lunedì 31 gennaio 2011

Mario Puzo o Tony Clifton? Massacre Mafia Style di Duke Mitchell (US/1978)




Ci sono film che basano tutto il loro fascino sulla capacità di ribaltare i luoghi comuni. Altri invece si fondano sul presupposto contrario. Prendiamo un classico come I tre dell’Operazione Drago: abbiamo l’afroamericano superfunky, il raffinato w.a.s.p. e l’orientale silenzioso. Impegnati in un mortale torneo di arti marziali su di un’isola governata da un malvagio trafficante di schiave. Si consideri poi che due dei tre protagonisti sono interpretati da quelli che all’ epoca erano i simboli di quel genere di attore/caratterista: Jim ”Black Samurai” Kelly e Bruce Lee. Il gioco è divertente proprio nel suo essere esplicito, nel suo manifestarsi come sciocchezzuola pop. In un film dove l’antagonista sfoggia una discreta collezione di artigli per il moncherino nessuno si sognerebbe mai di infilarci psicologie tridimensionali e complesse sfaccettature psicologiche. Lo stereotipo è trattato con maestria e diventa punto di forza, piuttosto che tonfo di sceneggiatura. Quella del cliché è un’arte complessa almeno quanto quella del torpiloquio: di scrivere una battuta da cinepanettone sono capaci tutti, per perle come “E io sono un fungo atomico sterminatore e figlio di puttana, figlio di puttana” o “Sono sepolto in questo buco, non solo prendo meno di un negro alla catena, lavoro anche il mio giorno di riposo, quelle cazzo di saracinesche si sono bloccate, ho a che fare coi peggio balordi di questo pianeta, puzzo di lucido da scarpe, la mia ex ragazza è in catalessi dopo aver scopato con un cadavere e la mia attuale fidanzata si è ciucciata 36 cazzi” invece ci vuole talento. E, per arrivare a Massacre Mafia Style, Duke Mitchell di questo talento non ne ha neanche un grammo. Forse.



In questo tesoro nascosto dell’exploitation più sfacciata, da poco disponibile in dvd in sole 500 copie, troverete il ritratto degli italiani più facilone e scontato di sempre. Una delizia. Tutto quello costruito dai Soprano in anni di gloriose stagioni televisive qui viene frantumato in 88 minuti sgranati e rovinati dal tempo. Così abbiamo il protagonista Mimi (interpretato dal regista, sceneggiatore e produttore Duke Mitchell) impegnato in una poco fortunata scalata al mondo della malavita organizzata. Tra una carneficina e l’altra, tutte di una crudeltà tipicamente settantiana, abbiamo pranzi a tavola con i genitori, “Mamma Mia!”, “Madonna” “Figliuzzo mio” come se piovesse, baci & abbracci, segni della croce appena un’icona religiosa entra nell’inquadratura e tutto quell’armamentario che ci rende tanto coloriti all’estero (dico, avete visto il logo del film?).



La cosa che rende il tutto una perla è la totale mancanza di ironia. Massacre Mafia Style è pura ignoranza. La morte per folgorazione di un paraplegico in un orinatoio è storia della serie B, così come il fucile a quattro canne nascosto in una pagnotta e la corona di fiori esplosiva (con tanto di timer in bella vista). Il gioco però non è semplice come sembra: a dispetto di quello che ci aspetterebbe Duke Mitchell non era un cialtrone, ma un affermato comico da locale notturno. Tanto apprezzato da attirare i produttori di Hollywood e farsi costruire attorno il film Bela Lugosi Meets a Brooklyn Gorilla, dove interpreta appunto se stesso (e con lui la sua spalla nella vita reale). A questo punto è lecito farsi una domanda: Massacre Mafia Style è spazzatura o un raffinato esercizio di comicità Kaufmaniana? In entrambi i casi il risultato è lo stesso. Puro, incondizionato divertimento. Che sia voluto o meno non ha importanza, l’essenza del midnight movie più incontaminato è palpabile e con essa l’inevitabile aurea di culto. E per consegnare la sua opera ai posteri il buon Duke non poteva chiedere di meglio.

giovedì 27 gennaio 2011

Ciao, mi chiamo Wayne e sono un AFOL (adult fan of Lego)

AFOL A Blocumentary from AFOL on Vimeo.





