lunedì 29 agosto 2011

[Stare male veramente] Today is the Day - Pain is a Warning (BMA/2011)



Se a questo mondo esiste una persona che non verrà mai avvicinata al concetto di poser quello è Steve Austin. Tra i tanti fenomeni che popolano il sottobosco delle culture apocalittiche lui fa parte di quella ristrettissima cerchia di artisti che stanno VERAMENTE male. Dai tempi del debutto Supernova fino a quel pozzo di disperazione che rispondeva al nome di Sadness Will Prevail. Un capolavoro al limite dell’inascoltabile, nero come la pece e impossibile da ascoltare da cima a fondo per chiunque non sia più che addentro a certe sonorità sludge (anche perché si parla di circa 150 minuti di assalto sonoro senza compromessi). Poi ecco arrivare il furioso grind di Kiss the Pig e l’omnibus Axis of Eden. Coda necessaria alle dilatazioni del precedente lavoro il primo, riassunto della carriera fino a quel punto il secondo. E poi? E poi è successo l’incredibile. Il reverendo (nomignolo di Austin da tempo immemore) firma per Black Market Activities e decide di farsi produrre da Kurt Ballou dei Converge. E’ la prima volta che qualcuno entra in cabina di regia durante le registrazioni della band. E il risultato è straordinario. Scompaiono tonnellate di sporcizia sonora ed emerge un nuovo suono, più nervoso e d’impatto. Sospeso tra southern, postHC e grind. Si sfronda ogni orpello superfluo dal tipico TITD sound, si diminuisce il numero di tracce destinate a essere impresse su cd, si sorvola sul piacere di far male all'ascoltatore con il rumore puro. Pain is a Warning è il disco più immediato e godibile mai registrato da Steve Austin, eppure riesce a essere anche uno dei più sentiti e intimi. Qualcosa è cambiato, il Nostro non è più quel folle che amava collezionare fucili anticarro e armi automatiche per poi concepire canzoni come This Machine Kills Fascists (ogni volta che sfoglio il booklet di Kiss the Pig ho i brividi, e non certo di piacere). Ora è un padre capace di scrivere una canzone sul dolore di non potersi economicamente permettere quello che i figli gli chiedono (Devil’s Blood). Così tra i solchi del disco finisce per trovare spazio, tra le varie bordate, una canzone come Remember to Forget, dove la goffaggine delle clean vocals riesce a rendere l'emotività del lavoro ancora più decifrabile e tangibile. Steve Austin non sarà mai un poser perché troppo sincero, iperesposto nella sua cocciutaggine di mettere su disco ogni cosa gli passasse per la testa senza il minimo filtro critico. Oggi, grazie alla scelta di aprirsi all’esterno e accettare che qualcun altro gli faccia da regista, potrebbe avere il riscontro di pubblico che si è sempre meritato.


domenica 28 agosto 2011

Facciamo un doppio a Street Fighter?



Avete idea di cosa passa per la testa di un videogiocatore professionista (o aspirante tale) durante il più grande torneo della sua vita? Focus, il documentario che trovate allegato qui sotto, è un interessante spaccato di una realtà sempre meno ghettizzata. Steve Hwang decide di seguire l'ascesa di Mike Ross, dai piccoli tornei di provincia fino alle platee dell'EVO. Per una volta nessun pregiudizio, paternalismo o semplificazione. Solo la fotografia di come Street Fighter (ma sarebbero stati tanti i titoli da tirare in ballo) ormai abbia perso la sua connotazione di prodotto tecnologico, diventato invece uno standard ed elemento irrinunciabile all'immaginario collettivo degli ultimi 20 anni. Non l'ultimo gioiello di un'industria multimiliardaria, ma semplice strumento di competizione. Naturalizzato come un pallone da calcio o un fresbee. Non ha caso durate i 74 minuti del video i giocatori parlano molto dei loro rivali (umani) e pochissimo di tecnicismi nerd. La più grande innovazione riconosciuta agli ultimi capitoli della saga di SF è il fatto di poterla giocare in casa come meglio si preferisce, senza avere l'obbligo di trovare una sala giochi nelle vicinanze.


