giovedì 31 gennaio 2008

Fall Of Serenity - The Crossfire


Niente di che. Trovate la mia recensione a questo indirizzo:


http://www.haternal.com/haternal-4/dett-pezzo.asp?PezId=7197


Resto sempre più convinto che estremo oggi significhi altro.

martedì 29 gennaio 2008

Contra 4: retrofilologia videoludica


Che quello ludico sia un linguaggio che abbia influenzato praticamente tutto l’immaginario collettivo degli ultimi anni è dato di fatto. Che abbia influenzato anche l’arte in senso “alto” è un discorso che in molti ancora si rifiutano di credere (e a questi consiglio vivamente la lettura di “Gamescenes. Art in the Age of Videogames” di Bittanti e Quaranta, edizioni Johan & Levi) ma che presto tutti dovranno ammettere. Da questo punto di partenza era logico che prima o poi si arrivasse a una critica del videogioco e a un suo studio filologico. Se la critica ancora langue e difficilmente viene riconosciuta (casi a parte come il seminale testo “Videogame Art” a opera di Nick Kelman) la ricerca filologia viene portata avanti proprio all’interno del medium e, in questo campo, il piccolo cult “Contra 4” è un capolavoro.


Capolavoro perché una simile precisione nella ricerca linguistica e iconografica non può essere solo il frutto di una mera operazione nostalgica. In C4 tutto è incredibilmente uguale a come si presentava vent’anni fa, ma senza risultare invecchiato di un giorno. C’è l’intro con le figure bidimensionali che si sovrappongono, la musica metal/midi e valanghe di nemici, eppure ci giochi tranquillamente dopo aver sfilato dal tuo fedele DS (rosa, nel mio caso) la cartuccia di Zelda. Questo perché dietro a ogni minimo particolare c’è uno studio esorbitante su cosa rendeva il tale aspetto così tipico, permettendone l’aggiornamento senza la snaturazione del carattere originale. Esempio banale: nella famosa intro le sagome sono ancora 2D, ma incredibilmente definite. C4 è un gioco finto, costruito in laboratorio, dove tutto è al suo posto: c’è il livello nella giungla, il boss elicottero e i power up contrassegnati da lettere sfavillanti. Ma tutto viene portato al parossismo, rendendolo una versione reale dell’idealizzazione che ci siamo fatti di quei shot’em up con cui bruciavamo i pomeriggi. In questo il vero colpo di genio sta nella difficoltà media del gioco, che si pone come target i più duri HC gamers, tanto esagerata da renderlo quasi ingiocabile. E quindi assolutamente perfetto.

L'unica pecca di questa gemma risulta essere frutto del regime politicamente corretto imperante in questi anni: ogni sottesto omosessuale, caratteristica fissa del genere fin dai tempi della mitica mossa in coppia di Double Dragon, è stato eliminato, lasciando spazio solo a uno spassoso machismo di stampo tipicamente reazionario.

domenica 27 gennaio 2008

Mechenosets di Filipp Yankovsky


Sasha ha due grossissimi problemi: in primo luogo è un bastardo sociopatico, freddo come un blocco di ghiaccio e incapace di non venire alle mani. In seconda istanza ha il simpatico dono, ogni qualvolta perda le staffe, di generare una lama dal palmo della sua mano destra. Più sarà la rabbia, più grande e potente sarà l’arma. Il regista russo Filipp Yankovsky, da parte sua e con nostro grandissimo sollazzo, invece non ha nessun tipo di problema: prende una storia che pare uno spinoff di qualche live action statunitense e, contrariamente a quanto avrebbero fatto i cugini d’oltreoceano, ne gira una bella trasposizione su celluloide.

Un comparto scenico e sonoro raffinatissimo avvicinano più volte questo lavoro al concetto di tableaux vivants, in vette che fino a ora si erano viste solamente in Sud Corea, con il genio Park Chan Wook e il sottovalutato Kim Ji Woon (chi non si commuove con il suo heroic bloodshed “A Bittersweet Life“ merita incondizionatamente l’etichetta di mostro-senza-cuore). Nonostante tutto il film abbia un andamento musicale (facendosi accompagnare unicamente da cupi archi e suggestioni orchestrali) e le immagini siano pesantemente trattate per garantirne una fotografia strepitosa, non si cade mai nel tranello del videoclip casinaro alla Saw.