Pensate quello che volete, ma nei 30 minuti del documentario qui sopra ho visto almeno una decina di meraviglie che da pischello mi avrebbero mandato in brodo di giuggiole.



E, senza falsa modestia, nel contest da 101 pezzi potrei puntare a un buon piazzamento.

martedì 25 gennaio 2011

Noi anziani di 28 anni (appena compiuti, eh!)




Lo dice perfino il New York Observer: usare Myspace fa figo perchè è old-school. E' la prima volta che qualcosa di cui mi ricordo la nascita (con la mia band dell'epoca eravamo indecisi tra Myspace e Purevolume) viene legato alla vecchia scuola. La cosa mi fa parecchio strano.

lunedì 24 gennaio 2011

Meglio il pastiche del polpettone: Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame di Tsui Hark (HK/2010)




Nonostante la sua vocazione profondamente popolare Tsui Hark non è un regista proprio alla portata di tutti. Praticamente tutte le sue opere sono state funestate da produzioni indegne e dalla sua incontenibile creatività, spesso troppo esagerata per poterla trasporre su pellicola. Un artista paradossale quindi, ancora alla ricerca della sua uscita perfetta nonostante lo status di Maestro universalmente tributatogli. Per gli esperti è facile portare a esempio della sua poetica autentici capolavori alla The Blade o Peking Opera Blues. Si deve però ammettere che bisogna conoscere bene la materia per goderseli come si deve. Tsui non è un regista che si inquadra in due righe. Si prenda Hong Kong colpo su colpo, la sua seconda sortita statunitense. A dispetto di una sceneggiatura patetica, di un cast offensivo, di una produzione paragonabile a uno stupro nei confronti del suo cinema, di una stroncatura unanime e di un sonoro flop al botteghino abbiamo comunque un film che DEVE essere visto. E lo dico nel modo più serio possibile. L’uomo che scoprì John Woo e Ching Siu-tung probabilmente si accorse in tempo zero di avere tra le mani nulla più di una secchiata di letame. A differenza di quello che avrebbe fatto chiunque altro il Maestro girò a suo favore tutta questa serie di fattori sfavorevoli, ottenendo una tabula rasa su cui divertirsi come un pazzo. Tutto Knock Off è un delirio continuo, un ottovolante privo di controllo. Chiunque maneggi un minimo di tecnica cinematografica non può non rimanere a bocca aperta di fronte a una simile dimostrazione di pornografia stilistica. Se nel già citato The Blade (ma anche nel sottovalutato Seven Swords) ogni movimento di macchina e ogni taglio di montaggio hanno il loro perchè all’interno della narrazione qui siamo dalle parti dello sberleffo e dell’iperbole gratuito. Come una sorta di Crank in anticipo sui tempi. Se il film doveva essere intrattenimento a bassa concentrazione di attività neurale, allora il risultato è perfetto. Perché il cervello non fa a tempo ad accendersi che è già sballottato alla scena seguente, mentre esplosioni verdi intarsiano lo sfondo. Tsui gira il live action di un flipper e ancora una volta porta a fondo la sua filosofia: il pubblico non deve capire, deve sentire. Non importa che si tratti di uno struggente melodramma (fatto), un durissimo noir pre-handover (fatto), o di una pernacchia a Hollywood (come avete letto, fatto).



