venerdì 29 giugno 2012

Colonna sonora per un week-end assolato




Voglio vedere come la Prosthetic riuscirà a rendere questa roba commerciale.



In qualunque caso, gran gruppo. Mille volte meglio di tutto il proto black metal da Pitchfork che pare andare tanto di moda in questo periodo.

giovedì 28 giugno 2012

Follow this! Infomaniacs di Matthew Thurber



Forse dovrei incominciare a interessarmi di più ai lavori della PictureBox. A partire dal pluri-rimandato acquisto del fantasy Powr Mastr (ultimamente questo tipo di fantasy tremolante pare sia sulla bocca di tutti, vedi le recensioni entusiastiche - e meritatissime – per il Danger Country di Levon Jihanian) fino a 1-800 Mice di Matthew Thurber. Tomo di cui ultimamente parla un sacco di gente in maniera oltremodo positiva (vedi quest'ottima intervista, anche se un po’ spocchiosetta da parte del fumettista, sulle pagine di Vice).


Il volume non l’ho ancora acquistato, però mi sono letto Infomaniacs -  la striscia settimanale che Matthew pubblica sul suo sito. E, senza mezzi termini, ho scoperto uno dei migliori web comics in cui mi sia capitato di incappare in tempi recenti. Riducendolo ai minimi termini potremmo dire che le bizzarre vicende imbastite puntata dopo puntata si presentano come l’ennesima satira velenosa della società moderna e - sopratutto - della nostra percezione di essa. A differenza di un sacco di altre proposte del genere però non abbiamo a che fare con vignette statiche e auto compiaciute, ma con una vicenda più tangente al thriller complottistico (con ampie cessioni al surreale puro). Quindi un sacco di personaggi, una narrazione contorta e una svolgimento che dovrebbe portare, prima o poi, da qualche parte.


La scrittura è sghemba e meravigliosamente traballante, esattamente come il tratto dell'autore statunitense. Il vero valore aggiunto lo si trova però nell’umorismo profuso in ogni tavola: coltissimo, mai banale, lontanissimo dalla concezione di battuta fulminante o di gag “a scadenza”. L’ironia è diffusa in maniera omogenea in ogni aspetto di questo fumetto, dalla costruzione dei personaggi al montaggio. Sembrerà una banalità, ma in questo modo si evita ogni effetto piacioneria. Che è poi il principale motivo per cui il sottoscritto si tiene alla larga da un sacco di web umorismo. Escludo da questa affermazione il sempre stupefacente Dr. McNinja, naturalmente.

In Infomaniacs si parla della lotta tra mondo reale e mondo virtuale, di come stiamo perdendo la capacità di scindere la profondità del mondo vero dalla bidimensionalità dei nostri monitor. Detto così parrebbe di una banalità disarmante, con in più l’aggiunta del solito paternalismo fastidioso. Poi leggi qualche puntata e ti ricredi. Tra luddisti moderni in gilet di jeans (con tanto di scritta Marshall McLuhan ricamata sulle spalle), strane sette agresti per la disintossicazione da social network, agenzie governative in cui militano animali antropomorfi, biblioteche di tweet e un sacco di altre trovate bizzarre c’è parecchia roba con cui divertirsi. Sia leggendola che, come traspare in ogni singolo episodio, scrivendola.


Che piaccia o meno Matthew Thurber è l'ennesima dimostrazione che la produzione indie statunitense vive un momento d'oro. La forza cinetica di questa nuova e frastagliata scena è tale da permettergli di flirtare apertamente con il genere più puro (vedi Benjamin Marra, di cui ho già parlato su queste pagine), mantenendo comunque uno spessore autoriale di primissimo piano. E finalmente pare accorgersene anche qualcuno dalle nostre parti, vedi il nuovo volume di Johnny Ryan edito dalla milanese The Milan Review

mercoledì 27 giugno 2012

E' uscito Bizzarro Magazine 2: Weird Weird West



Dopo mesi di lavoro ecco il nuovo numero di Bizzarro Magazine. Tema: il western anomalo. Ditemi voi se i due superboss Alessandra & Daniele potevano scegliere qualcosa di meglio.



Dentro ci trovate fumetti, illustrazioni, videogiochi, racconti, articoli (tra cui un mio pezzo lunghissimo in cui cerco di spiegare perché Corbucci è meglio di Ford) e il solito dizionario essenziale con cui allungare a dismisura la vostra mancolista di film da recuperare.