Nel film si parla pochissimo e tutte le scene d’azione vengono rilegate all’interno di ellissi che non fanno che accrescere la paura per un arma/maledizione a cui non viene data nessuna spiegazione, negandone anche la vista e rilegando gli unici effetti speciali agli ultimi cinque minuti. Scelta di una classe infinita, che va a sposarsi con movimenti di macchina sinuosi e mai fini a se stessi, con scelte di montaggio coraggiose. Il film racconta senza mostrare nulla, facendoci vivere il prima e il dopo di ogni colluttazione, saltando a pie pari frangenti potenzialmente spettacolari per indugiare a camera fissa sulla solitudine di Sasha, cupo e pensieroso su di un tetto di qualche palazzone ex sovietico.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il film non ha nulla del pretenzioso, i silenzi non sono un vezzo autoriale quanto una necessità per poter rendere appieno la personalità del nostro antieroe. Una forte componente melodrammatica allontana definitivamente il pericolo di un film sterile e borioso, immergendoci in una vicenda che cattura il suo pubblico solo in virtù dei sentimenti estremi che vi provoca. Mechenosets ti agguanta senza mostrare esplosioni ogni venti secondi, senza azione esasperata, senza dialoghi da duro anni ’80, senza accelerazioni e rallentamenti di ogni singolo movimento di macchina. E tanto basta, anche se alcune pecche sono comunque disseminate nei suoi 110 minuti di durata, in primis una direzione dei comprimari (a differenza di Artyom “Sasha” Tkachenko, eccezionale) non sempre efficace. Piccole cose comunque, soprattutto se confrontate con il tour de force stilistico e narrativo dell’intera opera.

Titolo originale: Меченосец
Regia: Filipp Yankovsky
Sceneggiatura:
Yevgeni Danilenko , Konstantin Syngayevsky
Fotografia: Marat Adelshin
Montaggio: Yaroslav Mochalov
Musiche: Igor Vdovin
Nazione: Russia
Anno: 2006
Durata: 108 min.

sabato 26 gennaio 2008

ROBOTTONI GIGANTI



Un bel giorno io e un mio caro amico ci ficcammo in testa l'idea di una band grind che fosse ispirata tanto ai videogiochi anni '80 quanto al noise meno serioso, tipo le ultime Melt Banana. Ne venne fuori un frullato di suggestioni pop magnifico (per noi) e irripetibile (imploravano gli altri). Nella speranza che si ripeta l'alchimia ecco come potrebbe presentarsi il nuovo artwork.

giovedì 24 gennaio 2008

Midnighter: la rivoluzione silenziosa

Authority è, fuori da ogni dubbio, il fumetto supereroistico più importante degli ultimi dieci anni. Una squadra di sedicenti paladini mascherati che agisce nel mondo reale, con regole reali e fronteggiando la politica reale. Siamo lontani anni luce dell’introspezione psicologica su cui poggiava il capolavoro Watchmen: ora i vigilanti in costume non hanno più voglia di nascondersi dall’opinione pubblica a causa delle loro abilità, ma decidono di passare direttamente al (legittimo) estremo opposto. Esseri straordinari che trascorrono le loro giornate a difendere il pianeta non potevano continuare a vivere come topi ancora per molto, soprattutto in virtù di quello che avrebbero potuto avere.

E così, dall’arcinoto ciclo degli XMen ad opera di Grant Morrison in avanti, si auto elevano a livello di rockstar planetarie, guadagnandosi copertine di magazines patinati, inviti a talk show e, infine, il rispetto (o meglio, la sottomissione) da parte del G8 e dei governanti della Terra. Non più esseri eterei (o dotati di un iper virilità decisamente ambigua) che si esprimono come chierichetti, ma spavaldi padroni di se stessi che fanno sesso, si esprimono con un linguaggio da scaricatore di porto e che amano mettersi sotto i riflettori. Fra tutti gli esempi possibili il più riuscito, per intensità e libertà espressiva, è proprio la prima serie di Authority (ad opera dei due demiurghi del nuovo ordine fumettistico mondiale Warren Elllis e Mark Millar). E, all’interno di questo nuovo team, il personaggio più sottilmente rivoluzionario è il truce Midnighter. Il motivo è semplice: Midnighter è il primo personaggio gay dei comics statunitensi a cui nessuno frega nulla se è gay.

