì 3 dicembre 2008
Psycroptic - Ob(Servant) (Nuclear Blast/2008)
Vengono dalla Tasmania e fanno un casino di male. Proprio come il noto personaggio dei cartoni animati gli Psycroptic ci aggrediscono con un attacco ipercinetico e inarrestabile, un’autentica forza della natura. Con lo sbriciolamento delle barriere tra HC, death e grind ormai realtà tangibile è lecito aspettarsi da ogni uscita un alternarsi furibondo tra assalti ferini e rallentamenti spaccaossa, ma ben poche volte ci si è trovati in presenza di un esperimento così ben riuscito. Prendendo le distanze dal groove quasi NY dei Despised Icon o dagli eccessi math di band come Red Chord o Animosity, i Nostri preferiscono intraprendere un percorso del tutto personale. Meno colti e corrosivi dei neo zelandesi Ulcerate, ne condividono freschezza e allergia al già sentito (oltre che continente). Una ricerca spasmodica verso un modernismo tutto votato all’impatto si sposa alla perfezione con una costruzione millimetrica di ritmi e strutture, garantendo sempre e comunque un ascolto scorrevole. Nonostante si stia maneggiando materiale che necessita di tutta l’attenzione possibile per non rimanerne scottati. Un lavoro che parrà poco più che discreto a chi concepisce l’estremo come accozzaglia di riff e cantati da lavandino intasato, ma imperdibile per chi non può vivere senza un cambio di riff ogni 2 secondi, vocals al vetriolo e strutture che sembrano prese dal seminale Calculating Infinity. L’impressione ultima è che il percorso da Unique Leader, passando per Neurotic Records e concludendo per la major Nuclear Blast abbia fornito ai Nostri la sicurezza necessaria per allontanarsi dallo spettro di ennesimo gruppo clone dei Suffocation, regalandoci l’ennesima grande band. Cosa chiedere di più?
martedì 2 dicembre 2008
Nuova arte cinese alla Saatchi Gallery
Presso la prestigiosa Saatchi Gallery di Londra va in scena The Revolution Continues: New Chinese Art, interessante mappatura delle correnti artistiche provenienti dalla nuova superpotenza mondiale. Che ora ci appare più problematica e contradditoria che mai.
[trailer] Fireball di Thanakorn Pongsuwan (THA/200?)
Finalmente, grazie al grande Alexander, sono venuto a capo di qualche informazione circa questo fantomatico Fireball. Studiando il trailer la conclusione a cui si arriva è solo una: per quanto brutto possa essere il risultato finale, non avremo a che fare con la solita commedia sportiva US. Bene, bene.
Qui un breve comunicato stampa:
New movie Fireball is not only a new blend of action -- melding Muay Thai with basketball -- it's also the first film from a new Thai studio, albeit one with some familiar names behind it.They were behind such films as the original Bangkok Dangerous, Tears of the Black Tiger and Bang Rajan.
Story line - Tai gets out of jail to find that twin brother Tan had been in a coma for a year. He discovers that his brother had entered the world of Fireball, a violent game based on basketball hosted by an underground criminal gangs, so as to raise the money for Tai's early release. However, he was brutally beaten by another player Tun. Tai agrees to join Dens' team so that he can track down the man who hospitalized his brother.
Tai is befriended by his teammates: Singh, a Thai boxing champion who wants to prove that he is the best; Muk, a Thai-African guy who needs money to support his family; IQ, a cheerful character who only wants to help his mother; and K, an old friend of Tai's, who has a mysterious past. He and his teammates must risk their lives and fight their way to the final round of the deadly Fireball championships so that Tai can avenge his brother on the court.
lunedì 1 dicembre 2008
Like a dragon di Takashi Miike (Giappone/2007)
Paradossi a cui si va in contro se si decide di collaborare con Takashi Miike. Quando il produttore Toshiro Nagoshi decise di spingere la software house Sega a finanziare una controparte orientale di Grand Theft Auto, la scelta del fuorilegge di Osaka come regista per le scene di raccordo fu quasi automatica. Così come il capolavoro della Rockstar (soprattutto il capitolo ambientato a Vice City) non ha mai fatto mistero circa i suoi prestiti nei confronti dei grandi crime movies occidentali, era naturale che l’erede di Fukasaku (e, non per nulla, autore di un fantastico remake di una delle pietre miliari dello yakuza eiga a opera del maestro) fosse incaricato di donare un'aura cinematografica al progetto. Ma cosa succede se Miike finisce per essere incaricato anche della trasposizione del videogioco su grande schermo?
