lunedì 31 maggio 2010

Aborti, violenza e tante risate. Buppha Rahtree 3.1: Reborn di Yuthlert Sippapak (Tha/2009)




Con il primo Buppha Rahtree fu amore a prima vista. Il regista Yuthlert Sippapak riuscì a comprimere in uno spazio ridottissimo melodramma, horror e umorismo sboccato. Tutto reso con un linguaggio frizzante e attuale, rifuggendo da tentazioni vintage o eccessivamente autoriali. La storia del fantasma femminista Buppha procedeva tra aborti e storie d’amore impossibili, mentre il set (un condominio decadente) forniva la scusa perfetta per infilare in sceneggiatura una miriade di personaggi utili solo al fine di strappare una risata. Tra questi ricordiamo disabili, travestiti, improbabili gangsta e tutto il resto del bestiario a cui ci ha abituato il cattivo gusto di scuola thai. Dopo il successo planetario (a livello festivaliero) del primo capitolo era naturale aspettarsi almeno un sequel, e così eccoci alle prese con il capitolo 3.1 delle vicende della bella studentessa morta.



Ambientato 10 anni dopo i precedenti due lungometraggi, annovera tra i suoi punti d’interesse un cast stravolto e una nuova incarnazione dello spirito della vendetta (nonostante la sua furia rimanga indirizzata unicamente verso la popolazione maschile). Un punto di partenza talmente importante da richiedere due film. A testimonianza di questo Rahtree Reborn ci lascia con un cliffhanger a suo modo sopra le righe. Se i primi 90 minuti sono basati su gag scorrettissime, sgozzamenti e apparizioni ectoplasmatiche gli ultimi frangenti di questo reboot tornano a essere tinti di un melodramma densissimo. Quello di scuola popolare, dove emozioni e sensazioni devono per forza di cose essere trasbordanti e assoluti. Un cambio di direzione così repentino da lasciare l’amaro in bocca, almeno fino al recupero di Rahtree 3.2: Revenge.



Basandoci su questa prima metà sono diverse le considerazioni a cui arrivare. Cercando di soprassedere su certi tonfi di buon gusto comprensibili solo al pubblico thailandese, abbiamo a che fare con un’opera inclassificabile e, per certi versi, impossibile. Anche se pienamente inscrivibile alla poetica del suo regista, riconoscibile in tempo zero e quindi dotata di cifra autoriale, il ritmo e la sceneggiatura sono esempio purissimo di cinema commerciale dinamico e accattivante. Soluzioni raffinatissime e facilonerie imperdonabili si susseguono con andamento incalzante, mentre i personaggi si mantengono sospesi tra una tridimensionalità indispensabile a creare empatia e una mancanza di spessore da strip scorreggiona. Più che il cosa conta il come, soprattutto quando lo scheletro su cui si basa tutta la saga è un luogo comunissimo tra le storie di spiriti orientali. Ma l’alternarsi tra pugni nello stomaco, gag sguagliate (seppur talvolta geniali) e pulsioni amorose (che spero verranno sviscerate ulteriormente in Revenge) trascina lo spettatore in un turbinio dove rimanere impassibili è qualcosa di inconcepibile. E’ molto più facile che vi ritroviate irritati piuttosto che annoiati.



Sippapak rimane cineasta dal mediocre bagaglio tecnico ma dall’energia e dalla foga incontenibili, incapace di rimanere nella rigida griglia di un solo genere (tra noir, queer comedy, melò,… cosa non ha girato?). Il suo più grande pregio, quello di essere una delle icone della new wave del cinema thai, continua a rimanere anche il suo più grande handicap sul palcoscenico internazionale. Troppo localizzato e puro per interessare distribuzioni considerabili tali, pare destinato a un culto di nicchia palesemente angusto per la sua arte. Speriamo che la situazione cambi, perchè ancora troppe delle sue opere rimangono inaccessibili fuori dai confini della sua nazione.




mercoledì 26 maggio 2010

[trailer] I Saw the Devil di Kim Ji-woon (Kr/2010)