Detto questo spero che adesso ne girino un seguito, cercando di spiegare come ha fatto questo ragazzetto a salire tanto nel rating mondiale utilizzando solo E. Honda.


mercoledì 24 agosto 2011

Quei bei polizieschi di una volta: The Unjust di Ryoo Seung-wan (Kr/2010)



Recupero tardivo per un film che, ironicamente, avrebbe meritato più attenzione proprio per i motivi per cui il sottoscritto l’ha sempre snobbato e dimenticato nella pila dei film “da vedere” (catasta, tra le altre cose, sempre più alta e pericolante). The Unjust è uno di quei film di cui sembravano esplodere gli anni ’70. Uno di quei polizieschi con una spolveratina di politica, basati più sui personaggi che sulle esplosioni e le trovate a effetto.



Tutto parte da una crisi delle forze dell’ordine sud-coreane. L’attenzione dell’opinione pubblica è concentrata sui delitti di un violentatore di bambine. Tanta è la pressione sulla polizia che per sbaglio una copia di detective abbatte un sospetto. Se si venisse a sapere sarebbe il tracollo totale. Meglio istituire una task force con poteri speciali e lasciare che i buchi vengano tappati. A ogni costo.



Da questo punto si sviluppa un dedalo di cospirazioni dalla doppia/tripla faccia. Prima di tutto occorre un colpevole da mandare nel braccio della morte. Un disperato che si sacrifichi per il bene della propria famiglia, ripagata del suo sacrificio con un’ingente somma di denaro. Gentilmente offerta da un malavitoso a cui occorre assolutamente l’aiuto della polizia per poter accedere a un appalto multimilionario. Traffici sporchi a cui si interessa il procuratore Joo Yang, a sua volta impelagato in un vortice di corruzione e amicizie pericolose. In The Unjust tutte le pedine giocano su di un enorme tabellone comune (una Corea del Sud al limite del tracollo, lercia e fatiscente), dove ogni singola mossa si ripercuote su tutto il resto della partita. Così si spara poco e si parla tantissimo, si insinua e si gioca d’astuzia. Non a caso di questo film è più noto il nome dello sceneggiatore (Park Hoon-jeong) che quello del regista. Tutti paiono sbrodolarsi per la penna dietro a questo thriller, la stessa che ha scritto su di un post-it la trama di I Saw the Devil (film bomba, ma dove la scrittura non conta praticamente nulla), e nessuno pare riconoscere a Ryoo Seung-wan i suoi meriti. Un 38enne con già 7 regie di ottimo successo alle spalle, tra cui il piccolo cult low-budget The City of Violence. Un gioiellino girato in digitale, stupidotto, ammiccante e divertente come ogni action dovrebbe essere. Basterebbe confrontare la regia colorata e iperpop di questo con il rigore di The Unjust per capire la padronanza del mezzo sfoggiata dal Nostro. Di tanto in tanto qualche trovata di regia a effetto punteggia lo scorrere delle pellicola, ma sono piccoli specchietti per le allodole in un progetto che mette in primo piano la narrazione rispetto alla costruzione estetica.