Like a dragon vale molto di più come cortocircuito di linguaggi che come opera filmica, forte di tutti i pregi e i difetti che ogni lungometraggio dell’iconoclasta giapponese comporta. La volontà di unire un cast oceanico (scelta che rimanda direttamente a Battles without honour and humanity e a tutti gli Yakuza papers seguenti) con una sceneggiatura a incastro di scuola Tarantinesca/Guy Ritchiana è quantomeno deleteria se messa a contatto con la concezione del ritmo narrativo di Miike. Come in ogni altra regia del Nostro i tempi si dilatano all’infinito per poi comprimersi all’improvviso, dando spazio infinito a parentesi (apparentemente) inutili per bruciare tutti gli snodi narrativi fondamentali in un pugno di minuti (si veda l’intro del primo DOA, un lungometraggio di ampio respiro riassunto in sette minuti). Affascinante cifra stilistica che in un contesto come il blockbuster appare invece come incapacità nella gestione dei tempi.
Ricollegandoci al concetto di cortocircuito Like a dragon è invece una prova di forza fenomenale. Rifiutando di tornare a girare un nuovo Agitator (200 minuti di sommesso e livido intimismo yakuza) Miike decide di punteggiare lo script di trovate al limite del surreale. Boss mafiosi che uccidono a colpi di palla da baseball, duelli molto John Woo ma con fucili a pompa al posto delle celebri Beretta, risse alla Tekken con tanto di auree vitali e pugni in fiamme, enormi elicotteri Huey capaci di volare rasoterra alle trafficate strade di Tokyo, miracolosi reintegratori vitaminici e un protagonista, Kiryu, dotato di tutto il carisma necessario a fissarsi a lungo nell’immaginario collettivo. Se il videogioco era dotato di una regia e di una sceneggiatura capace di elevarlo quasi allo status di film interattivo, così la sua trasposizione su pellicola fa di tutto per ricordarci da dove viene.
A una serie di trovate registiche stupefacenti per freschezza e audacia Miike affianca, come sempre, un lungo giro sull’ottovolante delle emozioni più viscerali. In Like a dragon si passa da farsa a dramma (e viceversa) senza soluzione di continuità, lasciando spesso spiazzati per la velocità con cui si viene sbalzati dall'umorismo cartoonesco al pathos dell’affresco criminale. Le trovate visive alternano un uso sorprendente del digitale (sempre esplicito) con immagini di una poesia e di una potenza mozzafiato, senza dimenticare i classici micro cut tanto cari al regista di Ichi the Killer.
Di certo non il miglior Miike, ma di sicuo l'ennesima dimostrazione di quanto questo cineasta stia riscrivendo le regole del cinema. Giapponese e non solo.
Person John Woo
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giovedì 27 novembre 2008
Antropoide 1&2 (Latitudine 42 Comics/2008)
Antropoide è rivoltante. Nel senso che fomenta una sovversione culturale partendo dai conati di vomito.
Non credete a chi vi dice che la pubblicazione in questione è stupenda, meravigliosa, superfantastica, perché avete a che fare con qualcuno che non ci ha capito nulla. Leggere Antropoide è l’equivalente cartaceo di un disco di Atrax Morgue o di una compilation di grind sintetico: è quasi impossibile che possiate trarre piacere e stimoli costruttivi da tale esperienza. Inutile prendersi in giro, certe proposte puntano solo all’annichilimento, alla pura aggressione sensoriale ed emotiva. Non esiste bellezza o grazia nella devianza della carne putrescente. E con Antropoide si parla proprio di questo.
Saltano le categorie di bello/brutto, sbriciolate sotto la potenza da bomba termonucleare degli autori raccolti in questa uscita, la pornografia più gratuita prende il posto dei discorsi tra le righe. Lo sguardo velato viene privato della sua sicurezza e violentato fino allo sfinimento. Meno dissacrante de La Scimmia ma dotato di una maggiore potenza destabilizzante, Antropoide si presenta come una sequela di illustrazioni che paiono derivare da qualche misconosciuto eroguru nipponico. La riuscita degli intenti di chi ha compilato tale patchwork dell’orrore è misurabile nella nostra disapprovazione, nei nostri sorrisi ebeti e cristallizzati, nell’impossibilità di realizzare come ci si deve comportare di fronte a certi stimoli.
Lasciamo da parte i discorsi su cosa possa essere considerato arte e cosa no, sull’effettiva utilità di certe sfumature della creatività, sul senso della censura. Prendiamo Antropoide e sfogliamolo. Ne usciremo con le ossa rotte e il volto livido. Complimenti Andrea Grieco, missione compiuta.