Se il cinema fosse esclusivamente orpello estetico Kim Ji Woon ne sarebbe il maestro incontrastato. Dopo il pluripremiato esordio The Quiet Family (su cui Miike baserà il suo musical The Happiness of the Katakuris) è stato un susseguirsi di lavori pressochè perfetti dal punto di vista estetico. La commedia satirica The Foul King, l'horror A Tale of Two Sisters e i due capolavori formali A Bittersweet Life e The Good, The Bad, The Weird. Ora è il turno del serial killer movie, uno dei filoni più sfruttati dai registi sud koreani (e con risultati spesso eccellenti, vedi Mother, The Chaser, Memories of Murder,...). Solitamente tendo a preferire le idee alla forma, ma il caso di Kim Ji Woon è talmente straordinario da farmi tornare sui miei passi. Se poi ci aggiungiamo Min Sik Choi (Old Boy) nella parte del maniaco omicida allora ci sono ben poche scuse per non avere la bavetta alla bocca.

lunedì 24 maggio 2010

Refn e il cinema della crudeltà: Valhalla Rising (Nicolas Winding Refn/2010)




La tragica bellezza di Valhalla Rising sta nelle gole lacerate a morsi e nelle viscere strappate a mani nude. Nei lunghissimi silenzi e nella fotografia livida. In un pugno di dialoghi che paiono rubati al teatro e nella crudezza delle riprese digitali. Nelle distese di nulla incontaminato e nel rancore del disumano guerriero One Eye.



Con questo suo nuovo tour de force Nicolas Winding Refn si conferma definitivamente come cineasta della crudeltà. Nessuno come lui riesce a narrare parabole in cui la centralità del protagonista è motore primo per una discesa nelle bassezze umane. Proprio come nella trilogia Pusher, dove si sceglieva di concentrarsi su di un personaggio per volta nonostante la natura corale del soggetto. Se il mondo del crimine danese pareva essere popolato come non mai bastava focalizzarsi su tre personaggi (in tre lungometraggi diversi) per rendersi conto di quanto fosse piccola l’umanità che lo rendeva tale. Discorso inverso per Bronson, dove è il mondo a essere troppo piccolo per il suo unico protagonista. Complice una devastante interpretazione di Tom Hardy (inarrivabile, giuro, una cosa da non credere) siamo sbattuti sul palcoscenico della vita di Charles Bronson, il detenuto più pericoloso d’Inghilterra. Un egocentrico asociale, narcisista allo stadio terminale capace di intendere la violenza come unico strumento di comunicazione verso il mondo esterno.



Così, dopo i dialoghi tra miriadi di personaggi e i monologhi di un giullare crudele, è arrivato il momento dei silenzi. One Eye è muto, parla attraverso la bocca di un bambino che lo accompagna. Unica creatura verso cui riuscirà a provare affetto nel suo fluire incontenibile di rabbia e livore. La sua porta verso il Valhalla. Tutto il resto è natura selvaggia e incontenibile, brutture antropocentriche e un inferno fatto di fango e salsedine. Restituitoci tramite un linguaggio potente e ostico, fusione tra cinema e videoarte. Mai come in questo caso il danese aveva sfidato lo spettatore, portandolo a un' esasperazione fatta di inquadrature statiche, esplosioni di violenza intollerabili e una colonna sonora che pare fare il verso al drone di Sunn O))) e alle derive folk di Harvestman.



Un cinema che non ha nulla da dare, se non uno spaccato dei lati peggiori dell’uomo. Nessuna lezione, solo cronaca di una battaglia persa in partenza.



Anche considerandolo unicamente come orpello estetico, svuotato dai suoi significati da pessimismo cosmico, Valhalla Rising ha tantissimo da dare. Nonostante le numerose imperfezioni cronologiche (troppo vistose per essere casuali) finiamo immersi per 90 minuti in un mondo lercio e freddo, dove il termine barbaro ha ancora significato. Nessun tipo di glorificazione da cappa e spada per One Eye. Anzi, pare che ogni sforzo sia veicolato alla demolizione di mitologie logore e travisate. Proprio come succedeva in Pusher per il crime movie. Ancora una conferma della potenza deflagrante del cinema di Refn.




mercoledì 19 maggio 2010

Punk rock superhero: Kick-Ass di Matthew Vaughn (US/2010)