Adesso che ci si è fatti un’idea sulla complessità del personaggio si può procedere all’analisi di Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame. Come definirlo? Una successione folle di colpi da maestro e scivoloni da principiante. Un ritmo indiavolato e una storia noiosetta. Stralci da capolavoro e GCI da straight to video. Carisma e banalità. Tutto e il contrario di tutto. Da questo punto di vista il concetto di pastiche è reso perfettamente. Se nel pastone dobbiamo metterci tutti i generi (in Dee ci trovi il giallo storico, l’horror, il fantasy, la commedia, le arti marziali, il dramma,…) allora mettiamoci anche tutte le accezioni in cui possono comparire. Doveva essere un campione d’incassi (e magari in Cina lo è anche stato) e invece abbiamo l’ennesima dimostrazione di come l’impeto di Tsui Hark possa essere incontenibile e ingestibile. Arrivi ai titoli di coda e pensi di aver investito due ore del tuo tempo in un blockbuster privo di spessore, poi analizzi scena per scena e ti sorprendi ad ammettere che dentro ci trovi anche un sacco di roba buona. Come non ne vedevi da tempo. Seriamente, non sai cosa pensare.



Se avete una mezza idea di buttarci un occhio non ci pensate due volte, ne varrà sicuramente la pena. Siamo ad anni luce dai polpettoni storici che dalla Cina stanno annoiando ogni angolo del globo. Siamo nell’universo dell’uomo che ha inventato l’heroic bloodshed, il fantasy di HK, il wire work e ha svecchiato ogni genere popolare di estrazione cantonese. Lo stesso fenomeno che ha portato le arti marziali ad aprire il Festival del Cinema di Venezia per due volte. Qualcosa di cui ne vale la pena lo trovate sicuramente. Garantito.

sabato 22 gennaio 2011

Maledetta Thailandia: Friday Killer di Yuthlert Sippapak (Tha/2011)





Non è possibile che una della cinematografie più vitali a livello planetario continui a produrre dvd senza sottotitoli in inglese. Le perle che ci stiamo perdendo sono troppe (anche considerando il giro dei fansub) e la nuova fatica del funambolico Yuthlert rischia di fare la stessa fine.



Il fuoricasta come eroe è uno dei fili conduttori più evidenti della new wave thai, assioma da cui deriva un'attenzione tutta particolare a chi è (scandalosamente ancora) ai margini della società. Difficilmente troverete una produzione popolare che dipinga in maniera così naturalizzata transgender, disabili, vecchi e "brutti". Un trattamento così poco di favore che potrebbe essere considerato quasi come una mancanza di rispetto, mentre invece è esattamente il contrario. In qualunque caso il secondo capitolo della trilogia del killer di
Yuthlert (distribuito senza che il primo sia ancora uscito) sembrerebbe esserne la sintesi massima.



Confrontate il protagonista con quello di un qualsiasi film muscolare dello stesso genere proveniente da ogni altra parte del mondo. Notate come non ci sia traccia di ironia post-moderna. La faccia di Thep Po-ngam è perfetta per rendere un personaggio che è un perdente nato, privo di carisma o fascino da bullo. L'eroe è l'esatto contrario di quello che ci è stato inculcato per anni, aprendo un mare di nuove possibilità. Vuoi vedere che questa volta Yuthlert Sippapak è riuscito a infilare la storia destinata a lanciarlo (finalmente) nell'olimpo dei grandi?



P.S. ma quanti soldi sta guadagnando John Murphy in royalties?

mercoledì 19 gennaio 2011

Manuale di rivolta per ufficio




In questi giorni la mia speranza più grande timbrando il cartellino la mattina (però mi fermerei volentieri allo stadio furia cieca. Niente risvolti hippy per me, grazie). Note autobiografiche a parte loro sono i ragazzi di The Centennial Society. Caustici culture jammers capaci di riprendere i linguaggi più massificanti (affissioni, trailer, packaging,..) e di trasformarli in qualcosa di sovversivo e agli antipodi del loro significato originale. Tra le perle: adesivi anti-Bibbia, il sabotaggio di Wal Mart, l'action figure del black block,..



Sul loro sito un altro bel pò di roba interessante.


martedì 18 gennaio 2011

Un grazie enorme...




