lunedì 31 agosto 2009

[le bustone] The Super Inframan di Shan Hua (1975/HK)




Non tutti i film necessitano di un analisi seria e approfondita. Esistono masterpiece capaci di riportarci a quella dimensione tipicamente infantile legata a doppio filo con le classiche bustone da edicola. Pacchetti multicolor ravvivati da strilli fuori misura, oggetti invitanti e misteriosi. All’interno ci trovavi sempre qualcosa che non ti aspettavi, e anche se ogni ingrediente era completamente slegato dagli altri l’alchimia che si veniva a creare era qualcosa di inimitabile. Questa rubrica è ispirata proprio a quelle bustone, e a tutti quei film dove l’accumulo vale più della coerenza interna. Opere sgangherate, sottovalutate, ma ricche di un fascino che solo l’enumerazione dei singoli ingredienti può spiegare.



Danny Lee: proprio lui, il futuro poliziotto buono di The Killer. O, se preferite, il famigerato regista/produttore di The Untold Story (serial killer movie per eccellenza, senza appelli). Qui ancora impegnato su set improbabili come questo Inframan o il mitico The Oily Maniac, basato sulle imprese di un super eroe fatto di olio magico (?).



Un laboratorio pieno in modo ridicolo di lucette e tute argentate: finirà distrutto da dei tentacoli di gommapiuma giganti.



Un caverna a forma di mostro che sputa mostri, tutto su di un’isola piena di enormi scheletri di mostri.



Mostri con la cerniera sulla schiena.



Riferimenti religiosi proto cattolici, messi solo per fare colore.



Le migliori scenografie della storia: pensate al Diabolik di Mario Bava, tutto girato in chiave tokusatsu nei teatri di posa degli Shaw Brothers.



Motorette: non ne vedevo tante dai tempi di Mercenaries from Hong Kong o Wonder Seven (uno degli action più deliranti di sempre. Da recuperare anche solo per l'ascensore/proiettile che abbatte un elicottero).



Inframan: che, detto fra noi, è un infame da paura. I suoi nemici si limitano a urlare e saltellare, lui li schiaccia, li fulmina, li brucia vivi (con primi piani sul corpo esanime avvolto dalle fiamme). Adesso capiamo da dove arriva The Untold Story.



Pugni volanti e kung fu: siamo pur sempre a HK.



Mostri che guidano motoscafi: abitano all’Inferno, si ingrandiscono a dismisura, sparano raggi da parti del corpo imbarazzanti. Eppure per muoversi nulla di meglio del vecchio motoscafo.



La regina degli inferi: in minigonna e munita di frusta. Senza dimenticare la lesbo assistente (unica altra donna nelle file dei cattivi).



Robot fatti di molle: che si allungano, si annodano e, naturalmente, se cadono in terra si rialzano senza battere ciglio. Come li sconfiggi? Annodandoli, mi pare ovvio.




domenica 30 agosto 2009

Mario Bava goes to HK: Human Lanterns di Chung Sun (HK/1982)

Human Lanterns non è certo un capolavoro, ma rappresenta alla perfezione un certo modo di intendere il cinema tipico dell’ex colonia inglese. Incrociare il cinema di arti marziali (qui nell’accezione di wuxia, quindi più vicino al fantasy che allo scontro nudo e crudo) con un’estetica e una trama direttamente debitrice del gotico di Mario Bava non è certo cosa da tutti i giorni. Oltre che rappresentare l’ennesima prova di quanto il nostro cinema abbia influito sulla poetica di Hong Kong: la menomazione dell’eroe e la violenza esasperata dello Spadaccino Monco non possono che essere mutuate direttamente dal Django corbucciano, mentre il grande Mario fa capolino in più pellicole (dalle sperimentazioni di The Butterfly Murders agli psicotronici eccessi pop del mai troppo celebrato The Super Inframan, a cui spero di dedicare un articolo il più presto possibile). Poi io, a titolo del tutto personale, rimango dell’idea che John Woo si sia pesantemente inspirato al Tempo di Massacro fulciano per la mezz’ora finale di A Better Tomorrow 2.