Di Mark Millar si può dire veramente tutto. Gratuito, triviale, sempre uguale a sé stesso, privo di qualsiasi tipo di profondità. Tutte critiche centrate, eppure subordinate a quella che è la sua più grande dote: avere una percezione cristallina del presente. O, detto in maniera più pragmatica, scrivere il fumetto giusto al momento giusto. Non è un caso se Civil War è uno dei pochi eventi crossover che verranno ricordati anche tra 20 anni, se le sue miniserie sono opzionate per il cinema prima ancora della loro uscita in libreria, se il rinascimento del Marvel movie parte da una sua rilettura dai personaggi classici (perché l’Iron Man di Favreau non è che il Tony Stark degli Ultimates). Millar, anche nel suo essere spaccone e puerile, è quello che manca al fumetto popolare italiano. Una capacità di avvertire nell’aria quello che il pubblico (non prettamente nerd) vuole e di restituirglielo nella maniera più fragorosa possibile. Poco importa se non è mai riuscito a scrivere un finale degno, se i suoi cliffhanger sono sempre uguali e se la sua gestione del ritmo è, quando va bene, barcollante. Lo scozzese riesce a concentrarsi unicamente sugli aspetti più legati alla contemporaneità: le idee di fondo e i dialoghi (cosa ci restituisce i nostri tempi meglio del linguaggio comune?). Di super eroi realistici se ne parla da una vita, ma quanti hanno avuto l’intuizione di un teenager che gestisce la sua identità segreta tramite MySpace e YouTube? Nessuno. Quanti sono riusciti a immaginarsi un Tony Stark che compra il brand del supergruppo dove milita, fa concorrenza alla Nokia ed esce con Cameron Diaz? Magari ci eravamo arrivati vicino con l’Ozymandias di Moore, ma si era sempre in un campo troppo astratto rispetto alla sfilza di riferimenti sciorinati dalla mente dietro Kick Ass.



Il vero punto debole del Nostro è la sua incapacità di muoversi se non coadiuvato da grandi professionisti. Quanti dei suoi fumetti avrebbero avuto la stessa risonanza se alle matite non ci fossero stati i giganti che tutti ben conosciamo? E nel cinema è la stessa cosa. Il grande pregio del Kick Ass di Matthew Vaughn è quello di aver esagerato tutte le cadute di tono della miniserie, sfociando così in un’ironia tanto cialtrona quanto irresistibile. A questo uniamo una potente limatura agli spigoli più gratuiti, un ritmo vertiginoso, tanta ultraviolenza e una gestione delle musiche fantastica. Il risultato è un film minuscolo, libero e che si incastra istantaneamente nell’immaginario collettivo. Puro intrattenimento sganciato sul pubblico con una precisione da puntatore laser. Dopo anni di kolossal cinefumettosi dai budget faraonici si passa definitivamente a quello che l’Empire ha definito come “il primo film di supereroi punk rock”. Forte di finanziamenti facilmente ripagabili anche solo con l’home video, Vaughn si prende tutte le libertà possibili. Quindi sproloquio, crudeltà, messa in scena assolutamente non credibile (a partire dalla fotografia ipersatura) e, tra le altre cose, una colonna sonora che si può permettere di mischiare Prodigy, Dickies ed Ennio Morricone. Se volete passare una serata leggera leggera non potete veramente chiedere di meglio. E, vi assicuro, non è certo una cosa facile da raggiungere.



Saper proporre un film di consumo che non scada nel didascalico, nella faciloneria, nel già visto o nel retorico è un’impresa tosta quanto scrivere e dirigere un capolavoro di avanguardia. Si deve pescare da un bacino di simboli e significati approcciabili dalla più ampia fetta di pubblico possibile arrivando un attimo prima che questi diventino di dominio pubblico. Si deve lavorare adesso su quello che il pubblico ora ignora e vorrà tra cinque minuti. Si deve dare quella cosa di cui tutti avevano bisogno ma nessuno lo sapeva. Senza contare tempi calcolati al millimetro e personaggi abilmente sospesi tra il bi e il tridimensionale. Ci vuole scienza per far spegnere il cervello mantenendo attivi i neuroni.

lunedì 17 maggio 2010

[back to the primitive] Mammoth Grinder “Extinction of Humanity” (Relapse/2010)




E' un periodo decisamente pieno, quindi beccatevi l'ennesimo post musicale (che mi prendono un decimo del tempo rispetto agli altri).