Una volta arrivati alla fine delle due ore (praticamente un cortometraggio rispetto alla media coreana, fattore che fa slittare sempre più la visione delle quasi 3 ore di The Yellow Sea) si ha la sensazione di aver visto un bel film, solido e durevole anche se con il freno a mano tirato. L’abbondanza di personaggi, la complessità dei loro legami, il fatto di non poter mai rivelare nulla prima del tempo hanno costretto a un lavoro certosino in cabina di regia. Il risultato è godibile e soddisfacente come non si potrebbe chiedere di meglio, ma forse un pò troppo freddo (anche relazionandolo al genere). Se nel già citato The City of Violence il delirio creativo di Ryoo Seung-wan lo aveva portato a sbattersene bellamente di tutto e a togliersi più sfizi possibile (con tanto di apparizione dei Baseball Furies e di deliranti citazioni di Chang Cheh), qui invece pare più nei panni dell’autore che vuole consegnare il filmone ai posteri. Missione parzialmente riuscita. Però di John Woo si finisce sempre per riguardare Hard Boiled, non The Killer. Detto questo, anche a costo di contraddirmi con quanto appena scritto, meglio un bel tentativo di cinema modernamente vintage come questo che l’ennesima accozzaglia di esplosioni e pacche sulla testa allo spettatore.



lunedì 22 agosto 2011

Vi ricordate i bei tempi di Franko B.?



Quel simpatico performer milanese che si aprì il petto in pubblico per dimostrare la sua vulnerabilità? Che si faceva pestare a sangue nelle gallerie d'arte? Che aveva un lessico composto da incisioni nella carne viva, bocche cucite e salassi? Probabilmente Marion Laval-Jeantet sì, tanto da spingersi addirittura oltre.


Durante l'intensa performance Que le cheval vive en moi, spinta dal desiderio di fondere umano e animale, l'artista è arrivata a iniettarsi sangue equino direttamente in vena (e a installarsi delle protesi alle gambe). L'esperimento ha richiesto mesi di preparazione (per evitare shock anafilattici) e potrebbe portare a conseguenze irreversibili. Per ora la francese giura di aver vissuto esperienze extracorporee piuttosto forti, tanto da sentirsi più cavallo che essere umano.

sabato 20 agosto 2011

Hai capito le testuggini!



Dave Rapoza con me vince facile: la primissima serie delle TMNT è uno dei miei fumetti preferiti di sempre. Ma se poi aggiunge al piatto una April O'Neil così allora non c'è proprio più partita. Magnifico anche Casey Jones (a quando una sua serie scritta da un John Wagner per le nuove generazioni?) e inquietanti le quattro tartarughe (vedi Donatello).


Scoperto atraverso il bel tumblr Vai Tranquillo!

Bravo ballerino, Samuel Beckett sarebbe orgoglioso di te

Dancer #3 by Kris Verdonck from OtherSounds on Vimeo.



Quanto è struggente l'opera Dancer 3 di Kris Verdonck? Tanto goffo da cadere dopo pochi passi della sua danza sbilenca, questo strano ballerino trova ogni volta la forza di rialzarsi e rimettersi a saltellare. In un moto perpetuo.


All of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.

venerdì 19 agosto 2011

[kick-ass movie] The Exterminator di James Glickenhaus (US/1980)



The Exterminator parte a bomba. Letteralmente. La primissima inquadratura del film è un’esplosione di napalm in cui un uomo viene lanciato a decine di metri di distanza. Un buon gancio per tenere il pubblico attaccato alle poltrone. Secondo un vecchio adagio della critica cinematografica nell’incipit di ogni lungometraggio ci dovrebbe essere la chiave per decodificare tutta l’opera. Esempio perfetto e recente di questa pratica sono i primissimi minuti del Somewhere di Sofia Coppola. Un ricco annoiato che disegna anelli con la sua Ferrari in mezzo a un sabbioso nulla. A essere malvagi si potrebbe dire che bastava quello, tanto il senso del film era tutto lì. A essere più giusti invece non si può non apprezzare il cinismo con cui la regista osserva la sua stessa opera. E qui torniamo all’avvio di The Exterminator. Prima che il titolo vada a riempire lo schermo abbiamo già tutto quello che ci occorre per capire a cosa andiamo incontro. Abbiamo un Vietnam da girone dantesco, con esplosioni, uomini in fiamme e torture orrende (tra cui una decapitazione da annali del cinema di genere). Poi la prigionia, l’amicizia virile, la fuga e la vendetta sugli aguzzini. Stacco. Tema musicale, riprese dall’alto della New York del 1980 (un posticino piuttosto ospitale) e flashforward sulla nuova vita dei nostri reduci: magazzinieri in un mercato alimentare. E si incomincia già a sentire il profumo di giustizia sommaria di un Rolling Thunder (praticamente identico nella trama ma molto superiore nell’esecuzione) piuttosto che di un Vigilante o di un Death Wish (e, perché no, di un Il Cittadino si ribella). E infatti e proprio così, con qual cosina di meno e una vagonata di brutalità in più.