Detto questo si torni a Human Lanterns, che pur non peccando di eccessi exploitation rimane lontano anni luce da autentici gioielli dello splatter magic come Devil Fetus, Bewitched, Seeding of a Ghost o The Seventh Curse (tutti da recuperare a ogni costo, per ricordarsi cosa significasse sense of wonder prima dell’avvento digitale) preferendogli una trama tipicamente wuxia (intrighi & vendette) virata però in chiave horror. Detto in due parole: c’è un tizio che costruisce lanterne di pelle umana mentre i due signorotti del paese non perdono occasione per mettersi in competizione uno contro l’altro.



Quello che colpisce è l’estrema eleganza e ricercatezza della messa in scena, tanto caratterizzata da sembrare quasi un esercizio teorico sugli stilemi del gotico all’italiana. Luci colorate, esterni ricostruiti in teatro di posa, fumo come se piovesse, scenografie sospese tra la favola nera e il claustrofobico. I sotterranei del mulino rimangono uno dei punti più alti dell’immaginario Shaw Brothers, all’altezza delle plumbee scenografie di Eight Diagram Pole Fighter. Arricchisce il tutto un uso della steady che non può che ricordare quello straordinario connubio a distanza tra Sam Raimi e il suo gemello/maestro/discepolo Siu Tung Ching (anche se questo esordirà solo nel 1983).



Come ho già detto: non un capolavoro, ma una perla rimasta per troppo tempo nascosta. Il nuovo master Celestial ha dell’incredibile (anche se leggermente cut), e ci restituisce alla perfezione tutta la cura e l’arte riposte nella messa in scena. Autentica protagonista dei 94 minuti di questo wuxia in salsa gotica.




venerdì 28 agosto 2009

[pubblicità creativa] Zero soldi, tanto genio: Skittles

















Sono senza parole. Quella con lo shaolin è un capolavoro.

Quel buon cattivo gusto di una volta: Poultrygeist di Lloyd Kaufman





Cosa succede se costruisci un fast food sopra un cimitero indiano?



E’ dai tempi di Tromeo & Juliet che la Troma non è più la stessa di prima, passando da casa distributrice/produttrice di trashoni senza arte ne parte a factory che non pare esagerato definire “con ambizioni autoriali”. Questo Poultrygeist è il quarto lungometraggio della cosiddetta Troma renaissance, confermando tutto il bene e il male visto nei vari T & J, Citizen Toxie e Terror Firmer (autentico manifesto della filosofia Tromesca).



Come i lavori precedenti anche questo Night of the Chicken Dead è prima di tutto un film oltraggioso, nel senso più tradizionale del termine. Non abbiamo a che fare con un August Underground o con l’ennesimo exploit nichilista di Yamanouchi, così come non abbiamo contatti con qualsiasi altro tipo di film dove la materia è trattata in modo tanto serio da rischiare il patetico. E non c’entra neppure la pudicizia nerd di Schanaas o di tutte le ultime produzioni jappo/americane a base di gomma e litri di emoglobina. Poultrygeist è l’equivalente di una barzelletta sulla coprofagia urlata nel bel mezzo di un seminario sui diritti delle donne (per fare un esempio). E’ sbagliato, fuori posto, impregnato di autentico cattivo gusto. E’ la vera eredità di John Waters e della sua Divine.



Peccato che, tra un geyser di diarrea e un atto di necrozoofilia, si finisca per ridere spesso. E non per qualche crassa gag da avanspettacolo al grandguignol, ma per perle di umorismo sottili e raffinate. Lloyd continua ad alternare alto e basso senza alcun pudore, nella maniera tanto scatenata e priva di controllo che solo la nuova Troma può garantire. Politicamente il film si pone come il Team America di Parker & Stone (che, a proposito, hanno cominciato la propria carriera proprio alla Troma): contro chiunque. Contro le multinazionali, contro i no global, contro gli attivisti neri, contro le minoranze “rivoluzionarie”, contro chiunque paia non ragionare con la propria testa. Ed è questo l’unico messaggio “politico” a cui pare interessato Lloyd Kaufman.