Uno dei meriti indiscutibili della musica estrema è quello di funzionare perfettamente da cartina tornasole per i gusti del proprio pubblico. A dispetto delle accuse di immobilità e chiusura, il continuo fiorire (e altrettanto rapido tramonto) di micro generi riconducibili all’eccesso sonico dimostrano una vitalità invidiabile e quasi impossibile da ritrovare altrove (sfogliatevi un numero qualsiasi di Rolling Stone per avere una percezione precisa dello stato disastroso in cui vessa il rock)... clicca per leggere l'articolo intero

domenica 16 maggio 2010

[trailer] Black Rat di Kenta Fukasaku (Jap/2010)

Kenta Fukasaku è un paradosso. Non ha ancora girato un film bello-bello (nel senso tradizionale del termine) eppure è dotato di una cifra autoriale riconoscibilissima in ogni suo lavoro. Incapace di dare un ritmo accattivante ai suoi lavori, eppure lucidissimo nel sovrapporre strati su strati di significati e letture della realtà (tutte centrate, anche confrontandole con testi di giganti come Giddens o Bauman). Una serie di contraddizioni che valgono sia per i suoi lunghi (vedi qui e qui) che per i corti (Kodomo Zamurai prodotto da Mamoru Oshii).



Immaginate quindi la mia felicità alla notizia di un suo nuovo lavoro. Ancora di più se si parla di uno slasher adolescenziale con protagonista una liceale travestita da topo gigante.



Trovate tutto qui. Per il trailer cliccate il quarto box nella barra di navigazione in testa al sito.

venerdì 14 maggio 2010

Cast Thy Eyes / “We Burn Into The Cold Eyes Of TheSun” (DIY/2010)

Già il disco è una bomba, poi scopri che è registrato a Lecce ed è masterizzato dallo stesso omino dietro a Mastodon, Converge e Dillinger Escape Plan. Tutto confezionato in un packaging extralusso (compreso booklet da 20 pagine in cartoncino, formato A5). Qual'è l'etichetta dietro a questa bomba? Nessuna, tutto autoprodotto. Qui trovate la rece, sotto invece uno spezzone di testo dai mai dimenticati Kafka (Genova HC). Un piccolo tributo allo spirito di questi fenomenali Cast Thy Eyes.



Arcigno caparbio un pino storto e nano,
Arcigno caparbio, resiste,
Affonda le radici nella poca terra,
Corroso da un vento carico di mare si torce si flette
Ma non si lascia andare,
Rimane abbarbicato a quell’esile sperone volontà di esserci,
Volontà di farcela se ripenso adesso a quel pino storto e nano,
Mi dà coraggio più di stupide parole che mi
Dico ogni giorno per non lasciarmi andare,
Quel pino storto e nano arcigno e caparbio



Poesia pura!

mercoledì 12 maggio 2010

Fumetti sul Naviglio Update

Se ancora non eravate convinti di venire alla sessione di live painting (più reading di Adriano Barone) organizzata per il Comics Day eccovi servito su di un piatto d'argento un ulteriore motivo per non mancare: la temibile Officina Infernale sarà dei nostri! Non vorrete trovarvi l' Iron Gang alle calcagna...

martedì 11 maggio 2010

[POPaganda] Ron English ‘Everyone’s A Critic’





Nuovo video per l' artista (anti)pop/culture jammer Ron English. Che si riconferma dotato di uno sguardo sulla società (e di un umorismo) tra i più lucidi e spietati in circolazione.

lunedì 10 maggio 2010

L'azione a vignette: 14 Blades di Daniel Lee (Ch/2009)




Sarò onesto: l’unico motivo per cui mi sono approcciato a 14 Blades è la presenza in cabina di regia di Daniel Lee. La paura di trovarmi di fronte all’ennesimo polpettone cinese a base di fotografia leccata, propaganda e coreografie narcolettiche era minore rispetto alla curiosità di vedere nuovamente all’opera uno dei registi più sottovalutati di sempre. Dopo tutto il buon Daniel deve ancora convincerci tutti che la potenza deflagrante del suo debutto, quel What Price Survival con cui rischiò di cambiare per sempre il cinema di HK, non fosse il classico fuoco di paglia. Uscito in patria con il programmatico titolo di One Armed Swordsman ’94, il lungometraggio si poneva come una revisione totalmente stravolta del seminale lavoro di Chang Cheh. Se l’esordio dello spadaccino monco aveva cambiato le carte in tavola nel 1967, introducendo il wuxia nell’epoca moderna, così il suo remake le avrebbe dovute cambiare nel 1994. Entro due anni l’intera società dell’allora colonia inglese sarebbe mutata in maniera irreversibile (grazie al landover), di conseguenza anche l’immaginario (e il suo linguaggio) avrebbero dovuto voltare pagina. Risultato di tale ragionamento fu un capolavoro al limite della video arte. Ambientato in un mondo privo di riferimenti temporali coerenti, stilizzato nella messa in scena, accompagnato da una colonna sonora percussiva e cacofonica, scevro di quella morale positiva che aveva reso immensamente popolare il genere in questione. Inevitabilmente il pubblico non capì e il tentativo di Daniel Lee cadde nel nulla. L’anno dopo ci riprovò il maestro Tsui Hark, con il suo The Blade (secondo remake dello stesso film), e fece la stessa fine. Se non ci riesce il migliore chi ci può riuscire?