...al fin troppo buono Antonio Serra per aver dedicato tanto spazio alle uscite Passenger Press nella sua rubrica radiofonica. Cliccate qui , scivolate verso il minuto 17:41 e prestate attenzione alle sagge parole dello scrittore dietro Greystorm (tra le altre cose). Grazie anche ad Adriano Barone (è tutto merito suo!), un amico come tutti ne dovrebbero avere di più.

lunedì 17 gennaio 2011

Giovani, carini e senza cuore: The Housemaid di Im Sang-soo (Sud Corea/2010)




Quando si parla di remake è difficile non mettersi, anche solo per un secondo, nei panni del regista di turno. Il rifacimento di un film può essere un processo dalle numerose sfaccettature, dove a ogni misura corrisponde un peso diverso. Prendiamo Alexandre Aja. A lui è andata sempre bene. I titoli con cui si è confrontato non richiedevano certo un novello Welles per una spolverata e una rimessa a punto del ritmo. Invece a Im Sang-soo non è andata così di lusso. Affrontare un capolavoro come The Housemaid metterebbe fifa a chiunque, figurarsi se il meccanismo produttivo parte proprio dal paese in cui l’autore dell’originale è considerato una sorta di Maestro intoccabile.



Eppure non è il bagno di sangue che tutti si aspettavano.



Certo, i vertici di fastidio e sgradevolezza della pellicola del 1960 rimangono ineguagliati. Ma si sta sempre parlando di una pietra miliare del vero cinema estremo, quello in cui non c’è bisogno di mostrare nulla per annichilire lo spettatore. Il delicato labirinto di soprusi e coercizioni ambientato nella casa di un compositore si trasformava presto in un gioco al massacro in cui nessuno era innocente, dove tutti finivano invischiati nella ragnatela del potere. L’umanità descritta da Kim Ki-young non vedeva l’ora di sottomettere chi gli stava accanto, arrivando ad accettare ogni compromesso (qui il paradosso) per raggiungere il risultato.



Nella nuova versione le cose vanno un poco diversamente. La giovane cameriera Eun-yi è un personaggio complesso, sospesa tra malizia e innocenza. Non fa nulla per evitare di essere sedotta dal suo nuovo datore di lavoro (anzi, all’inizio si sospetta perfino di un suo disegno più vasto) ma poi si lascia trascinare come se nulla fosse nelle macchinazioni della suocera. Poco a poco ci si accorge di avere a che fare con una ragazza tanto candida da essere perfino l’ultima ad accorgersi di essere incinta. La sua stessa vendetta finale sarà tanto estrema quanto (forse) inutile, a dimostrazione di quanto sia coerente la costruzione del personaggio. Da una così mi aspetto il colpo di teatro gratuito e dettato dalla passione, non un gelido gioco tra gatto e topo.



Per il suo nuovo lavoro Im Sang-soo sceglie un registro vizioso e sottilmente volgare. Invece della modesta abitazione di un rappresentante della classe media questa volta abbiamo una villa che ricalca tutti i luoghi comuni del super ricco. La splendida fotografia congela tutto in un blocco di ghiaccio privo di imperfezioni. Ogni superficie è riflettente, ogni inquadratura si sforza di essere più elegante possibile. L’amplesso proibito tra serva e padrone è reso magnificamente, con inquadrature strettissime sui corpi perlati di sudore. La ragazza, tra un gemito e l’altro, continua a ribadire di essere terrorizzata (anche se è lei stessa a farsi trovare nuda). Il ricchissimo Hoon invece si comporta perfetto maschio dominante, compra la sua preda con qualche assaggio di vino pregiato (sorsi di un mondo che lei non potrà mai avere) e si lancia in richieste sempre più spinte. Per il silenzio basterà un assegno il giorno dopo.