A livello stilistico abbiamo un leggero passo indietro rispetto a Citizen Toxie, probabilmente dovuto al budget minore e alla complessità (e quindi al costo) di alcuni effetti speciali. Il quarto capitolo del Vendicatore Tossico rimane il film Troma più appetibile al pubblico quasi generalista, vuoi per il totale disimpegno che lo attraversa, vuoi per la sceneggiatura ricchissima o per la quantità di donnine discinte che lo caratterizzano (e in questo è in assoluto il miglior film Troma di sempre). Grandiosi invece i momenti da musical e la performance attoriale di Jason Yachenin, che non si capisce quando faccia il deficiente o quanto lo sia in realtà.



Ultimo appunto: Oscar a Lloyd per aver riutilizzato per la terza volta consecutiva la stessa scena della macchina che si ribalta ed esplode. Se non è essere autoriali questo!

giovedì 27 agosto 2009

Bye Bye, Grande Fratello

Secondo la BBC in Inghilterra il massiccio uso di videosorveglianza garantirebbe 1 crimine risolto ogni 1000 camere installate. Si consideri anche il fatto che la spesa del governo inglese per questo utilissimo deterrente al crimine è valutata qualcosa come 500 milioni di sterline. Il Grande Fratello non è più così grande. Qui l'articolo completo.

Il Passeggero viaggia gratis e ha imparato a usare Megaupload

Cliccate qui e scaricatevi il fumetto più bello del mondo. Ci sono pure le specifiche tecniche di tutti i tipi di carta, tanto per fare quelli seri.

mercoledì 26 agosto 2009

3 minuti per i diritti umani



La seconda pubblicazione della Designers Against Human Rights Abuse (DAHRA) si intitola semplicemente 3 Minutes. Si compone di un cofanetto rigido dove sono riposti 10 mini volumi in cui differenti artisti del lettering reintepretano altrettante interviste (di 3 minuti l'una) a modo loro. Il tema: i 3 minuti che mi hanno cambiato la vita. Tutto a sole 10 sterline qui.

Il Passeggero viaggia gratis

Siccome alla Passenger Press siamo volenterosi abbiamo realizzato per voi un bel .pdf dell'albo con cui vi stò assillando da un pò di tempo a questa parte. Peccato che siamo anche analfabeti informatici e non abbiamo idea di come caricarlo per il download. Risultato: se lo volete scrivete a passenger72@gmail.com. Il buon Christian provvederà a inviarvelo mezzo mail.

martedì 25 agosto 2009

Parlano di noi...

Pian pianino la Passenger Press guadagna sempre più consensi. E, tanto per confermare ulteriormente la potenza e la bontà degli artisti coinvolti, la presa sul pubblico si sta dimostrando trasversale e livellata verso l'alto. Qui trovate un lungo post che ci ha dedicato il grande Stefano Guerrini, fashion editor e docente di editoria, mentre qui le commoventi parole dell'Officina Infernale, fumettaro underground come ne sono rimasti pochi.

lunedì 24 agosto 2009

Miike japan preorder: Yatterman e Crows Zero 2

Yatterman lo trovate qui, mentre Crows Zero 2 qui. Per ora solo japan edition (che si traduce con costi spropositati, zero sottotitoli in inglese e grafiche/packaging da urlo) ma solitamente non passa molto prima che i diritti vengano venduti a paesi asiatici leggermente più lungimiranti del Giappone. Personalmente consiglio le edizioni di Taiwan, leggermente più care di quelle HK ma molto più curate.

venerdì 21 agosto 2009

Burnt by the Sun - Heart of Darkness (Relapse/2009)




Si deve asciugare l’asciugabile, tagliare tutto il superfluo e scremare fino al parossismo. In un periodo dove lo sbrodolamento selvaggio pare l’unica ricetta, con il melting pot forzato a spingere da ogni spicchio dello spettro sonoro estremo, pare che i Burnt by the Sun abbiano capito tutto. Abbandonate le magnifiche derive math dei due lavori precedenti (accezione che loro stessi hanno contribuito a creare con la loro incarnazione Human Remains) i Nostri ci consegnano il loro epitaffio. Che, detto per inciso, è anche il loro disco migliore. Heart of Darkness si compone di dieci blocchi di cemento tra grind e metal core, quadrati e diretti in faccia come un treno merci a piena velocità.



