


In occidente quasi neppure sappiamo cosa significi mecha design. Questo non pare comunque abbastanza per fermare il francese Zamak, che riesce anche a fornire un'interpretazione tutta europea di questa disciplina tipicamente nipponica.




Alla Ponyhell Records non hanno mezze misure. Il loro scopo è sempre stato quello di diffondere e supportare le più sghembe forme di noise, fregandosene alla grande di tutto quello che non è underground.


Fino al 10 gennaio, presso la galleria parigina Emmanuel Perrotin, sarà possibile visitare Nobody Dies, l'ultima mostra del nipponico Mr. Esponente della corrente del superflat, pungente osservatore della nostra realtà mediata, abile manipolatore di medium e linguaggi. Insomma, un gran figo. Anche se, per essere sinceri, c'è qualcuno che tutto questo l'ha gia fatto nel 2002. Parlo di uno dei registi più incompresi degli ultimi anni. Parlo di Kenta Fukasaku.

Basta! Qualcuno ricordi ai giapponesi quanto è stato grande il loro cinema. Ne ho francamente piene le palle di ragazze mitragliatrici, macchine delle polpette e katane da Final Fantasy. Eppure c'e chi, come Tak Sakaguchi (protagonista di Versus, regista di Be a man samurai school), ancora non l'ha capito. Si prevede diffusione capillare tra i circolini del bizzarro a tutti i costi, festival del retrobottega, classifiche di fine anno (prossimo). Io passo.
Vengono dalla Tasmania e fanno un casino di male. Proprio come il noto personaggio dei cartoni animati gli Psycroptic ci aggrediscono con un attacco ipercinetico e inarrestabile, un’autentica forza della natura. Con lo sbriciolamento delle barriere tra HC, death e grind ormai realtà tangibile è lecito aspettarsi da ogni uscita un alternarsi furibondo tra assalti ferini e rallentamenti spaccaossa, ma ben poche volte ci si è trovati in presenza di un esperimento così ben riuscito. Prendendo le distanze dal groove quasi NY dei Despised Icon o dagli eccessi math di band come Red Chord o Animosity, i Nostri preferiscono intraprendere un percorso del tutto personale. Meno colti e corrosivi dei neo zelandesi Ulcerate, ne condividono freschezza e allergia al già sentito (oltre che continente). Una ricerca spasmodica verso un modernismo tutto votato all’impatto si sposa alla perfezione con una costruzione millimetrica di ritmi e strutture, garantendo sempre e comunque un ascolto scorrevole. Nonostante si stia maneggiando materiale che necessita di tutta l’attenzione possibile per non rimanerne scottati. Un lavoro che parrà poco più che discreto a chi concepisce l’estremo come accozzaglia di riff e cantati da lavandino intasato, ma imperdibile per chi non può vivere senza un cambio di riff ogni 2 secondi, vocals al vetriolo e strutture che sembrano prese dal seminale Calculating Infinity. L’impressione ultima è che il percorso da Unique Leader, passando per Neurotic Records e concludendo per la major Nuclear Blast abbia fornito ai Nostri la sicurezza necessaria per allontanarsi dallo spettro di ennesimo gruppo clone dei Suffocation, regalandoci l’ennesima grande band. Cosa chiedere di più?







Presso la prestigiosa Saatchi Gallery di Londra va in scena The Revolution Continues: New Chinese Art, interessante mappatura delle correnti artistiche provenienti dalla nuova superpotenza mondiale. Che ora ci appare più problematica e contradditoria che mai.

Un pugno di storie semplici semplici. Disegnate con un tratto ingenuo, strutturate senza capo ne coda. Prive di effetti speciali, pugni allo stomaco o provocazioni gratuite. Eppure capaci di dire tanto, tantissimo. Così tra pastori filosofeggianti, pite vegetariane e passeggiate nei vicoli di Napoli ci si ritrova in una lettura profonda e sognante, capace di oscillare dall’inflessione dialettale alla riflessione sociologica. Un libro fatto solo di parentesi, di scorci poco importanti, di tempi persi fissando il soffitto della propria stanza. Una fuga dall’ansia da prestazione del moderno romanzo grafico, abbandonando altisonanti proclami d’autorialità costruiti sul nulla a favore di un’immersione completa nel mondo di Saverio Montella. Con tutti i pregi e i difetti del caso.
Genio o buffone? Senz'altro furbo. Perchè più ti chiedi quale sia l'effettivo valore della sua arte, più questa acquista significato e valore (vi ricordate che Jeff Koons è l'artista vivente più pagato al mondo? Che il suo Hanging Heart vale più di 23.000.000 $?). Perchè la reputi elitaria, ma questa sarà la mostra più frequentata dell'anno (frequentata non significa visitata, quanta gente entra ogni giorno a Versailles?). Perchè ci puoi spendere tutte le parole che vuoi, ma il buon Jeff ha fregato tutti ancora una volta.
Domani e domenica sarò a Parigi per la mega mostra evento di sua maestà Jeff Koons. Che come artista conta talmente poco da essersi accaparrato la reggia di Versailles come palcoscenico di questa sua retrospettiva. Qui il sito ufficiale. Al ritorno resoconto dettagliato.
C'era una volta una band che amava andare veloce. Troppo veloce. Una band che sfornava uno split dietro l'altro, ma che dette alle stampe solo tre dischi. Una band che partendo dalle ceneri dei gloriosi Human Remains diede il via a un nuovo modo di concepire la musica estrema. Senza mai raccogliere quanto gli doveva essere reso. Naturalmente si parla dei leggendari Discordance Axis.
I Gridlink, definibili come fottuto grind core inferno nippoamericano.
E i Hayaino Daisuki, che sono tipo thrash metal lanciato alla velocità della luce e registrato in cantina.