Con queste premesse era facile immaginarsi un rifacimento degno dell’originale, solo spostando la lancetta su territori più pornograficamente adatti ai nostri tempi. Invece ci si impasta in un attacco costante alla malvagità della classe dominante, dove invece uno dei punti di forza del lavoro di Kim Ki-young era la malvagità diffusa in chiunque. The Housemaid è un buon film, sospeso tra melodramma e thriller erotico, forse un poco moralista e didascalico. Non il disastro che in tanti si aspettavano.




sabato 15 gennaio 2011

Jun Takahashi, Ultraman e il brutto vizio di guardare avanti








Ecco una cosa che in Italia non potrebbe mai succedere. Presso la galleria Doubledutch di Nagoya lo stilista Jun Takahashi (mente dietro la quotatissima Undercover) presenta una serie di scatti fotografici tratti dai tokusatsu prodotti dalle televisioni nipponiche. In altre parole: un rappresentante della moda più elitaria cura una mostra improntata sulla cultura pop, ospitato in una galleria d'arte piuttosto d'avanguardia (che è anche concept store). E, se non sbaglio, tra gli sponsor ci dovrebbe pure essere la Supreme. Esatto, quei pazzi delle tavole da skate disegnate da Damien Hirst, Jeff Koons e George Condo. Noi siamo ancora al punto di discutere delle differenze tra fumetto d'autore e derive popolari. Questi tracciano come se nulla fosse un trait d'union tra arte, industria, mondo nerd e underground. Quando si procede guardando in avanti succede anche questo.

mercoledì 12 gennaio 2011

C'era una volta Mad Max: Death-Day (Pt.1) di Samuel Hiti




Quando scrivi, disegni e pubblichi un fumetto in totale autonomia succede che puoi prenderti certe libertà altrimenti improponibili. Death-Day ne è la dimostrazione. Partendo infatti da un genere ipercodificato come il post atomico, Samuel Hiti ne ribalta gli stereotipi senza paura. Ottenendo qualcosa di fresco e imprevedibile.



Al posto della solita manfrina su terza guerra mondiale ed esplosioni atomiche, con l'ennesima logora sequela di date ed eventi catastrofici, Death-Day avvia i suoi motori sbattendoci direttamente nella camera dei bottoni. Gli abitanti della Terra sono in guerra contro una razza misteriosa (una sorta di cane insettoide dalle parvenze antropomorfe) in un mondo che pare l’ingrandimento di qualche cellula vegetale. Secondo Mother-0, il computer che gestisce le manovre degli eserciti terrestri, l’ unica soluzione è fare tabula rasa utilizzando un ordigno dalla potenza sconsiderata. Gli alti ufficiali non ci pensano due volte e lanciano la bomba. La guerra è finita, pacche sulle spalle. La fanteria viene vaporizzata dalla deflagrazione, ma poco importa. Fine del prologo. Non abbiamo nessun dato preciso per capire cosa sta succedendo, eppure le informazioni messe sul piatto sono tantissime e suggestive.



Per il resto del primo volume (elegante e pregiato come ho visto poche cose) seguiremo le imprese dell’ultima squadra di ricognizione sul campo di battaglia. Continuiamo a non sapere dove siamo e in che data, non possiamo inquadrare in modo certo la situazione. Samuel Hiti investe pagine e pagine nel mostrarci (senza spiegare, molte cose rimangono incomprensibili anche dopo averle viste) riti quotidiani dei poveri soldati (dispersi? In missione?), così come ci arrivano alle orecchie tutte le loro stralunate conversazioni. Concentrandoci sugli aspetti di minore importanza ci si apre davanti un mondo organico e profondo, non popolato da macchiette ma da persone vere (nonostante abbiano codici alfanumerici come nomi propri). I soliti meccanismi della fantascienza catastrofista vengono ribaltati. Anche il tono leggero e divertito dell’insieme è qualcosa di inaspettato, un surreale antimilitarismo alla M*A*S*H o Comma 22.