Poche cessioni alla sperimentazione, tutto in favore di una montagna di riff ipercinetici e ritmiche dalla precisione dolorosa. L’arrivo del nuovo chitarrista Nick Hale garantisce una coesione inedita al combo di casa Relapse, mentre Dave Wittie rimane sempre Dave Wittie. Non avrà il tiro di Kevin Talley o la furia di Adam Jarvis, ma l’ex Discordance Axis rimane la drum machine umana per eccellenza. Glaciale, perfetto, privo di umanità. Non è un caso se Agoraphobic Nosebleed, Melt Banana e Phantomsmasher si sono rivolti a lui in sostituzione del mezzo digitale.



Rimane un piacere scoprire come tutti gli aspetti kitsch e baracconeschi del genere siano spazzati via, a favore di una densità concettuale (ma non elitaria) che in pochi crederebbero avvicinabile a certe frange musicali. I Burnt by the Sun non sono personaggi sopra le righe, non sono rockstar e quasi non avrete idea di che faccia abbiano. Perché prima di loro arriva la musica. Dura, spietata e priva di cessioni al trend imperante. Tanto da lasciarci orfani di questa band proprio sul più bello.

giovedì 20 agosto 2009

[preview] Emigre 70: celebrazione di un mito

Finalmente a novembre dovrebbe vedere la luce il best of del magazine autoprodotto Emigre, pubblicazione d'avanguardia e potentissima voce nel campo del graphic design. Il volumone (512 pagine, cartonato) si intitolerà Emigre 70 e conterrà un dvd, un poster celebrativo e un booklet con 32 pagine di lettere all'editore. Tutto fuori per Ginko Press, garanzia di qualità assoluta (basti vedere i tomi dedicati a Shepard Fairey). Io intanto continuo la ricerca del leggendario numero 29.

mercoledì 19 agosto 2009

MadHouse + Katsuhito Ishii + macchine superveloci = capolavoro annunciato?




Ma anche no! Dalla tripla combo del titolo ci si aspettavano virtuosismi registici e nuovi limiti da frantumare, invece cliccando qui abbiamo una clip in anteprima che lascia a dir poco delusi. Insomma, se questo Redline doveva essere l'anime ipercinetico per eccellenza siamo proprio fuori strada (nonostante un character design da urlo). Che anche il Giappone stia perdendo colpi? Forse è presto per dirlo, ma pensate al cult Aachi & Ssipak (di Jo Beom Jin /2006). Prodotto dal minuscolo studio Sud Coreano JTEAM, questo gioiello dell'animazione rimane uno dei punti più alti del nuovo linguaggio action. Senza scordare una storia totalmente scorretta e una dose di follia a tratti insostenibile. Sotto trovate il trailer e i primi 5 minuti (qualità schifosa, ma ho trovato solo quello). Recuperate sto gioiello e fatevi i vostri conti!







domenica 16 agosto 2009

Questa sera...

Misery Index! Alè!

Nero Coreano: Romance Killer di Doha (Planeta de Agostini)

Per avere un’idea precisa di questo Romance Killer pensate a un incrocio tra American Beauty e Old Boy, tutto diretto da Joon Ho Bong. Più che di una graphic novel si potrebbe parlare della miglior trasposizione cartacea degli stilemi caratteristici del cinema sud coreano contemporaneo (visto che di un autore sud coreano si sta parlando). Cura maniacale per l’aspetto estetico (questa volta tradotto in una combo devastante tra tavoletta grafica LCD, cell shading per gli sfondi e layout funabolico), ritmi lenti, melodramma vigliacco, lunghezza fiume e la solita batteria di colpi di scena sul finale. Nato come serie per il web questo fumetto ha trovato la sua forma fisica in un sinuoso volume di quasi 900 pagine, elegante fin dalla copertina e soddisfacente in ogni suo aspetto. Appuntamento imperdibile per rendersi conto, ancora di più, che le carte in tavola non sono più le stesse di qualche anno fa. E che il rimescolamento è lungi dall’essere concluso.