Person Andrea Grieco
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mercoledì 26 novembre 2008
Kurt Cobain Cherie/Io è Giacomo Leopardi di Saverio Montella (Passenger Press/2008)
Un pugno di storie semplici semplici. Disegnate con un tratto ingenuo, strutturate senza capo ne coda. Prive di effetti speciali, pugni allo stomaco o provocazioni gratuite. Eppure capaci di dire tanto, tantissimo. Così tra pastori filosofeggianti, pite vegetariane e passeggiate nei vicoli di Napoli ci si ritrova in una lettura profonda e sognante, capace di oscillare dall’inflessione dialettale alla riflessione sociologica. Un libro fatto solo di parentesi, di scorci poco importanti, di tempi persi fissando il soffitto della propria stanza. Una fuga dall’ansia da prestazione del moderno romanzo grafico, abbandonando altisonanti proclami d’autorialità costruiti sul nulla a favore di un’immersione completa nel mondo di Saverio Montella. Con tutti i pregi e i difetti del caso.
Come se si venisse in possesso di un taccuino privato dove non ci è dato di capire tutto, così questo Io è Giacomo Leopardi/Kurt Cobain Cherie si pone verso il lettore con una tale sincerità da mettere in imbarazzo. Le sovrastrutture scompaiono, la libertà di espressione prende il sopravvento e smette di preoccuparsi del lettore generalista. Ma anche di quello hard core o di quello affetto dalla nota sindrome di nicchia. Sembra che nelle rotative della tipografia sia caduto il volume sbagliato, che la vera opera sia stata dimenticata sulla scrivania di qualche editore. Si ha l’impressione di avere tra le mani un diario personale, una serie di appunti, un quadernetto scarabocchiato tuffando lo sguardo fuori dalla finestra. L’empatia arriva a livelli incomprensibili, i difetti diventano pregi perché sintomi di una non convenzionalità delicata e leggera.
Una finta semplicità che si rispecchia anche nella confezione del volume, dal formato e dai colori rassicuranti e che scompaiono nel mare di lustrini delle fumetterie. L’eleganza che viene dalla semplicità, impreziosita da curiose soluzioni come la flip cover.
Io è Giacomo Leopardi/Kurt Cobain Cherie non piacerà a tutti, risulterà ostico a chi nel fumetto cerca narrazione schematica e strutture seriali, grandi eventi e personaggi sopra le righe. Il tepore tranquillizzante del già noto, per quanto questo possa essere estremo e al limite. Perché a Saverio Montella non occorre urlare per destabilizzare e far riflettere.
Come se si venisse in possesso di un taccuino privato dove non ci è dato di capire tutto, così questo Io è Giacomo Leopardi/Kurt Cobain Cherie si pone verso il lettore con una tale sincerità da mettere in imbarazzo. Le sovrastrutture scompaiono, la libertà di espressione prende il sopravvento e smette di preoccuparsi del lettore generalista. Ma anche di quello hard core o di quello affetto dalla nota sindrome di nicchia. Sembra che nelle rotative della tipografia sia caduto il volume sbagliato, che la vera opera sia stata dimenticata sulla scrivania di qualche editore. Si ha l’impressione di avere tra le mani un diario personale, una serie di appunti, un quadernetto scarabocchiato tuffando lo sguardo fuori dalla finestra. L’empatia arriva a livelli incomprensibili, i difetti diventano pregi perché sintomi di una non convenzionalità delicata e leggera.
Una finta semplicità che si rispecchia anche nella confezione del volume, dal formato e dai colori rassicuranti e che scompaiono nel mare di lustrini delle fumetterie. L’eleganza che viene dalla semplicità, impreziosita da curiose soluzioni come la flip cover.
Io è Giacomo Leopardi/Kurt Cobain Cherie non piacerà a tutti, risulterà ostico a chi nel fumetto cerca narrazione schematica e strutture seriali, grandi eventi e personaggi sopra le righe. Il tepore tranquillizzante del già noto, per quanto questo possa essere estremo e al limite. Perché a Saverio Montella non occorre urlare per destabilizzare e far riflettere.
martedì 25 novembre 2008
Jeff Koons Versailles
Genio o buffone? Senz'altro furbo. Perchè più ti chiedi quale sia l'effettivo valore della sua arte, più questa acquista significato e valore (vi ricordate che Jeff Koons è l'artista vivente più pagato al mondo? Che il suo Hanging Heart vale più di 23.000.000 $?). Perchè la reputi elitaria, ma questa sarà la mostra più frequentata dell'anno (frequentata non significa visitata, quanta gente entra ogni giorno a Versailles?). Perchè ci puoi spendere tutte le parole che vuoi, ma il buon Jeff ha fregato tutti ancora una volta.
Amen.
Post di poche parole, ma dopo essersi trovati di fronte un Michael Jackson a grandezza naturale, in oro e porcellana, la capacita di contestualizzazione può anche venire meno.
Amen.
Post di poche parole, ma dopo essersi trovati di fronte un Michael Jackson a grandezza naturale, in oro e porcellana, la capacita di contestualizzazione può anche venire meno.