Solitamente, in questo genere di film, uno degli aspetti più interessanti è il lucido sprofondare del cittadino nella follia della vendetta. In The Exterminator invece abbiamo solo pura e semplice exploitation. Proprio come si faceva intendere nell’incipit. Tanto rozzo e esplicito da concentrarsi subito sulla morte di un uomo. Senza neanche un’inquadratura di contestualizzazione (siamo pur sempre nel 1980). E così addio febbrili camminate nella notte della grande città, addio sguardi d’odio e piccoli passi nel mondo della coercizione violenta. Dopo 4 secondi dalla scoperta dell’aggressione al suo vecchi commilitone il nostro protagonista sta già imbracciando un lanciafiamme. Ed è solo l’inizio. Poi arriveranno tritacarne giganteschi, coltelli elettrici, proiettili farciti di mercurio, l’eutanasia allo sfortunato amico rimasto paralizzato in seguito allo scontro con una gang,… Dall’altra parte invece abbiamo ciccioni seviziatori, mafiosi, politici attaccati alla poltrona e forze dell’ordine con le mani legate. Insomma, tutto il repertorio tipico di questo tipo di cinema.


Per tornare agli esempi già fatti, in The Exterminator non esiste un crescendo che porti all’epica scena della spedizione punitiva di un Rolling Thunder. E neppure la sottile ironia cinefila di un Vigilante (che, ricordo, è un omaggio di Lustig ai Vigilante-movie italiani nati per saccheggiare la moda di Charles Bronson). The Exterminator ha senso di esistere solo nelle sparatorie e nelle torture, nelle tette sfregiate con un saldatore e nelle macchiette italo-americane. Nei tagli di montaggio della delicatezza di uno schiacciasassi e nell’evidente esaurimento del budget prima della fine delle riprese (confrontate l’incipit con altri passaggi del film). Non penso che al regista James Glickenhaus sia mai interessato di fare l’artista (e infatti oggi fa il broker) quanto di dare al suo pubblico (pagante) quanto cercava. Exploitation, cristallina come un film che inizia con un morto.

martedì 16 agosto 2011

Stanchi di Photoshop? Ci pensano i Mastodon



Stanchi delle solite copertine fatte in 5 minuti con il Photoshop? Ci pensano i Mastodon. Qui sopra il making of per l'artwork del loro nuovo disco (fuori il 27 settembre, ma sembra manchi una vita!). Il terrore che l'abbandono del sodalizio con lo storico illustratore Paul Romano portasse a uno stravolgimento dell'immagine del combo di Atlanta era forte, ma ancora una volta la band di Troy Sanders ha dimostrato di non sbagliare un colpo.