Johnnie To, il mio regista preferito in assoluto, ci aveva assicurato che non avrebbe più lavorato a tre film contemporaneamente. Noi, dopo il capolavoro assoluto Exiled (miglior noir degli ultimi 15 anni), l'esperimento Triangle, la coregia di Mad Detective, la marchetta Linger e la commedia The Sparrow, ci avevamo creduto. Poi sono arrivati i fondi francesi per il remake di Red Circle, del mai troppo compianto Melville, e la produzione del nuovo Soi Cheung. E ci credevamo ancora di più. Fino a questa news.
I Mastodon sono, evitando di contare ottuagenari, la più grande band vivente. Gli unici, con i Dillinger Escape Plan, a poter puntare al grado di classico senza tempo. Tre dischi, tre capolavori (proprio come i Dillinger). E adesso se ne escono con questo cofano tank, tra l'altro a un prezzo esorbitante. Maledetti bastardi.
Alla fine non riesci a spiegarti perché “An Overdose Of Death…” continua a finire nel lettore cd. E’ rozzo, poco originale e, oltretutto, la copertina è una merda. La cosa più giusta sarebbe scagliarlo in un angolo del dimenticatoio, fare finta di nulla, togliere il cellophane al nuovo All Shall Perish e dedicarsi all’ascolto dell’ennesimo manifesto del post death core. Eppure non funziona così. Joel Grind ha la misteriosa capacità di spegnerci il cervello, affumicandolo con una cortina di thrash metal dalla spiccata attitudine punk’n’roll, e di trascinarci in un cheapissimo post atomico anni 80. Quelli con Luigi Montefiori nella parte del cattivo, per capirci. Così ci si ritrova a fare le corna e a ondeggiare la testa, sognando di indossare un gilet di jeans con le toppe dei Possesed, urlando a squarciagola slogan deliranti alla stregua di “Nuke the cross!”. Mancano solo l’amico di una vita e una sestina di birre a testa per completare un quadretto nostalgico che puzza di adolescenza da qualche chilometro di distanza. Forse questo disco è così bello proprio per la sua capacità di restituirci un amore per la musica ignorante e incontaminato, senza sovrastrutture che ti spingono a cercare il disco sempre più al limite. Scordatevi l’ultimo Metallica, il vero thrasher troverà nei Toxic Holocaust tutta quell’immediatezza, quella sfacciataggine e quell’amore sconfinato per il cattivo gusto che facevano grandi i dischi di vent’anni fa. Un’autentica pausa da tutto.
Devo ammettere che alla conclusione del primo volume di Milano criminale: la città esige vendetta ero rimasto piuttosto dubbioso: sfuggiti al rischio del classico giochino citazionista, Cajelli e Ferrario si avviavano verso la riproposta filologicamente perfetta del poliziesco anni ’70. Una ricostruzione maniacale, seguito di un lavoro di ricerca serio e approfondito, restituiva al lettore un ibrido tra “Roma a mano armata” e “Uomini si nasce, poliziotti si muore”. Il valore iconografico del primo (che rimane il poliziesco per antonomasia, nonostante si tratti di una speculazione sul prototipo “La polizia incrimina, la legge assolve”) incontra la potenza scardinatrice della sceneggiatura DiLeiana (ma anche della regia sempre sopra le righe di un Deodato non ancora prigioniero di se stesso) del secondo, andando a completare un quadro esemplare. Forse troppo, e qui ritorno sui miei dubbi. Il volume poteva essere esaltante per chi era a digiuno di Lenzi e Castellari, ma rappresentava una proposta troppo puntuale nell’aderire al suo originale per chi, con quei film, si è bruciato l’adolescenza.
Un titolo che meno attraente non potrebbe essere (a proposito, perché non optare per l’acuta e sottile traduzione inglese?), un argomento non proprio alla portata di tutti e uno stile di narrazione che fa dell’essere anti spettacolare il suo punto di forza. Bisogna dire che alla BD hanno coraggio da vendere. In questo caso ben riposto.