Person Michael Jackson
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venerdì 21 novembre 2008
Quando la scimmia pagò pegno al re
Domani e domenica sarò a Parigi per la mega mostra evento di sua maestà Jeff Koons. Che come artista conta talmente poco da essersi accaparrato la reggia di Versailles come palcoscenico di questa sua retrospettiva. Qui il sito ufficiale. Al ritorno resoconto dettagliato.
giovedì 20 novembre 2008
Che fine ha fatto Jon Chang?
C'era una volta una band che amava andare veloce. Troppo veloce. Una band che sfornava uno split dietro l'altro, ma che dette alle stampe solo tre dischi. Una band che partendo dalle ceneri dei gloriosi Human Remains diede il via a un nuovo modo di concepire la musica estrema. Senza mai raccogliere quanto gli doveva essere reso. Naturalmente si parla dei leggendari Discordance Axis.
Mi si scusi la qualità del video, ma questo ho trovato.
Mentre il batterista Dave Witte con il passare degli anni è diventato una sorta di Samuel L. Jackson del grind (nel senso che è presente in un numero spropositato di dischi) si erano perse le tracce dell'urlatore Jon Chang. Almeno fino a oggi. E così, grazia all'elitaria Hydrahead Records del genio Aaron Turner (padrone della casa discografica più figa del mondo, grafico di livello mondiale, chitarrista e mastermind degli Isis,... tutto prima dei 25 anni), eccoci sbattuti in faccia i due nuovi progetti del Nostro.
I Gridlink, definibili come fottuto grind core inferno nippoamericano.E i Hayaino Daisuki, che sono tipo thrash metal lanciato alla velocità della luce e registrato in cantina.
Mentre qui ci trovate il sito della sua software house, specializzata in videogame. Grandioso Jon, grind till death!
Mentre qui ci trovate il sito della sua software house, specializzata in videogame. Grandioso Jon, grind till death!
Person Aaron Turner
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mercoledì 19 novembre 2008
Giada 2: squadra antimostri di Sfascia, Bellardo, Rosenzweig (Edizioni Arcadia/2008)
Prendete la solita serie con protagonista un’adolescente dark dalla doppia vita. Un esempio qualsiasi, dalla statunitense Buffy alla pletora di proposte orientali a base vampirica e/o spiritistica. A questo punto date carta bianca a tre autori italici che fanno dell’esser sopra le righe cifra stilistica. Shakerate il tutto con la maggior dose di violenza possibile e avrete Giada.
Sospesa tra incubo Tromesco e teen serial di metà anni ’90, la serie targata Edizioni Arcadia arriva alla sua terza uscita marcando una curva di miglioramento costantemente impennata verso l’alto. Dopo uno speciale, stupendo dal punto di vista grafico ma carente sul lato della storia, Federico Sfascia torna ai testi regalandoci una vicenda frizzante e imprevedibile. Proprio come dovrebbero esserlo tutte quelle in cui si parla di adolescenti, mostri e cospirazioni religiose. Giada procede per accumulo, facendo del menefreghismo verso autorialità e rigore un autentico punto fermo nel suo sgangherato universo. La carne al fuoco è tanta che congruenza e lucidità di visione perdono importanza, a vantaggio di uno scatenato giro sull’ottovolante più esagerato del luna park.
In Giada tutto è troppo. Troppo esplicite le allusioni sessuali (si parla sempre di adolescenti, quindi fatevi i vostri calcoli), troppo piene le vignette, troppo splatter i combattimenti, troppo stereotipati i personaggi, troppo frequenti gli eccessi. E per tutte queste ragioni funziona in maniera magnifica. Senza nessun tipo di pretese, senza rincorrere il mercato, senza considerare il lettore come un deficiente a cui far credere che tutto quello che non capisce è arte (e che quindi può leggere solo pattume da supermercato). Gli autori di Giada giocano con il loro amore sconfinato per il fumetto, sporgendosi senza pudore sul filo del rasoio che separa buon cattivo gusto da semplice ciarpame. La creatura di casa Arcadia è un fumetto che sovverte l’ordine tra alto e basso, che prende il fumetto nella sua accezione più pura e ce lo restituisce distillato e, in un certo senso, idealizzato.
Una serie che sarebbe perfetta se serializzata, anche solo per far rabbia a Walter Benjamin e ai suoi seguaci.