mercoledì 10 agosto 2011

Robot Chicken Star Wars ep.3: la vendetta dei nerd



Terzo episodio dell’oramai classica serie di tributi all’universo di Star Wars da parte dei geni dietro Robot Chicken. Chi non ne avesse mai vista una puntata si prepari a un esempio perfetto di “scrittura a cipolla”. Se prendiamo un episodio qualsiasi di un’ altrettanto generica stagione avremmo sempre a che fare con una superficie stupida, spesso tangente al piano della volgarità gratuita o del nonsense fine a se stesso. Da questo punto di vista le varie gag dovrebbero avere una potenza dirompente, basandosi su meccanismi ben comprensibili da chiunque e rodati in anni di commedie cinematografiche e televisive (pensiamo al continuo gioco al ribasso di Seth MacFarlane). Eppure non sono in molti a ridere delle action figure di Green e Senreich. Questo perché, scandagliando un livello appena più profondo, si scopre di avere a che fare con una scrittura asciutta e talmente sintetica da sfiorare il parossismo. Per quanto possa apparire stupido allo spettatore medio Robot Chicken non ha mai ceduto alla tentazione di imboccare il suo pubblico. Se vuoi capirne l’umorismo devi aver letto tonnellate di fumetti, visto centinaia di film e passato intere giornate davanti alla TV. Siamo di fronte alla classica serie sfigata per sfigati? Così sembrerebbe, anche se scendendo di ancora un livello si arriva a un'altra conclusione.


Cosa ha permesso al mondo nerd di diventare la macchina multimilionaria degli ultimi anni? L’innesto di realtà in un mondo di carta e inchiostro. In una maniera tutta nuova. Se Moore e Miller (e Mills, e Veitch,…) negli anni ’80 ci avevano convinto che maschere e mantelli nel mondo reale avrebbero fatto rima con depressione e malattia, i più recenti Millar ed Ennis (tra i tanti) ci hanno convinto del contrario. Da Authority al Tony Stark cinematografico, passando per tutta la macchina narrativa di Bendis, abbiamo a che fare con una masnada di smargiassi pieni di sé. Tutto è quantificabile (in migliaia di vittime), collegabile alla nostra esperienza del mondo (le Stark Enterprises che fanno concorrenza alla Nokia) e dolosamente attuale (superterroristi al posto di supercriminali, come visto anche in serie extra Ultimate tipo l’Iron Man di Fraction). I super eroi sono meglio di noi. Più intelligenti, più belli, più popolari. Nel mondo di Green e Senreich invece tutto funziona al contrario. Non prendono personaggi di fantasia per fargli vivere roboanti avventure nel nostro mondo, ma invertono il paradigma. Prendono situazioni reali (anzi, quotidiane) e le infilano sotto l’epidermide della narrazione di genere. Il risultato è dirompente. Gli eroi saranno in grado di salvare l’Universo prima della fine di ogni episodio (non di RC, comunque), ma si comportano da autentici imbecilli quando hanno a che fare con uno dei nostri problemi. Così eccoli trasformarsi in idioti meschini ed egoisti.


Questo terzo speciale di Star Wars non fa eccezione. Anche se si rimpiange il grezzume di cartone delle primissime puntate della serie principale, l’umorismo si è fatto più raffinato e sottile. A volte fa addirittura capolino una parvenza di costruzione narrativa coerente. Tutto senza mai perdere un grammo della sua carica rabbiosa. Nonostante tutti i proclami degli autori, e una conoscenza enciclopedica dell’universo di George Lucas, non si scorge il minimo segno di affetto verso i bersagli degli scherni. Sembrerebbe quasi una vendetta nerd, un atto terroristico per riprendersi anni gettati davanti a uno schermo o a un albo. Non è un caso che in questo episodio le gag più gustose siano affidate a tutta una serie di personaggi che nei film originali rimangono sullo sfondo: Gary lo Stormtrooper, Prune Face (geniale), il maestro Jedi dal pianeta Kamino,… e le citazioni si siano fatte più colte e meno legate all'universo da fumetteria. Che Green e Senreich siano (o vogliano farci credere di essere) diventati grandi?

martedì 9 agosto 2011

Un ottimo esempio di buon cattivo gusto






Di questa particolare categoria estetica (il buon cattivo gusto) ne parlavo qui. Le foto qui sopra, di Jasmin Schuller, mi pare centrino in pieno la questione.