Midnighter non è il compagno svenevole dello statuario Apollo, non è la parodia camp di Batman, non è l’omosessuale stiloso e sensibile che tutti si aspetterebbero. Per il fandom Midnighter è una macchina assassina, il più letale uomo sulla Terra, il combattente dai due cuori, il più violento tra le fila della nuova autorità. In poche parole Midnighter è un vigilante a cui semplicemente non piace il genere femminile. Millar, Ellis, Brubaker, Ridley (per citare solamente gli sceneggiatori delle run più importanti della serie) non cadono mai nel tranello del finto progressista, quel giochetto che spinge a definire moderne e “avanti” subdoli esempi di classismo come l’innocua serie televisiva “Will & Grace”. Un cliché positivo come quello del gay colto, brillante e affermato è comunque un cliché, costruire intere vicende intorno alla sessualità di un carattere di finzione significa comunque etichettarlo come strano e diverso. In Authority invece nulla cambierebbe nel caso di un Midnighter eterosessuale, non ci sarebbe nessuna variazione nello svolgersi delle trame. Perfino nella serie “Authority: Rivoluzione” (ad opera di Ed Brubaker) il fatto scatenante è riconducibile a un generico legame affettivo, non a un legame affettivo tra due uomini. Se al posto di un Apollo venuto dal futuro ci fosse stata una Engineer (naturalmente legata al vigilante in questione) la storia non avrebbe avuto variazioni sensibili.

La normalizzazione (terribile usare ancora questo termine nel 2008) deve essere silenziosa, la diversità deve smettere di essere tale semplicemente considerandola quotidiana, non mettendola al centro dell’attenzione. Quel personaggio ha i capelli rossi, quello si veste strano, quello è gay. Cosa cambierebbe nel caso nel caso i capelli fossero blu piuttosto che rossi? Probabilmente nulla. E se si vestisse banalmente? Ancora nulla. Perché se invece un personaggio maschile ama un altro uomo si deve per forza costruire almeno una trama, anche a favore di questa sua tendenza, intorno alla sua natura? Perché due esseri dello stesso sesso che si amano è comunque qualcosa da evidenziare.

Nessuno intende svilire il prezioso patrimonio che ci differenzia uno dall’altro, leggere battute da spogliatoio maschile in chiave queer sputate senza ritegno dal nostro eroe è comunque una goduria. Giocare al videogioco “Marvel: la Grande Alleanza” assume un non so che di mistico quando si seleziona il personaggio di Luke Cage, passando così da poteri psichici e dichiarazioni altisonanti da bolsi paladini della giustizia a ben più gustosi cazzotti e baritonali “You lose motherfucker!” che sembrano provenire direttamente da un blaxpoitation d’annata. Ma qui l’accento è sforzato, un’ ironia rovesciata che si fa sottile, schernendo il cliché e passeggiando incautamente sulla lama del politicamente scorretto. Sfottere il "diverso" significa implicitamente non considerarlo più tale, non avere più paura di usare una di quelle parole considerate "da evitare" quando si è in presenza di determinate persone. Decisamente meglio di mille moine paternalistiche sui presunti lati positivi che si ritroverebbero in tutti gli appartenenti a una minoranza, degne eredi del mito del buon selvaggio.

martedì 22 gennaio 2008

Triangle di Tsui Hark, Ringo Lam e Johnnie To (2007)

Triangle è un meraviglioso esperimento, impossibile da valutare con gli strumenti con cui solitamente ci si approccia al linguaggio cinema. Tre registi (due maestri e un ottimo mestierante), tre spezzoni dello stesso lungometraggio girati in un’inedita forma di semi autonomia. In altre parole: parte il primo regista, sceneggia e gira il suo spezzone, lo consegna al secondo cineasta. Che, naturalmente, non ha idea di che cosa si troverà di fronte, che buchi di sceneggiatura dovrà affrontare e che matasse dovrà sbrogliare (o complicare ulteriormente, a svantaggio del terzo incomodo). Si consideri che tutto questo avviene nell’industria del cinema hong konghese, una volta simbolo assoluto di libertà espressiva, e che su tre registi coinvolti due sono anche produttori. Il risultato di tutto questo impasse è forse un capolavoro? Assolutamente no, ma la freschezza e la sconsideratezza che si respira ad ogni fotogramma sono boccate di ossigeno puro in un periodo dove i produttori si improvvisano sempre più spesso direttori artistici.