Dopo anni di oblio e lavori alimentari ora il Nostro torna al wuxia e, nonostante le basse aspettative, fa un gran lavoro. 14 Blades riesce a unire una messa in scena raffinatissima (dalla fotografia ai costumi), una fusione di generi spinta come non se ne vedeva da tempo (c’è moltissimo spaghetti western, ma l’ambientazione è ostentatamente medio orientale) e un linguaggio dell’azione sempre più stilizzato e mai così vicino al fumetto. Il movimento si frammenta e si contrare grazie all’uso costante di microellissi. Così se l’apertura della custodia delle 14 spade viene resa con quattro/cinque stacchi di montaggio, un fendente è invece immortalato concentrandosi direttamente sul risultato e ovviando l’atto in sé. Durante l’azione si ha sempre l’impressione di assistere a minuscoli siparietti della durata di un paio di secondi, come se si trattasse di vignette. La presenza di una fotografia antirealistica (tagli di luce, fumo) amplifica l’effetto di tale scelta e la va a rafforzare. Une versione edulcorata di tante intuizioni portate avanti da Tsui Hark, come una sorta di Seven Swords spogliato dal suo alone epico. Basti come esempio la direzione degli attori, disposti in maniera plastica e “statica”.



L’impressione complessiva è quella di trovarsi di fronte a un film che si riallaccia con orgoglio alla tradizione di HK. Così, fianco a fianco con una cura eccezionale per il dinamismo e il linguaggio dello scontro fisico, abbiamo il consueto ottovolante fatto di colpi di genio e buchi imperdonabili. Se un attimo prima ci convinciamo di aver trovato il film dell’anno, l’istante dopo stiamo maledicendo l’ennesimo tonfo (o furto alla cinematografia occidentale, tipo il clone di Jack Sparrow). Proprio come nel ventennio d’oro, quando la foga della new wave fondeva alto e basso senza vergogna.




venerdì 7 maggio 2010

Fumetti sul Naviglio

Ci siamo io, Christian, Adriano Barone, Akab, Paolo Castaldi, Davide Gianfelice e Franco Busatta. Come puoi PENSARE di chiedere di più?

Neurotic Deathfest 2010: più brutalità per tutti!




Sarò lapidario: il Neurotic Deathfest dovrebbe essere d’esempio per qualunque tipo di festival musicale. Come raggiungere tale eccellenza rimanendo all’interno di un genere ostile e non certo adatto all’ascoltatore medio come il death metal? La questione è complessa, meglio procedere per punti:



- line up: perfetta. Qualcuno spieghi ai promoter italiani che l’effetto pastone non premia mai. Mille volte meglio scegliere un genere e sviscerarlo in ogni sua possibile sfaccettatura. A questo Neurotic c’era il death old school, quello ipertecnico, il grind più feroce, i trionfi di ignoranza incontaminata e le cessioni agli ultimi trend. Bene o male tutte diramazioni dello stesso filone. Così non ci si annoia, rimanendo sempre in un contesto coeso e ben definito.



- location: lo 013 è un locale che in Italia ci sogniamo. 3 palchi indoor completamente insonorizzati, 10 bar, una tavola calda e prezzi umani (una birra stava a poco più di 2 euro). Così si è evitata pioggia, sole battente, effetto sauna da prime file e mille altre avversità meteo. Il tutto in pieno centro Tilburg, garantendo la vicinanza a baretti, ristoranti, kebab, rosticcerie e coffee shop. Senza vecchiacci che rompono per il casino.



- organizzazione: su due giorni mai un minuto di ritardo. Con un running order studiato alla perfezione (in modo che gli show si sovrapponessero il meno possibile) e un team tecnico di primissimo piano tutto è andato liscio come l’olio.