Lo stesso discorso vale per i disegni. Nelle tavole di Hiti l’eminenza grigia di Kirby convive con soluzioni tipiche del fumetto intimista. In mezzo ci trovi Paul Pope, Jeff Smith e tutta una serie di influenze lontanissime. Spesso la costruzione è caotica, ipersatura di pennellate e particolari. Altre volte è minimale, quasi puerile. In qualsiasi caso non quello che ci si sarebbe aspettato. Occorre tempo e pazienza per decodificare ogni singola vignetta, eppure una volta trovata la chiave di lettura il mondo di Death-Day sarà ancora più caratteristico e definito.



Secondo l’autore questo tomo sarà il primo di quattro. Considerato il cliffhanger che chiude il volume, capace di ribaltare la prospettiva su tutto quello visto fino alla pagina prima, ci aspetta una lunga e selvaggia cavalcata.





lunedì 10 gennaio 2011

Calci in culo come se piovesse: Super di James Gunn (US/2011)





Su Fumettologicamente Matteo Stefanelli compila una lista dei cinecomics previsti per il 2011. Io mi sono permesso di segnalare la nuova uscita di James Gunn. Esatto, quel tizio che ha fatto fare alla Troma il salto di qualità (sceneggiando Tromeo & Juliet e soprattutto Terror Firmer, il miglior Troma movie in assoluto). Lo stesso poi è passato a incassare bei dollaroni scrivendo blockbuster come Scooby Doo e L'Alba dei Morti Viventi. Senza dimenticare di divertirsi girando un film coi mostri di gomma (il delirante Slither) e una situation comedy con pornostar come protagoniste (Pg Porn). Adesso tocca al filone dei supereroi e, a giudicare dalla clip qui sopra, pare che Kick-Ass abbia già perso il suo scettro di reuccio della scorrettezza.

domenica 9 gennaio 2011

L'antica arte di farsi spalare merda addosso



Finalmente è successo. Mentre in Italia a difendere il cinepanettone si rischia perfino di fare bella figura (sono per tutti, è cinema popolare,... come se popolare significasse solo livellamento verso il basso) anche all'estero cominciano a prenderci per il culo. Su qualche blog da 50 accessi al giorno? No, su Twitch. Non proprio un esempio di sito amatoriale.



E mi raccomando di continuare su questa strada. Il basso ormai è munito di caschetto da minatore mentre l'alto pare sempre più chiuso in se stesso, intento a raccontarci il nulla. Non azzardiamoci neanche a pensare che possa esistere intrattenimento d'autore, di quello leggero fuori ma profondo dentro. Tenere accesi cervello e pancia contemporaneamente sarebbe TROPPO TROPPO TROPPO difficile.

The Damned Things - Ironiclast (Mercury/2010)




Ironiclast è un disco dai mille difetti e da un enorme, fondamentale, pregio. A fronte di una data di scadenza pericolosamente vicina, di una freddezza da tavolino e di qualche scivolone in territori fin troppo friendly i The Damned Things ci hanno consegnato un disco che funziona alla grande. E lo fa adesso. Se il gruppo hardrock medio non fa altro che scimmiottare decadi passate, il nuovo esperimento di Scott Ian ce ne consegna la versione riveduta e aggiornata all’istante in cui lo stiamo ascoltando. Protagonista assoluta la voce di Keith Buckley, istrionico (e per una volta questo abusato aggettivo ha il suo perché) cantante degli Every Time I Die. Sono passati anni dalle varie Ebolarama o Logic of Crocodiles. La promessa di Buffalo non è mai esplosa come ci aspettava, anche quando si è presentata al pubblico con un disco perfetto (il mai troppo sottovalutato Gutter Phenomenon, ricco di perle alla The New Black). Allora tanto vale cambiare e dare sfogo a tutte quelle spinte pop che trasparivano sempre più dalla precedente band. Il risultato sono una serie di linee di vocali appiccicose, di quelle che entrano in testa e ne usciranno tra parecchio tempo (per non rientrarci, questo è da dire, mai più). La sezione chitarristica degli Anthrax fa il suo sporco lavoro, allineando una bella risma di riff dal sapore vagamente southern. Ironiclast è un album leggero, disimpegnato, frizzante e ruffiano come non se ne sentiva da tempo. Destinato a bruciarsi in tempo zero ma determinato ad arrivare fino a quel momento tenendo alta la temperatura della festa. Ci avessero ficcato anche la comparsata di Andrew WK avremmo avuto il party album dell’anno.




giovedì 6 gennaio 2011

Una nuova speranza





Che Trooper Bust
di Urban Medium. Prenotato oggi stesso da AtomPlastic.