Sospesa tra incubo Tromesco e teen serial di metà anni ’90, la serie targata Edizioni Arcadia arriva alla sua terza uscita marcando una curva di miglioramento costantemente impennata verso l’alto. Dopo uno speciale, stupendo dal punto di vista grafico ma carente sul lato della storia, Federico Sfascia torna ai testi regalandoci una vicenda frizzante e imprevedibile. Proprio come dovrebbero esserlo tutte quelle in cui si parla di adolescenti, mostri e cospirazioni religiose. Giada procede per accumulo, facendo del menefreghismo verso autorialità e rigore un autentico punto fermo nel suo sgangherato universo. La carne al fuoco è tanta che congruenza e lucidità di visione perdono importanza, a vantaggio di uno scatenato giro sull’ottovolante più esagerato del luna park.
In Giada tutto è troppo. Troppo esplicite le allusioni sessuali (si parla sempre di adolescenti, quindi fatevi i vostri calcoli), troppo piene le vignette, troppo splatter i combattimenti, troppo stereotipati i personaggi, troppo frequenti gli eccessi. E per tutte queste ragioni funziona in maniera magnifica. Senza nessun tipo di pretese, senza rincorrere il mercato, senza considerare il lettore come un deficiente a cui far credere che tutto quello che non capisce è arte (e che quindi può leggere solo pattume da supermercato). Gli autori di Giada giocano con il loro amore sconfinato per il fumetto, sporgendosi senza pudore sul filo del rasoio che separa buon cattivo gusto da semplice ciarpame. La creatura di casa Arcadia è un fumetto che sovverte l’ordine tra alto e basso, che prende il fumetto nella sua accezione più pura e ce lo restituisce distillato e, in un certo senso, idealizzato.
Una serie che sarebbe perfetta se serializzata, anche solo per far rabbia a Walter Benjamin e ai suoi seguaci.
Person Walter Benjamin
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lunedì 17 novembre 2008
Daredevil: Battlin' Jack Murdock di Carmine di Giandomenico (Panini/2008).
Come si può riscrivere una storia di cui si sa già tutto? Come si può competere con autentici giganti del fumetto statunitense sul loro campo da gioco? Come ci si prende la responsabilità di essere il primo autore italiano a scrivere e disegnare una miniserie Marvel? Chiedetelo a Carmine di Giandomenico, enorme (e troppo spesso dimenticato) talento del fumetto nostrano.
Battlin’ Jack Murdock riesce a raccontare di super eroi senza mostrare un costume, di melodramma senza sfociare nel patetico, di grandi uomini senza nessun tipo di retorica. Dilatando per tutta la lunghezza del volume l’ultimo combattimento di Jack Murdock, padre del ben più noto Matt, di Giandomenico getta lo scheletro su cui una ragnatela di flashback dipingerà la parabola di un uomo con cui la vita è stata troppo arida. Portando una profondità tutta europea in un contesto fin troppo US, e rafforzando il tutto con un cinismo strisciante legato a doppio filo con la sua italianità, l’autore ci accompagna verso un finale che stupisce per come la gestione dei personaggi non permetta a sentimenti fortissimi di trascinare il pathos della vicenda in territori da soap opera.
Di Giandomenico toglie l’infallibile eroe dal centro del fumetto, dimentica effetti speciali e pornografia muscolare, per rimetterci un uomo che non riesce a muoversi senza sbagliare. Jack e il ricco cast di comprimari riempiono ogni vignetta di ogni tavola, nella gran parte dei casi ne travalicano i limiti limitandosi a mostrarci figure tagliate, particolari o sguardi. Troppo veri per essere contenuti in quattro linee tracciate su di un foglio di carta. Il tratto di Carmine è particolareggiato, vigoroso ma adatto a tratteggiare emozioni sui volti di un microcosmo fatto di soprusi e voglia di rivalsa, perfetto per una storia che richiede fisicità più che voli pindarici.
La potenza metaforica dell’incontro di boxe, un uomo contro un altro uomo, solo fiumi di sangue e sudore tra di loro, amplifica la potenza narrativa dei flashback e descrive alla perfezione l’orgoglio e la dignità di un uomo capace di porre il figlio davanti a tutto. Anche a se stesso. La vita come un ring, dove conta solo il proprio valore, dove le parole sono inutili e sono solo i fatti a contare. L’unico posto al mondo dove puoi veramente dimostrare chi sei e cosa vali. Ma anche un campo di battaglia dove molto è tacitamente ammesso, e dove non sono pochi quelli disposti a tutto pur di vincere.
Riuscendoci.
giovedì 13 novembre 2008
[poster] Death of a hostage di Johnnie To (2008/HK)
Johnnie To, il mio regista preferito in assoluto, ci aveva assicurato che non avrebbe più lavorato a tre film contemporaneamente. Noi, dopo il capolavoro assoluto Exiled (miglior noir degli ultimi 15 anni), l'esperimento Triangle, la coregia di Mad Detective, la marchetta Linger e la commedia The Sparrow, ci avevamo creduto. Poi sono arrivati i fondi francesi per il remake di Red Circle, del mai troppo compianto Melville, e la produzione del nuovo Soi Cheung. E ci credevamo ancora di più. Fino a questa news.