lunedì 8 agosto 2011

Essere di Sacramento, suonare in una band chiamata † † † e non fare metal













Piccolo (ma prezioso) break musicale (per una volta privo di ogni forma di robaccia estrema) in questi placidi primi giorni di vacanza. Appena ho letto di un progetto lo-fi da parte di Chino Moreno dei Deftones e di un componente dei Far sono saltato sulla sedia. Basta il ricordo di una Passenger in cui la voce del cinoispanico si intrecciva con sua maestà Maynard (dei Tool) per avere i brividi di piacere. E questa volta si parla addirittura di Jonah Matranga, una delle 3/4 ugole per cui il termine emo ha ragione di esistere (clicca sul nome, ascoltati la canzone e prova a dire il contrario). E invece...


... e invece niente. Dietro il progetto troviamo Moreno e Shaun Lopez, chitarrista dei (troppo, troppo, troppo sottovalutati) Far. Poco male perché il progettino resta una piccola perla. Elettronica piuttosto atmosferica registrata in camera da letto. Scaricabile gratuitamente a una qualità più che accettabile (o a qualità cd pagando 5 dollari). In più l' artwork di copertina è una bomba. Con la speranza che alla prossima uscita Matranga salga a bordo.

mercoledì 3 agosto 2011

I fratelli Chapman e la sottile arte della provocazione



Simpatico mini-servizio sull'ultima personale di Jake & Dinos Chapman. Sottili e discreti come di loro solito. Ricordo, tanto per far capire con chi abbiamo a che fare, che questi due geni sono le menti dietro alla mastodontica opera Fucking Hell. Un enorme diorama a forma di svastica dove oltre 30000 (trentamila) miniature realizzate a mano inscenano una battaglia tra demoni e nazisti. Detto così fa ridere, visto dal vivo è un calcio in faccia (sopratutto quando si trova la miniatura di Hitler, intento a... ). Qui sotto un piccolo esempio.


martedì 2 agosto 2011

[Chinare ossequiosamente il capo e prendere nota]Blood, Sweat + Vinyl: DIY in the 21st Century



Trailer per quello che pare un bel documentario sul DIY discografico. Se già la qualità dei nomi tirati in ballo dovrebbe fare alzare le antenne a chiunque sia un minimo interessato alla musica, le parole di Steve Von Till (cantante e chitarrista di quel gruppo da storia del rock che sono i Neurosis, oltre che mente dietro la Neurot Record) messe in chiusura provocano un brivido lungo la schiena. Questa è gente che ha tracciato nuove rotte. Perdendo soldi, sputando sangue e investendoci anni della loro esistenza. Eppure dovevano farlo. Per loro stessi.

lunedì 1 agosto 2011

Perché i videogiocatori non si meritano una cheerleader con motosega e il cinema di John Waters



Da qualche settimana l’autore Goichi Suda (aka Suda51) ha reso pubblici i primissimi screenshot del suo nuovo lavoro: Lollipop Chainsaw. Per la precisione si tratta di alcune sequenze che ritraggono una splendida cheerleader, dotata di motosega e testa mozzata legata in vita, combattere furiosamente contro orde di zombie. A sostituire laghi di sangue una serie di cuori rosa shocking. Figurarsi cosa possa essere successo nel mondo nerd come conseguenza a una tale visione. Tra le reazioni, sia di esaltazione che di stanchezza nei confronti di un certo tipo di estetica, un unico termine ha accumunato entrambe le fazioni: trashata. Guarda caso associato, nella maggior parte dei casi, alle recenti produzioni Sushi Typhoon. Esatto, quei mentecatti dietro a, tra i tanti esempi possibili, Machine Girl, Tokyo Gore Police e RoboGeisha. Esattamente il genere di film amato e ricercato da chi il cinema giapponese (soprattutto exploitation) non ha la minima idea di cosa sia (permettetemi di essere snob, ma sono robaccia veramente atroce).