Tornando alla storia in sé, tutto verte sulla crisi pre 40 di un ex sicario. Anzi, per essere precisi dell’ex Re di questa categoria professionale. Un uomo una volta gelido e privo di emozioni, costretto ad abbondare il suo lavoro per un colpo di fulmine con una delle sue vittime. Un protagonista insicuro e fragile, che finisce per innamorarsi stupidamente di una compagna di liceo della figlia. Da qui un lento, lento, lento dipanarsi di situazioni delicate e profonde, dove alcuni dei tratti caratteristici dell’autore Doha (ripetizione in serie della stessa vignetta, intere pagine monocrome,…) trovano una risposta perfetta a tutta una serie di detrattori incapaci di cambiare prospettiva in relazione al cambio di medium (fumetti digitali e cartacei NON sono la stessa cosa, non basta mettere online i .pdf delle proprie tavole). Conclusione devastante, amorale e con l’effetto di un calcio in bocca al lettore. Se avete visto il già citato Old Boy o il sottovalutato The Chaser (2008, di Hong-jin Na) avete già un’idea di quali siano i parametri del finale nero per gli sceneggiatori sud coreani.



Una grande storia, lontana anni luce da steroidi, frasi a effetto, eroi invincibili. Lo stesso protagonista indugia sul da farsi, pare in grado di prendere solo decisioni sbagliate e manca perfino del coraggio necessario ad ammettere la propria mediocrità e debolezza. Nonostante il presupposto “noir” abbiamo a che fare con una persona vera, tangibile e con cui è impossibile non condividere almeno qualche aspetto della personalità. Un complesso bildungsroman deviato, narrato con strumenti nuovi e freschi, sovvertendo le regole della narrazione tradizionale (o semplicemente ignorandole?) e creando un insieme capace di catturare pancia e occhi.

sabato 15 agosto 2009

[trailer] Cheang Pou Soi + Johnnie To: Accident (HK/2009)





Lo attendo con la bava alla bocca. Qui un mio post precedente relativo al film, tanto per capire di cosa si sta parlando.

La musica non è più quella di una volta: Steve Albini produttore black metal

Steve Albini è una leggenda. Dopotutto, come potrebbe non esserlo l'uomo dietro a Nirvana, Neurosis, Fugazi, Godspeed You! Black Emperor, Pixies, Sonic Youth, Mogwai, Jon Spencer Blues Explosion, Jesus Lizard? Ma la novità è un'altra: l'ultima produzione del Nostro è l'EP Doomsday Derelicts, a opera dei blacksters statunitensi Nachtmystium. Band che, con i Wolves in the Throne Room, rapprenta al meglio la nuova ondata US black metal. Qualsiasi cosa voglia dire.

mercoledì 12 agosto 2009

[capolavori] Coalesce - OX (Relapse/2009)


Disco di un paio di mesi fa. Ho provato a non parlarne ma non ce la faccio proprio a starmene zitto.

Chi sono i Coalesce? Prima di tutto una band da conoscere, che vi piaccia o meno. Tra i primi promotori di quel post core che tanto furoreggiò qualche anno fa, eppure perennemente tagliati fuori dalle rotte commerciali. Colpa del loro andamento troppo fisico e sferragliante per essere apprezzato dai più. Una band di outsider, al pari per dislivello tra importanza/riscontro solo agli Human Remains, che si è permessa di incidere su Relapse, Earache e Hydrahead Records, di alternare split con le leggende grind Napalm Death e gli alfieri emo/college The Get Up Kids, di rimanere per pochi nonostante il loro devastante impatto sulla musica pe(n)sante moderna. Ma i Coalesce sono anche 4 simpatici ragazzotti di Kansas City, capaci di consegnarci dischi dal peso specifico sconsideratamente alto e di rammaricarsi poi, via interviste varie, di non riuscire a suonare melodici quanto vorrebbero. Sono una band contesa dalle più grandi label, ma che finisce poi a vendere i dvd dei propri live masterizzandoseli in casa e impacchettandoli uno a uno. Sono quelli che suonano grosso e ignorante, ma che scelgono di farsi curare gli artwork dal superstiloso Don Clark (precedentemente chitarrista per i Demon Hunter, non esattamente una band seminale). Musicalmente i Coalesce sono tutto: un po’ settantiani, un po’ HC, un po’ metal, un po’ NY noise, un po’ qualcosa che prima non conoscevate. Ed esattamente così suona OX.