Come si spegne quell'uomo?
Come si spegne quell'uomo?
mercoledì 12 novembre 2008
[ma quanto lo aspetto?] Mastodon Boxset
I Mastodon sono, evitando di contare ottuagenari, la più grande band vivente. Gli unici, con i Dillinger Escape Plan, a poter puntare al grado di classico senza tempo. Tre dischi, tre capolavori (proprio come i Dillinger). E adesso se ne escono con questo cofano tank, tra l'altro a un prezzo esorbitante. Maledetti bastardi.
Toxic Holocaust - An overdose of death... (Relapse/2008)
Alla fine non riesci a spiegarti perché “An Overdose Of Death…” continua a finire nel lettore cd. E’ rozzo, poco originale e, oltretutto, la copertina è una merda. La cosa più giusta sarebbe scagliarlo in un angolo del dimenticatoio, fare finta di nulla, togliere il cellophane al nuovo All Shall Perish e dedicarsi all’ascolto dell’ennesimo manifesto del post death core. Eppure non funziona così. Joel Grind ha la misteriosa capacità di spegnerci il cervello, affumicandolo con una cortina di thrash metal dalla spiccata attitudine punk’n’roll, e di trascinarci in un cheapissimo post atomico anni 80. Quelli con Luigi Montefiori nella parte del cattivo, per capirci. Così ci si ritrova a fare le corna e a ondeggiare la testa, sognando di indossare un gilet di jeans con le toppe dei Possesed, urlando a squarciagola slogan deliranti alla stregua di “Nuke the cross!”. Mancano solo l’amico di una vita e una sestina di birre a testa per completare un quadretto nostalgico che puzza di adolescenza da qualche chilometro di distanza. Forse questo disco è così bello proprio per la sua capacità di restituirci un amore per la musica ignorante e incontaminato, senza sovrastrutture che ti spingono a cercare il disco sempre più al limite. Scordatevi l’ultimo Metallica, il vero thrasher troverà nei Toxic Holocaust tutta quell’immediatezza, quella sfacciataggine e quell’amore sconfinato per il cattivo gusto che facevano grandi i dischi di vent’anni fa. Un’autentica pausa da tutto.
Person Joel Grind
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martedì 11 novembre 2008
Milano criminale: la città esige vendetta (pt.2) di Cajelli e Ferrario (Edizioni BD/2008)
Devo ammettere che alla conclusione del primo volume di Milano criminale: la città esige vendetta ero rimasto piuttosto dubbioso: sfuggiti al rischio del classico giochino citazionista, Cajelli e Ferrario si avviavano verso la riproposta filologicamente perfetta del poliziesco anni ’70. Una ricostruzione maniacale, seguito di un lavoro di ricerca serio e approfondito, restituiva al lettore un ibrido tra “Roma a mano armata” e “Uomini si nasce, poliziotti si muore”. Il valore iconografico del primo (che rimane il poliziesco per antonomasia, nonostante si tratti di una speculazione sul prototipo “La polizia incrimina, la legge assolve”) incontra la potenza scardinatrice della sceneggiatura DiLeiana (ma anche della regia sempre sopra le righe di un Deodato non ancora prigioniero di se stesso) del secondo, andando a completare un quadro esemplare. Forse troppo, e qui ritorno sui miei dubbi. Il volume poteva essere esaltante per chi era a digiuno di Lenzi e Castellari, ma rappresentava una proposta troppo puntuale nell’aderire al suo originale per chi, con quei film, si è bruciato l’adolescenza.
Tutti dubbi fugati da questo secondo capitolo. Con il dipanarsi della vicenda Cajelli riesce a dimostrare quanto la visione dalla distanza possa essere utile in un tipo di narrazione che trae ispirazione prima di tutto dal reale. Gli autori di Milano criminale riprendono una serie di cliché e caratterizzazioni tipiche dei ‘70 per innestarle alla conoscenza che si ha di quegli eventi a quasi 40 anni di distanza. Come risultato i due milanesi danno alle stampe un poliziesco che distilla attraverso il filtro della storia tutto ciò che era già contenuto in potenza negli originali, trame politiche e sociali all’epoca senza privilegio dell’invecchiamento, ma che oggi riusciamo a leggere con l’ottica corretta. Si avverte la sensazione di uno spostamento da “Milano trema: la polizia vuole giustizia” verso la narrazione a ventaglio di “La polizia accusa: il Servizio Segreto uccide”, con la speranza che si arrivi alla profondità di “Confessioni di un Commissario di Polizia al Procuratore della Repubblica”.