- metal market: visto che in Italia si pensa di combattere l’evasione multando le distro ai concerti più di nicchia (si veda infatti la progressiva scomparsa dei tradizionali banchetti), ci pensano i festival europei a colmare le spinte consumistiche degli appassionati. Risultato? Alle 15:00 di venerdì (un’ora dopo l’inizio del festival) l’ultimo lavoro dei romani Hour of Penance era già esaurito. Senza contare le code chilometriche allo stand Relapse e il perenne intasamento nel cortiletto esterno adibito a mercatino. Primizie per tutti!



- il Bat Cave: gran parte dei migliori show me li sono beccati nella location più underground del festival. Neppure 10 metri quadrati di palco in una stanza minuscola. Rampa di lancio perfetta per band magari al primo disco, sconosciute ai più e dall’età media bassissima. Realtà che, una volta dotate di un palco degno, hanno saputo dimostrare a tutti il loro valore. Ricambiate dal pubblico, visto che la sala era praticamente sempre inagibile (esempio: dopo ¾ del concerto dei Carcass decido di andare a vedere cosa combinano i torinesi Septycal Gorge. Un macello, con una densità di pubblico molto maggiore rispetto agli headliner).



Il risultato di tutti questi fattori è stato un prevedibile soldout già in fase di prevendita, con gente proveniente da ogni parte d’Europa e band gasatissime. Tra l’altro, considerando quanto di nicchia fosse il festival, e di conseguenza moderati i cachet degli artisti, non c’è stato bisogno del botto da 100.000 per rientrare nei costi. Cosa che ha tenuto lontani scivoloni e compromessi (ma ci vuole tanto a capire che un budget contenuto lo recupero subito e che invece investimenti milionari livelleranno per forza di cose il mio lavoro verso la mediocrità?), autentiche spine del fianco di questo tipo di manifestazioni.



Ma su 42 band quante erano effettivamente valide? Non voglio apparire come il fanatico di turno, ma il livello è stato decisamente alto. Magari molte proposte non erano esattamente nelle mie corde (tipo i Putrid Pile) ma i concerti da antologia non sono mancati. Qualche esempio.



Dr.Doom: sono andato in Olanda solo per loro. Mi hanno ricompensato son un set sospeso tra grind e postHC alla Converge. Fisici, ultracinetici, tanto estremi quanto variegati. Non vedo l’ora che qualche grossa label ci metta le mani sopra.



Enemy Reign: la nuova band dell’ex cantante degli Skinless ha conquistato tutti. Rozzi e ignoranti, eppure dotati di una presenza scenica invidiabile. Tra giubbetti di salvataggio, bottiglie di Jack Daniel’s e momenti di delirio puro c’è stato di che divertirsi. Come proposta musicale nulla di nuovo sotto al sole, ma la carica e la genuinità ci sono tutti.



Malignancy: uno dei nomi non perdere per gli sfegatati del suono di New York. Tecnicissimi e ultrabrutali, capaci di instaurare un rapporto immediato con il pubblico. Tutto tra velocità supersoniche, umorismo becero e vocals da lavandino otturato. Siamo al Neurotic, cosa chiedere di più?



Rotten Sound: vedere i loro sorrisi increduli mentre vengono accolti come delle star non ha prezzo. Ripagano la fiducia del pubblico con una tempesta grind senza eguali. Nessuna pausa, solo una tonnellata di canzoni lanciate a velocità sconsiderata. Abrasivi.



Burning Skies: prova del fuoco per la tipica deathcore band made in UK. Il concerto parte male tra la diffidenza del pubblico e un cantato non a livelli stellari. Poi la carica HC prende il sopravvento e tutti i presenti cedono agli inviti del groove. Una buona prova, ma questi ragazzi possono fare di più.



Those Who Lie Beneath: mazzatona deathcore, poco altro da aggiungere. Uno show sentito, carichissimo e senza un calo di tensione. Ora che questo suono pare essere al tramonto è bello sapere che ci sono band capaci di tenerlo a galla solo con l’intensità e la potenza dei propri live.



Bolt Thrower: il palco è decorato con grandi stendardi di derivazione technofantasy, loro entrano in scena sulla fanfara di Starship Trooper. Al saluto militare di Karl Willetts lo 013 esplode in un boato. Saranno eccessivi, kitsch (rimangono l’unica band della storia a essere stata sponsorizzata dalla Games Workshop!), scontati e sempre uguali a loro stessi. Eppure per tanti anni lo scettro di band più pesante della Terra è stato loro. Una scorpacciata di death vecchia scuola, quello che ti faceva muovere la testa anche senza suoni iper processati, trigger e tecnicismi fini a se stessi. Da lacrime.