Rispetto al primo numero il miglioramento è, detto in tutta sincerità e senza falsa modestia, enorme. E ci mancherebbe altro, visto che a gestire una rivista di 128 pagine non si impara dall'oggi al domani. Ora tutto è più organico, essenziale e meno pasticciato. Sia a livello di articoli che di, spero (visto che è affar mio), direzione artistica.



Dai, non fate i taccagni e compratevi il secondo numero del miglior magazine sulla pop-culture pubblicato in Italia.

venerdì 22 giugno 2012

Piccole, pratiche e brutali verità pt. 1: La letteratura



Se devi chiedere "Di cosa parla?" vuol dire che non hai capito un cazzo della letteratura.



Tim Small

martedì 19 giugno 2012

Players 15: Non proprio cose da bambini (forse)



Sul nuovo, bellissimo, numero di Players trovate un mio articolo sulla nuova ondata di scorrettezza made in Cartoon Network. E anche se l'argomento non vi interessa una sfogliata al magazine datela comunque, questo mese si sono veramente superati. 

lunedì 18 giugno 2012

[IL CAPOLAVORO] The Raid: Redemption di Gareth Evans (Indonesia /2012)



Disclaimer: questo film arriverà in Italia (forse) con mesi di ritardo. L’unica cosa che lo salverà dall’indifferenza generale saranno le recensioni scritte mesi prima, dopo una visione da copia scaricata, sparse per Internet. Perché non pensiate che quattro trailer mandati a caso in televisione rappresentino una promozione adeguata. Quindi questa non è pirateria, è un servizio gratuito fatto alle case di distribuzione. Tanto per ringraziarle dell’ottimo(…) lavoro svolto negli ultimi anni. 


Tutti abbiamo già letto o sentito qualcosa circa The Raid: Redemption. Su queste stesse pagine mi ero impegnato mesi fa a segnalare il blog della lavorazione e a riportare la storia dietro la genesi sul progetto (che ricordiamo, si basa sulla locandina di Peace Hotel di Wai Ka Fai). Nessuna capacità premonitrice da parte mia, semplicemente non era difficile immaginare un futuro più che roseo per l’accoppiata Evans/Uwais. Anche in virtù del debutto Merantau - piccolo ma prezioso. Peccato che The Raid: Redemption sia qualcosa di più rispetto a quello atteso da tutti. Magari non la soluzione a tutti i problemi del cinema moderno, ma non siamo neanche così lontani come penserebbero in molti. E non lo dico per il gusto di esagerare. Andiamo per ordine.


Alla base di questa bomba c’è una dose esagerata di Carpenter (celebrato apertamente nel finalone). Roba che non fa mai male. Soprattutto perché ci ricorda come i capolavori non richiedano per forza di cose budget faraonici. Se vuoi girare un film d’assedio, fisico e sanguigno come il genere richiede, non hai bisogno che di una location. Possibilmente chiusa. Prendete Distretto 13: le Brigate della Morte e provate a trovarci un difetto. Poi pensate che è stato girato in due stanze, con un pugno di attori. Eppure non mi sembra che qualcuno si sia mai lamentato. Naturalmente, senza tante paillettes scintillanti a distrarci, il film deve arrivare dritto al punto. Non può nascondersi dietro a nulla.


E allora ecco che Gareth Evans ci stende con una sceneggiatura minimale, un uso del montaggio da lasciarti secco, un sacco di facce di genere, un protagonista che incarna alla perfezione quella tipologia di sempliciotto/macchina di morte che tanto ci gasa dai tempi degli Shaw Brother e un oceano di violenza. Secca, furiosa e senza pause. Niente battutine, niente ammicchi, niente spacconate. Anzi, ci sono un paio di momenti dove la lotta per la sopravvivenza da parte degli agenti di polizia è talmente disperata e ferina da darti quasi fastidio. The Raid: Redemption se ne frega del revival ottantiano e si fonde con il linguaggio del videogioco mantenendosi comunque carnale come un pugno in faccia, ci regala una fotografia raffinata e una serie di soluzioni ipermoderniste (la prima sparatoria nella tromba delle scale è qualcosa di impossibile per la tensione che riesce a generare. Ancora prima che parta un colpo). Non serve altro. Il primo classico istantaneo dell’anno è un film che sarà costato quanto il parcheggio della roulotte di qualche megastar sul set dell’ennesimo blockbuster hollywoodiano (genere che – Marvel movies esclusi, forse perché intelligenti e brillanti – pare stia per spirare definitivamente. Bastino i flop di John Carter, Battleship, Lanterna Verde e di un sacco di altra paccottiglia inutile).