Il primo segmento (pesantemente mutilato dai distributori) è gestito dal Maestro Tsui Hark, peso massimo di semiotica cinematografica pura. La storia potrebbe non avere dialoghi, è la macchina da presa che narra. Le inquadrature (sbilenche, scentrate, quasi ottuse) dipingono i tre protagonisti, i loro passati e la loro umanità in modi che mai si erano visti prima. Questa attenzione al nuovo e alla ricerca dell’inedito non è, paradossalmente, una novità: si può tranquillamente pescare a caso nel carniere del regista e non si otterranno che capolavori slanciati in questa direzione. Dinamitardi, stupidi, criptici, commoventi. Da “We Are Going To Eat You” (1980) passando per “Once Upon A Time In China” (1991) fino a “Seven Sword” (2005) il linguaggio del cinema viene semplicemente smembrato dal Nostro, dando particolare attenzione alla componente action/marziale, da sempre favorita nello sperimentare virtuosismi e soluzioni inedite.

Disseminati dei gustosi buchi di sceneggiatura la palla passa a Ringo Lam, e pare di trovarsi improvvisamente negli ‘80s. Filtri colorati, teli svolazzanti, sfumini, pastiche di generi: tutto rimanda all’epoca dei domani migliori, delle città in fiamme e delle rose eterne, con l’aggiunta di una sana leggerezza tipica di chi sa maneggiare con sicurezza la materia. Naturalmente i buchi di sceneggiatura vengono volontariamente resi voragini, i nodi sono sempre più stretti e la vicenda si avvicina all’inevitabile cul de sac in cui tutti si aspettassero finisse.

Ed ecco intervenire il secondo mostro sacro dell’operazione: Johnnie To. Un uomo capace di rinnovare il concetto di autorialità (tutto quello che esce dalla sua casa di produzione sembra si incastri perfettamente, come se fosse opera di una persona sola), tracciando un continuum tematico che attraversa regie, produzioni e sceneggiature. Eccolo quindi capace di inserire anche in questo contesto il chiodo fisso che da sempre funge da perno su cui far ruotare le sceneggiature costruite con il fidato compare Wa Ka Fai (per amor vostro recuperate assolutamente il suo “Too Many Ways To Be No.1”): la presunta ineluttabilità del destino. Evitando di soffermarsi sulla maestria tecnica del Nostro (molto più chiara e diretta che i virtuosismi nascosti di Tsui Hark, si veda a esempio il noto piano sequenza iniziale di “Breaking News”, 2004, o i duelli supersonici di “The Bare-Footed Kid”, 1993), colpisce come il regista inizi il suo segmento partendo dal primo periodo Milkyway Image (la sua casa di produzione) e riesca a terminare in pieno clima post “Exhiled” (2006). Più chiaramente: se prima era il destino che puntualmente faceva crollare i castelli in aria dei protagonisti, facendoli attraversare peripezie tra il grottesco, il tragico e il faceto, all’interno del suddetto capolavoro (mai usata tanto questa parola in un solo articolo… ma ci si deve rendere conto di chi si sta parlando!) gli stessi personaggi si ribellano a questa regola non scritta, decidendo in totale indipendenza la propria sorte. In un balocco come “Triangle” l’atmosfera da mucchio selvaggio che si respira in “Exhiled” sarebbe assolutamente fuori luogo, ma l’ultima battuta del film dimostra comunque quanto i tempi siano cambiati.


Titoli di coda, non abbiamo cambiato il nostro film preferito ma si è comunque felici, soddisfatti e stimolati. Aggiungete che io me lo sono gustato in un cinema di Hong Kong accanto alla mia donna bellissima e calcolate quanto adori ogni singolo minuto di questo lungometraggio.