Plauso per la scorrevolezza dei dialoghi, così veri ma al contempo indissolubilmente legati alla mitologia italica della frase lapidaria (vedi alla voce spaghetti western), e per il magnifico lavoro di Ferrario nel fondere disegni e fotografia in maniera del tutto organica e originale. Interessante come il suo stile così cartoonesco si sposi alla perfezione con la durezza della trama e come una costruzione della tavola piuttosto convenzionale non riesca a sferzarne dinamismo e appeal cinematografico. Sono cose che succedono quando si è gran bravi a fare il proprio lavoro.
Aldilà di tutta la dietrologia possibile sui crime movies settantiani Milano criminale è un fumetto splendido, che riesce a essere accessibile (e comprensibile) a chiunque, nonostante la sua ricercatezza e minuziosità. Si attende con ansia il terzo capitolo.
Tutti dubbi fugati da questo secondo capitolo. Con il dipanarsi della vicenda Cajelli riesce a dimostrare quanto la visione dalla distanza possa essere utile in un tipo di narrazione che trae ispirazione prima di tutto dal reale. Gli autori di Milano criminale riprendono una serie di cliché e caratterizzazioni tipiche dei ‘70 per innestarle alla conoscenza che si ha di quegli eventi a quasi 40 anni di distanza. Come risultato i due milanesi danno alle stampe un poliziesco che distilla attraverso il filtro della storia tutto ciò che era già contenuto in potenza negli originali, trame politiche e sociali all’epoca senza privilegio dell’invecchiamento, ma che oggi riusciamo a leggere con l’ottica corretta. Si avverte la sensazione di uno spostamento da “Milano trema: la polizia vuole giustizia” verso la narrazione a ventaglio di “La polizia accusa: il Servizio Segreto uccide”, con la speranza che si arrivi alla profondità di “Confessioni di un Commissario di Polizia al Procuratore della Repubblica”.
Plauso per la scorrevolezza dei dialoghi, così veri ma al contempo indissolubilmente legati alla mitologia italica della frase lapidaria (vedi alla voce spaghetti western), e per il magnifico lavoro di Ferrario nel fondere disegni e fotografia in maniera del tutto organica e originale. Interessante come il suo stile così cartoonesco si sposi alla perfezione con la durezza della trama e come una costruzione della tavola piuttosto convenzionale non riesca a sferzarne dinamismo e appeal cinematografico. Sono cose che succedono quando si è gran bravi a fare il proprio lavoro.
Aldilà di tutta la dietrologia possibile sui crime movies settantiani Milano criminale è un fumetto splendido, che riesce a essere accessibile (e comprensibile) a chiunque, nonostante la sua ricercatezza e minuziosità. Si attende con ansia il terzo capitolo.
lunedì 10 novembre 2008
Crimini Finanziari di Malka e Mutti (Edizioni BD/2008)
Un titolo che meno attraente non potrebbe essere (a proposito, perché non optare per l’acuta e sottile traduzione inglese?), un argomento non proprio alla portata di tutti e uno stile di narrazione che fa dell’essere anti spettacolare il suo punto di forza. Bisogna dire che alla BD hanno coraggio da vendere. In questo caso ben riposto.
Dalla prima all’ultima pagina saranno almeno quattro o cinque le occasioni in cui la squadra protagonista di Crimini Finanziari si raccoglie per riassumere i fatti e tirare le fila della vicenda. Una scelta narrativa che spesso cade nel classico “spiegone”, ma che in questo caso rappresenta alla perfezione l’opera di cui si sta parlando, ponendosi esattamente all’antitesi della sua controparte statunitense. Perché se in un caso, quello US, la razionalizzazione di una vicenda ne ammazza pathos e potenza drammatica, nel caso del fumetto di Richard Malka e Andrea Mutti si ha una completa immersione in una matassa narrativa di proporzioni quasi ingestibili. Personaggi, dati, locations, scambi tra reale e finzione, tutto in una quantità esagerata e compresso dentro una foliazione che sembrerà sempre e comunque riduttiva. Non è un caso se per tutte le 144 pagine di questo tomo le vignette si moltiplicano, si frammentano, riempiono la pagina in maniera quasi parossistica. E all’interno di ogni singola sequenza abbiamo personaggi che parlano tanto, tantissimo. Parlano di numeri, tecnicismi finanziari e politica, sorprendendoci come le poche frasi a effetto inserite quasi a forza da Malka risultino fuori luogo in un flusso di informazioni che pare troppo vero per essere relegato al genere. Anche la struttura narrativa ne risente, muovendosi per ellissi e lasciando spesso il compito al lettore di decifrarne svolte e colpi di scena. La scelta di non rallentare mai il ritmo, di non dare un attimo di respiro neppure alle svolte più importanti (non dico splash page come se piovesse, ma almeno una vignetta più grande di un francobollo ogni tanto non sarebbe stata male), stordisce il lettore e lo fa sentire minuscolo, come se la sua presenza non fosse desiderata o comunque gradita. Una scelta di coraggio, che da spessore e realismo impossibili da ottenere in altri modi, ma che rende la lettura spesso difficile da seguire. Come si sarà già capito, Crimini Finanziari non è un fumetto per tutti. Grazie ancora BD, per non considerarci come una massa di nerd interessati solo all'ultimo megacrossover da discount.