Origin: surreali. In più frangenti si è avuta l’impressione di essere davanti a una proiezione mandata al doppio della velocità. Dopo l’esibizione sul medium stage di due anni fa oggi gli americani riescono a conquistarsi il loro spazio sul palco principale. Il loro è uno show ai limiti della realtà, basato su una precisione e una velocità d’esecuzione impossibili anche per la più efferata delle grind band. Peccato che qui non si parli di schegge di pochi secondi, ma di strutture lunghe e complesse. Spesso al limite del prog.



Dying Fetus: i soliti professionisti. Continuano imperterriti per la via della chitarra singola senza perdere un briciolo di potenza e aggressività. Nessun guizzo in particolare, ma il valore dei loro dischi trova l’ennesima dimostrazione in sede live. Impegno politico e mosh come se non ci fosse un domani.



Revocation: su disco non mi hanno detto nulla, ma dal vivo questo trio di (appena) ventenni riesce a mettere in fila un bel po’ di band affermate. Senza risultare per forza di cose le macchine che paiono essere in studio. Il loro concerto è un bagno di sudore, scalmanato e sorprendente. C’è ancora spazio per il thrash più selvaggio!



Abysmal Torment: da Malta il miglior concerto dei due giorni. Insostenibili su disco, mi avvio verso la Bat Cave sicuro di abbandonarla in pochi minuti. Invece vengo sorpreso da un turbinio di corpi totalmente folle. Doppio attacco vocale (cantante che urla + cantante che urla ancora di più), stacchi mosh presenti in tutte le canzoni, pig squealing abusatissimo. Saranno mezzi facili, ma il risultato giustifica ogni espediente. Richiamati sul palco per ben due volte (unica band in due giorni).



Beneath The Massacre: i prezzemolini della nuova ondata death. Li trovate praticamente ovunque. Poco male, perché dal vivo rendono sempre. Magari leggermente noiosi alla lunga distanza, ma la loro potenza d’impatto rimane invidiabile. Blastbeat perenne, riffing intricato e uno dei cantanti più selvaggi di tutto il festival. E in più è veramente grosso, quindi se non vi garba che siano ovunque andate voi a dirglielo.



Murder Therapy: da Bologna con furore. Chiamateli pure i Cephalic Carnage di casa nostra. Ai mostri sacri del techno grind non hanno da invidiare ne tecnica ne inventiva. In sede live sputano sangue e convincono a più riprese, sia sui brani più intesi che sulle digressioni strumentali. Assieme a Septycal Gorge e Hour of Penance (che mi sono perso grazie alla grande Ryanair) la dimostrazione di quanto le band italiche possano essere competitive soprattutto all’estero.



Carcass: gigioneggiano un po’ troppo. Sanno di essere i Carcass e questo li penalizza, anche se la classe è talmente tanta da far soprassedere a questi piccoli peccati veniali. Presenti in scaletta scelte per nulla scontate, come a voler far rivalutare alcune parti oscure della loro carriera. Comunque gran concerto, anche se inferiore a quello degli headliner della serata precedente.



Septycal Gorge: terribili, ma nel senso migliore della parola. Se amate certo brutal ultragutturale questa era sicuramente la proposta da non perdere, anche meglio dei blasonati Defeated Sanity. Volumi assurdi e una spietatezza d’esecuzione al limite dell’ingiustificabile fanno il resto. A quando il grande salto?



E questo è solo un campione di quello che ci siamo subiti in due giorni di estremismo e intransigenza. Una manifestazione non per tutti, ma che ha soddisfatto pienamente appassionati e fanatici della più bestiale delle derivazioni metalliche. E adesso provate a dire che il Gods of Metal è un evento imperdibile!

domenica 2 maggio 2010

Neurotic Deathfest 2010: sopravissuto




42 band in due giorni, dispersi in una magnifica cittadina olandese. I Bolt Thrower, in scena sulle note della fanfara di Starship Troopers con 2000 persone esultanti ad accoglierli, mi hanno convinto del tutto che la storia del rock è stata scritta dalle mani sbagliate. Nei prossimi giorni report e foto a pacchi.