Non il loro lavoro più feroce, ma in assoluto quello più vario e godibile. Tra sludge, southern e vocalizzi come non se ne sentivano dai tempi degli Unsane, Bloodlet e Botch. Per questa nuova uscita i quattro si sono presi tutto il tempo possibile, sperimentando e alimentando con inserzioni aliene la loro mostruosa macchina da riff. Così ecco feedback e tastiere lontane che riempiono ogni possibilità di vuoto, riconfermando la densità che le composizioni dei Coalesce hanno sempre avuto (loro vero marchio di fabbrica). Bastano poche canzoni per capire che OX non invecchierà mai, tanto è astruso e fuori da ogni logica commerciale. Tempo fa lessi una recensione musicale dove il redattore spartiva le proposte in due gruppi: dischi che fra 15 anni sarò ancora orgoglioso di avere nella colonnina cd e quelli che invece mi faranno vergognare come un cane, nonostante oggi mi gasino da pazzi. Inutile dire a quale categoria appartiene questo capolavoro.



lunedì 10 agosto 2009

Angel of Death: la web serie di Ed Brubaker finalmente (?) in dvd





Lo trovate qui. Sinceramente questi pastoni ultraeccessivi a base di exploitation anni '70 e pulp d'acchito cominciano abbondantemente a rompere le palle, sopratutto sapendo che dietro a questo Angel of Death c'è quella mente eccelsa di Ed Brubaker. Consiglio per i neofiti: lasciate perdere questa pagliacciata. Recuperate piuttosto Sleeper (capolavoro complementare al The Authority di Millar), Gotham Central e Iron Fist.

sabato 8 agosto 2009

Ma allora il 3D serve a qualcosa: They Came From

(int) Factor Films presents THEY CAME FROM... from factor films on Vimeo.





Altro che My Bloody Valentine 3D... Io lo voglio con gli skate!



(Piccola nota per rendere comprensibile il post: They Came From è il primo video sportivo realizzato con la tecnologia 3D)

Seductive Espionage: The World of Yuki 7



Pubblicazione underground meno aggressiva di quello che il sottosuolo spesso ci riserva, ma stilosa come poche altre uscite. Il mondo di Yuki è fermo agli anni '60, popolato da sexy spie e dominato dai colori acquerello. Seductive Espionage è totalmente autoprodotta (fatto che ne giustica il prezzo) ma, tanto per cambiare quando si parla di DIY, fa mangiare la polvere a tonnellate di pubblicazioni "professionali".

venerdì 7 agosto 2009

Invisible Creature + Coalesce: The Art of Ox




Che i Coalesce siano una delle band più sottovalutate di sempre non è un mistero. Così come è di dominio pubblico che lo studio Invisible Creature sia il meglio del meglio quando si parla di artwork per dischi e poster art. Ma cosa succede quando questi due mostri si incontrano? Semplice: The Art of Ox.



Il disco lo mastico da un pò di tempo e cresce a ogni ascolto, mentre questo set di stampe (tutto fatto a mano, firmate e numerat
e dal mitico Don Clark) mi era sfuggito. Poco male, perchè per ora sono ancora diponibili alcune copie (su 200 totali, comprese le rare 25 variant). Provvedo subito.




martedì 4 agosto 2009

Piove sempre sul bagnato: The Umbrella Academy

Certo che certa gente nasce con tutte le fortune. Dopo essere diventato una rockstar prima dei fatidici 30, Gerard Way finisce per portarsi a casa pure un Eisner Award. Con il suo primo lavoro. Uscito per Dark Horse, disegnato da quel genio Gabriel Bà e arricchito dalle cover a opera di James Jean. Direi che c’è abbastanza materiale per rodersi il fegato senza remore di coscienza.



Un raccomandato? Direi di no, visto che The Umbrella Academy è un gran fumetto. Leggero e derivativo quanto volete, ma capace di divertire, intrattenere e inorridire per tutta la lunghezza del primo trade paperback. Quello che colpisce di più non è il plot (invero piuttosto trito) o l’idea dietro a tutta questa serie (solito gruppo di super eroi disturbati, qui in chiave Wes Andersoniana) ma la cura dei particolari, aspetto in cui pare che il Nostro abbia profuso il maggiore sforzo. Dialoghi brillantissimi (al limite della pièce teatrale), alternarsi di commedia e grottesco, ritmo frizzante e una passione sconfinata per il non-così-bizzarro-eppure-strano-forte che fa tanto fumetto d’evasione con velleità proto artistoidi. Il tutto glassato con una patina di fighetteria che spartirà in due i possibili fruitori del volume in questione.