Sì, essermi lasciato sfuggire questo mi brucia ancora.

mercoledì 5 gennaio 2011

Mario e il Grande Comandante Supremo






Pare che questo possa essere finalmente l’anno definitivo per lo sdoganamento del videogame come medium artistico alto (o meglio, capace di contenuti alti). Se voci insistenti danno quasi per certo che alla prossima Biennale di Venezia le produzioni di natura videoludica avranno un peso non indifferente, il sempre più attivo MOCA ha pensato bene di riproporre in quel di New York il colossale Long March: Restart a opera del cinese Feng Mengbo (uno che, tanto per capirci, si è imposto sulla scena artistica con un mod di Quake 3 Arena). Un retrogame dotato di comandi wireless in cui lo spettatore può far combattere (letteralmente al proprio fianco) l’eroe protagonista, un soldato dell’armata rossa, contro i nemici del Comunismo. Dimensioni, collocazione e forma dello schermo giocano un ruolo fondamentale nell’immersione in un mondo a metà tra il platform e il picchiaduro a scorrimento. Con un monitor lungo 25 m collocato lungo un corridoio si è obbligati a seguire fisicamente il proprio avatar. Il titolo dell’opera è un riferimento a The Long March, impresa fortemente voluta da Mao e portata a termine dall’Armata Rossa. Una marcia di 8000 miglia attraverso 11 province, con l’obiettivo di spazzare via i nemici del regime. Come rendere Mario più pericoloso di Call of Duty.



Se siete interessati al videogioco come medium artistico non posso non consigliarvi Gamescenes di Matteo Bittanti. Mentre per il discorso contrario (il videogioco come arte) bisogna sempre sperare in una riedizione aggiornata e approfondita di Video Game Art di Nick Kelman (e che non si azzardino a togliere la copertina olografica).





martedì 4 gennaio 2011

La squadra antimostri dal cuore tenero: The Wicked City di Tai Kit Mak (HK/1993)





Lo si dovrebbe definire un nobile fallimento. Nato dall’inarrestabile carica creativa di Tsui Hark e diretto da uno sconosciuto Tai Kit Mak, The Wicked City rappresenta il tentativo di far entrare il cinema dei mostri in latex nella sua fase adulta. Il risultato è un’opera sbilanciata e incerta, eppure dotata di quel fascino indispensabile a renderla oggetto di culto. Un po’ come successe con l’azzardo di tre anni prima quando, sempre Tsui Hark, produsse una versione live action delle commedie con robot giganti tipiche dell’animazione nipponica (guardatevi il trailer e invidiatemi il dvd originale, acquistato in un oscuro negozietto di HK).



Tornando a The Wicked City, la differenza più grossa rispetto alle varie uscite di Nam Nai Choi e compagnia gommosa è la presenza invadente del melodramma come parte integrante dell'opera. I due protagonisti, agenti di una presunta squadra antimostri, hanno entrambi un trascorso burrascoso legato a doppia mandata con la loro occupazione. Se il primo è figlio di una coppia mista, il suo compare vive nel rimorso di aver vissuto una storia d’amore oltre le linee nemiche. L’importante, per Tsui, è eliminare le logore spartizioni tra buoni (noi) e cattivi (loro). Così scopri che esistono divisioni interne anche tra le fila degli altri. Non tutti vogliono schiacciare la razza umana spacciando una potentissima droga (anche questa è una bella novità, per una volta l’alterità mostruosa è capace di pensare e non si limita a un temperamento bestiale). Esistono mostri capaci di sacrificare la propria vita per amore e il bene comune. A pensarci bene gli invasori fanno una figura migliore di noi uomini piccoli piccoli. Tanto chiusi e razzisti da non comprendere fino alla fine che l’unico modo per vincere la battaglia è la cooperazione.