Per il videogiocatore medio il punctum di quelle immagini non è la possibilità un gioco potenzialmente non violento (esattamente come lo è uno Zelda qualsiasi, dove i nemici sono sì da abbattere ma questo non porta a nessun tipo di glorificazione grafica della violenza) in uno scenario che pare offrire solo geyser di sangue e fps per adolescenti asociali, ma il fatto che un’accozzaglia di elementi apparentemente priva di logica faccia scadere il tutto nel grande (e più o meno eccitante) cassonetto del trash. Questo perché oggi come oggi, in un deserto culturale dove l’ironia del So Bad, It's Good non sembra ancora morta e sepolta, il termine in questione serve per indicare informi e innocui pastoni dove solo l’eccesso sanguinolento e clownesco viene premiato. Eccoci quindi alle prese con un altro caso di de-potenziamento semantico. Esattamente come successe con il pulp, che passò dall’indicare racconti fortemente conservatori contraddistinti da una continua spinta verso l’immoralità (risultando così doppiamente offensivi) a etichetta per sterili giochini metalinguistico. Per capire cosa significhi realmente trash si deve fare un salto nel passato, fino al 1972. Un 26enne John Waters consegna ai posteri quello che è ancora oggi il miglior esempio di buon cattivo gusto possibile. Si parla naturalmente di Pink Flamingos, lungometraggio noto a tutti soprattutto per l’oltraggiosa scena conclusiva in cui il protagonista Divine (un travestito di oltre un quintale) mangia merda di cane (senza stacchi di montaggio dalla defecazione all’ ingoio). Ma è l’intero film a essere un continuo ottovolante di trovate disgustose, dall’ obesa ritardata che si nutre solo di uova al tizio che durante l’amplesso cerca di inserire nella vagina della partner una gallina (viva!). Passando per ani aperti, vomito, feci e fellatio omoincestuose. Tutto naturalmente ripreso in piena luce. Un film per pochissimi, quindi? Assolutamente no. Dopotutto se John Waters ora è chiamato per allestire sue personali al MOMA di New York un motivo c’è. Il papa del cattivo gusto, l’uomo che considerava uno spettatore vomitante come una standing ovation, ha sempre avuto un senso dell’umorismo irresistibile. E i suoi Fenicotteri Rosa non fanno eccezione. Eccessivo, oltre ogni limite, esagerato. Eppure sguaiatamente divertente. Cosa che Yoshihiro Nishimura non riuscirà mai a essere. Nonostante i suoi arti di lattice, i litri di sangue e tutta la sarabanda di effetti speciali.


Ecco qual’ è il vero significato di trash. Scioccare con bassezze oltraggiose, risultando comunque (e soprattutto) spassoso e liberatorio. E oggi più che mai oltraggio fa rima con sesso, non con violenza (soprattutto nella sfera adulta, per i più giovani penso che lo stesso termine oltraggio non abbia più senso), declassando tutta la produzione di cui si parlava prima come semplice paccottiglia frigida e complessata.


Quindi i prodotti Sushi Typhoon sono trash? No. Lollipop Chainsaw è (per quello visto fino a ora) trash? Forse, ma non nella maniera in cui l’utente medio se lo aspetta. Il mondo del videogioco sarebbe pronto per un prodotto inscrivibile in questa particolare categoria estetica, da sempre tangente a una sfaccettatura del cattivo gusto politicizzata come il camp? No. Si parla di un pubblico (per la precisione della più grande platea offerta oggi come oggi al mercato dell’intrattenimento) che non riesce a rinunciare all’aggressività (la famosa scelta di Suda dei cuori rosa è infatti già criticata, ancora prima di vedere il videogioco completato), figuriamoci se riesce a concepire il frantumare i limiti del mostrabile come gioiosa liberazione e non come risposta a pruriti adolescenziali.


Per un approfondimento di questo punto non posso non consigliare l’ascolto del podcast n.23 a opera dei ragazzi di ArsLudica, lucidi e intelligenti sull’argomento come pochi sanno essere. Buon ascolto.