Titolo originale: Tie saam gok
Regia: Ringo Lam, Johnnie To, Tsui Hark
Sceneggiatura: Au Kin-yee, Sharon Chung, Kenny Kan, Half Leisure, Yau Nai-hoi, Yip Tin-shing
Fotografia: Cheng Siu-keung
Montaggio: David M. Richardson
Musiche: Guy Zerafa
Interpreti: Louis Koo, Simon Yam, Sun Hong-lei, Lam Ka-tung, Kelly Lin, Lam Suet
Produzione: Milkyway Image, Media Asia Films Ltd., Beijng Poly-bona Film Publishing Co.Ltd.
Nazione: Hong Kong/Cina
Anno: 2007
Durata: 101 min.
Caratteristiche tecniche: 35mm – Colore - Dolby Digital

lunedì 21 gennaio 2008

Come Un Cane di Alex Crippa e Alberto Ponticelli



Prendete il quintetto di film dedicati allo spadaccino monco tra il 1967 e il ’95 (per quintetto si intende la fondamentale trilogia ad opera di Chang Cheh e i due seminali remake/rifacimenti del primo capitolo ad opera di Daniel Lee, “One Armed Swordman ’94, e Tsui Hark, ”The Blade”), aggiungete una concezione delle arti marziali e della violenza che sembrano strappati di peso dal manga “Shamo” di Akio Tanaka e Izo Hashimoto (oppure dall’ancora invisibile trasposizione live action da parte di Soi Cheang) e spostate il risultato dell’amalgama in un contesto alla “City of God”. Basta questo per sintetizzare il nuovo lavoro della coppia Crippa & Ponticelli.


Una durissima graphic novel ambientata tra le favelas brasiliane, un Inferno sulla Terra dove un nuovo antieroe menomato si riprende il mondo grazie alla rabbia incanalata nella disciplina del Vale Tudo. Accettare le proprie debolezze, trasformarle in un punto di forza, giocare sull’imprevisto per mettere al tappeto anche il più granitico degli avversari. Fino alla resa dei conti finale, dove la razionalità e il sacrificio lasciano spazio al lato più ferino e selvaggio di chi deve lottare con la morte ogni giorno. Se il servo di Chang Cheh rifugge alla violenza in ogni modo, il Monco di “Come un Cane” ricorda di più Django, le mani spappolate nel momento del duello cruciale ma comunque pronto a fare fuoco verso l’aguzzino. La morte dell’antagonista come redenzione, sia che ci si trovi in un cimitero da spaghetti western dalle tinte gotiche oppure su di un ring lercio, madido di sangue e sudore.


I disegni di Alberto Ponticelli sono semplicemente perfetti, alternando realismo e ricerca del grottesco in perfetta sintonia con la sceneggiatura, confermando l’italiano come uno dei più grandi fumettisti viventi (dallo Shock Studio alla linea Marvel Knight, fino alle copertine per Lobo). Alex Crippa si prende il lusso di pigiare spesso il tasto dell’iperbole, conferendo all’insieme un’ aura di allucinato che non ha nulla di fuori luogo, sopratutto in una vicenda che puzza in modo insostenibile di cartilagini lacerate e carni tumefatte. Il mondo visto dagli occhi di un cane rabbioso, come non si vedeva dai tempi di “Dog Bite Dog” (Soi Cheang, 2006). Peccato che nel caso del cineasta dell’ex colonia inglese i rari accenni alle virtù dell’amicizia virile non siano neppure contemplati.


Come un Cane di Alex Crippa e Alberto Ponticelli
15,7x 24, 144 pagine, colori, 12.00 €
Edizioni BD

domenica 20 gennaio 2008

George Eastman EP






Se un giorno decidessi di mettere in piedi un gruppo grindcore digitale dalle forti tendenze fashion allora questa cover, chiaramente ispirata al periodo postatomico del nostro feticcio, sarebbe perfetta.

Cliccate, scaricate, stampate e venerate come un nuovo messia il più roccioso dei caratteristi del cinema bis.



http://img249.imageshack.us/img249/8092/georgeeastmanwr8.jpg