Siamo alle prese con argomenti decisamente più profondi di quelli affrontati solitamente dal genere, soprattutto se si considera che vengono filtrati con il tipico piglio da mélo cantonese. Nessuna sfumatura quindi, ma solo passioni estreme. Come si è già detto: le intenzioni sono ottime, peccato che il risultato risulti un poco macchinoso. Più che emotivamente devastante siamo dalle parti del bizzarro gratuito. Pensare di vedere compressi in 86 minuti di pellicola antipodi che vanno dalle dichiarazioni d’amore in punto di morte a una donna mutata in flipper (per farsi sbattere dall’amante, giuro) richiede veramente un palato abituato a sapori speziati.



Come ci urlano in faccia alcune trovate clamorose nelle scene più concitate Tai Kit Mak alla regia si conferma un prestanome del Maestro. Anche a livello di linguaggio, duole dirlo, siamo nell’altalenante più puro: se certi movimenti di macchina e gli effetti speciali più artigianali (i mostri liquidi fatti con il cellophane sono genio allo stato puro) ti stampano in faccia un sorriso soddisfatto da bamboccio ebete, passaggi in una CGI paleolitica e frequenti stacchi casuali hanno l’effetto di un calcio alla bocca dello stomaco.



Un recupero obbligatorio per i completisti delle stranezze cinematografiche e gli amanti degli ibridi improbabili. Per tutti gli altri meglio ripassarsi capolavori come questo, questo o questo.

lunedì 3 gennaio 2011

Il vinile MIDI che salvò la memoria





Internet Archaeology è uno dei siti più geek oriented che io conosca. Chiamatelo viaggio nel tempo agli albori di Internet per tutti piuttosto che modernariato dell'epoca digitale. Il risultato non cambia: per poterlo apprezzare bisogna aver passato un discreto lasso di tempo on-line. Senza scordarsi che la preservazione della memoria, seppur di nicchia, è sempre e comunque uno sforzo meritevole di apprezzamenti.



Peccato che si debba fare i conti con la vita reale e i suoi costi. Mantenere un sito così costa denaro e pensare di vendere spazi pubblicitari trattando un argomento simile è un’impresa da pazzi. Cosa fare per risolvere la situazione? Ci si rivolge al proprio popolo.



Quei nerd di IA hanno pensato bene di mettere su vinile una raccolta di pezzi simbolo degli anni ’90 riletti in chiave MIDI (all’epoca l’unico tipo di file audio scaricabile in tempi umani). Tutto stampato in 500 copie. Costo di questo pregiato oggetto: 25 dollari, donazione al sito compresa. Per un fanatico di retro informatica una bazzecola rispetto al valore sentimentale di un simile acquisto.



E i risultati non lasciano dubbi: mancano 5 giorni e l’obbiettivo è già stato raggiunto e superato.

domenica 2 gennaio 2011

[Sfascianews] Nuovo teaser per I.O.U.

I.O.U. musical teaser from Rubaffetto on Vimeo.





Il buon Federico Sfascia ha eliminato dal suo canale Vimeo il vecchio teaser di I.O.U. per sostituirlo con uno più professionale. Così facendo chi capita sul mio vecchio post rischia di perdersi l'anteprima del film che farà fare il botto al creatore di Giada (edizioni Arcadia) e Beauty Full Beast. Poco male, iniziate la settimana (o finite la domenica, dipende da quando leggerete queste righe) nel migliore dei modi (ri)gustandovelo nella nuova versione.

Tutto quello che mi serve...





...per un avvio di anno come si deve è contenuto nel video qui sopra. Una discreta dose di nerdismo, musica pesa, spirito do it yourself, totale mancanza di serietà e qualche tocco di classe che capiscono in quattro (ci vuole cultura per girare un video che faccia così 1991!).