Menzione d’onore per le psicologie, approfondite con una sensibilità e un gusto empatico molto rari. Le battutine cool si sprecano, ma a differenza di tanti prodotti dozzinali appaiono sempre ben inserite nel contesto. Spesso si ha l’impressione che i personaggi stessi siano ben più complessi di quello che ci vogliano far credere, come se dietro alle loro smargiassate ci sia qualcosa di più. Pensate al timido che si comporta da bullo, solo per evitare che la gente sfondi la sua armatura e ne realizzi la solitudine. O come quando vedi A Better Tomorrow 3 e scopri che Mark Gor Lee non è la spavalda faccia da culo dei primi due capitoli, ma un uomo triste e segnato da un passato tragico. Il personaggio di finzione interpreta un personaggio di finzione tipizzato, disinnescando ogni possibile interpretazione metalinguistica e somministrandoci una bella dose di realtà. Ripeto, abbastanza per rodersi il fegato senza remore di coscienza.

lunedì 3 agosto 2009

La via della normalità e la scomparsa dell'eroe: Samurai Rebellion di Masaki Kobayashi (Jap/1967)

Quanto ha speculato l’immaginario occidentale sulla figura del samurai? Troppo, ammettiamolo. Un processo di implosione che ne ha portato alla glorificazione solo di alcuni aspetti, finendo per appiattire una figura ricca di sfumature e umanità. Questo Samurai Rebellion (capolavoro come pochi nonché uno dei miei film preferiti in assoluto) ne è la dimostrazione, mettendo in scena una totale negazione della via e una glorificazione della “normalità” che ha dello straordinario.



La storia è presto riassunta: il daimyo di turno ordina a uno dei suoi sottoposti di sposare una sua concubina, incinta dello stesso nobile. Il vassallo accetta di buon grado e tra i due sboccia l’amore. La situazione ha un brusco cambiamento quando la donna viene richiamata a palazzo, spezzando l’armonia della nuova famiglia. A questo punto partirà la crociata del marito e di suo padre, ex spadaccino dalle doti eccezionali, in nome della rinnegazione del signore e della ricerca di una vita, appunto, “normale”.



Qui non si parla di eroe recalcitrante, ma di una negazione totale di tale figura. Yogoro non sceglie a malavoglia di imbracciare la via della violenza (tipo lo spadaccino monco della saga One Armed Swordsman) ma la rinnega totalmente, preferendogli una vita familiare tranquilla e banale. Il samurai smette di sacrificare tutto per un disegno più grande, ignorando gli ordini del proprio signore e scegliendo una propria strada. Anche il padre, autentico eroe del feudo, pare comprendere questa scelta e si schiera dalla parte del figlio. Samurai Rebellion annoierà parecchio chi si aspetta un chambara carico di coreografie e arti mozzati: i primi novanta minuti di film sono praticamente ambientati in due interni, privi di azione, relegando la catarsi del massacro finale all’ultima mezzora. Spietata, metafisica, priva di quell’alone epico che si vuole ricercare quasi a forza in questo filone.



Non è un caso che, sul finale (SPOILER), il vecchio Isaburo Sasahara supplichi in punto di morte la nipote di crescere e di sposarsi con un uomo come il padre. Semplicemente. Lo si provi a confrontare con il desiderio della madre morente in Lady Snowblood e con tutta la lunga serie di vengeance movie usciti dal Giappone. Il cambio di prospettiva ha del commuovente, aprendo una nuova serie di scenari possibili. Tutto questo dopo trenta minuti di perfezione assoluta, dal ritmo del montaggio alla costruzione delle immagini, dove vita e morte si scontrano con foga ed eleganza. Toshiro Mifune appare in stato di grazia, sospeso tra orgoglio e disperazione, ma questa non è una novità.



Come ho già detto, capolavoro. L’eroe perde l’aura mitologica e guadagna un contatto empatico con lo spettatore altrimenti impossibile. I luoghi comuni cadono come schiamazzi inutili e l’uomo (non il corpo) rimane al centro della vicenda.