Leggere Crimini Finanziari è un po’ come essere travolti da un treno in corsa: enorme, veloce e inarrestabile. Se si volesse essere un po’ più cinici si potrebbero mettere in disparte paragoni ferroviari per lasciare spazio a leggi economiche e flussi di denaro, arrivando alla conclusione che in questo senso l’opera è metafora perfetta dei nostri tempi. Peccato per le occasionali svisate in territori televisivi o per le facilonerie che punteggiano qua e la il dipanarsi della trama, ma il risultato è comunque ottimo. Immaginatevi uno 007, con tanto di cospirazione mondiale, alle prese con qualcosa di infinitamente più grande di quello che tratta solitamente (è la prima volta che trovo in un libro cifre così alte da aver bisogno di note a margine per poterle capire). Dimenticatevi cocktail e locations esotiche per calarvi in studi legali, banche e paradisi fiscali. In Crimini Finanziari si fa sul serio, attentati e scalate si susseguono senza sosta, e per riderci sopra ci sarà sempre tempo. Forse.
Dalla prima all’ultima pagina saranno almeno quattro o cinque le occasioni in cui la squadra protagonista di Crimini Finanziari si raccoglie per riassumere i fatti e tirare le fila della vicenda. Una scelta narrativa che spesso cade nel classico “spiegone”, ma che in questo caso rappresenta alla perfezione l’opera di cui si sta parlando, ponendosi esattamente all’antitesi della sua controparte statunitense. Perché se in un caso, quello US, la razionalizzazione di una vicenda ne ammazza pathos e potenza drammatica, nel caso del fumetto di Richard Malka e Andrea Mutti si ha una completa immersione in una matassa narrativa di proporzioni quasi ingestibili. Personaggi, dati, locations, scambi tra reale e finzione, tutto in una quantità esagerata e compresso dentro una foliazione che sembrerà sempre e comunque riduttiva. Non è un caso se per tutte le 144 pagine di questo tomo le vignette si moltiplicano, si frammentano, riempiono la pagina in maniera quasi parossistica. E all’interno di ogni singola sequenza abbiamo personaggi che parlano tanto, tantissimo. Parlano di numeri, tecnicismi finanziari e politica, sorprendendoci come le poche frasi a effetto inserite quasi a forza da Malka risultino fuori luogo in un flusso di informazioni che pare troppo vero per essere relegato al genere. Anche la struttura narrativa ne risente, muovendosi per ellissi e lasciando spesso il compito al lettore di decifrarne svolte e colpi di scena. La scelta di non rallentare mai il ritmo, di non dare un attimo di respiro neppure alle svolte più importanti (non dico splash page come se piovesse, ma almeno una vignetta più grande di un francobollo ogni tanto non sarebbe stata male), stordisce il lettore e lo fa sentire minuscolo, come se la sua presenza non fosse desiderata o comunque gradita. Una scelta di coraggio, che da spessore e realismo impossibili da ottenere in altri modi, ma che rende la lettura spesso difficile da seguire. Come si sarà già capito, Crimini Finanziari non è un fumetto per tutti. Grazie ancora BD, per non considerarci come una massa di nerd interessati solo all'ultimo megacrossover da discount.
Leggere Crimini Finanziari è un po’ come essere travolti da un treno in corsa: enorme, veloce e inarrestabile. Se si volesse essere un po’ più cinici si potrebbero mettere in disparte paragoni ferroviari per lasciare spazio a leggi economiche e flussi di denaro, arrivando alla conclusione che in questo senso l’opera è metafora perfetta dei nostri tempi. Peccato per le occasionali svisate in territori televisivi o per le facilonerie che punteggiano qua e la il dipanarsi della trama, ma il risultato è comunque ottimo. Immaginatevi uno 007, con tanto di cospirazione mondiale, alle prese con qualcosa di infinitamente più grande di quello che tratta solitamente (è la prima volta che trovo in un libro cifre così alte da aver bisogno di note a margine per poterle capire). Dimenticatevi cocktail e locations esotiche per calarvi in studi legali, banche e paradisi fiscali. In Crimini Finanziari si fa sul serio, attentati e scalate si susseguono senza sosta, e per riderci sopra ci sarà sempre tempo. Forse.
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