Il risultato di tutto questo è un’opera che è già mitologia, pietra di paragone per un sacco di film che usciranno nei prossimi tempi. E non mi si venga a dire che si tratta di roba facile da mettere in piedi: la gestione degli spazi e del ritmo sono materia vitale per queste operazioni, tanto delicate da guadagnarsi anche in questo caso qualche licenza poetica pur di non molare l'acceleratore neppure un istante. Non si sta parlando di un giallo a orologeria, dove ogni ingranaggio deve girare alla perfezione per non inclinare tutto il meccanismo, ma di un treno in corsa. Pensate all’opera prima di Johnnie To (questa è la recensione di un film bello, quindi logico che Giovannino ce lo dovevo inserire): The Big Heat. Un action iperviolento e supersonico, dove i buchi di sceneggiatura sono distribuiti con una minuzia e una precisione tali da farti nascere il sospetto che siano messi apposta. Tanto per non perdere tempo e dirigersi di corsa alla prossima sparatoria. Questa pratica, se messa in mani sbagliate, solitamente porta a conseguenze disastrose. Plot campati in aria e svolte narrative a dir poco astruse. Si capisce quindi come la materia debba essere gestita con la dovuta cautela per non rischiare di mandare tutto a rotoli. Gareth la maneggia con la grazia di un giocoliere. Risultato: non ci si distrae dal flusso di adrenalina che lo schermo ci vomita addosso neppure per una frazione di secondo.


The Raid: Redemption è brutale quanto l'exploitation anni '70, ma senza citare e/o scimmiottare. Dritto come un fucilata in pieno volto, basa gran parte della sua folle energia cinetica sui muscoli del plot di partenza: un gruppo di soldati, un palazzo da espugnare, sempre più scagnozzi a ogni piano. Sembra una cazzatella puerile ma nessuno ci aveva pensato fino al 2012. E doveva arrivare una produzione indonesiana a farcelo presente.

giovedì 14 giugno 2012

[Non preoccuparti e ama la bomba] The Manhattan Projects di Hickman & Pitarra (Image Comics)



Che Jonathan Hickman non manchi di ambizione è cosa nota. Arriva dal nulla e ribalta i Fantastici Quattro come un calzino, torna in Image da vincitore e prova a giocarsi la carta della saga spazio-temporale con Red Wing (bellissima ma troppo, troppo, troppo compressa). Continuando, nel frattempo, ad allargare la sua influenza presso la Casa delle Idee fino al punto di diventarne uno dei principali architetti. Un bottino che accontenterebbe un sacco di gente, ma evidentemente non ancora abbastanza ricco per il Nostro. Nulla di meglio per il proprio ego insaziabile di lanciare quindi ben due serie personali per la casa editrice più in forma del mercato statunitense: The Secret – di cui non so nulla se non che si presenta benissimo grazie a una serie di cover davvero suggestive – e il folle The Manhattan Projects (e anche qui la grafica di copertina è qualcosa di meraviglioso e suicida allo stesso tempo - vedi sopra).


Se dovessi tracciare un parallelo con qualcosa che ho già letto la risposta più ovvia sarebbe Ballard. Vuoi per l’amoralità insita nelle pagine dei primi tre numeri di questo fumetto (tra l’altro esauriti e già in ristampa), vuoi per la pratica sempre rischiosa di sfruttare personaggi reali in un contesto ben al di sopra delle righe. Non parlo di atrocità alla Abraham Lincoln Vampire Hunter o Barack the Barbarian, ma di un Robert Vaughan che ha come sogno erotico definitivo l’atto di schiantarsi a folle velocità contro Elisabeth Taylor (aiutato, sulle pagine di Crash, dallo stesso James Ballard autore e contemporaneamente personaggio di finzione). Da una parte abbiamo spazzatura priva di senso, dall’altra una soluzione narrativa piuttosto disturbante. E delicata, visto che l’unheimliche di Freud non è materia proprio stabile e di facile manipolazione (il rischio di sconfinare nel famigerato artsy-fartsy è sempre dietro l’angolo).


The Manhattan Projects si basa su un’idea tanto scontata quanto inquietante. E se l’infame team che ci ha portato la bomba atomica avesse lavorato anche ad altre armi di distruzione di massa? Nonostante Hickman si ostini a definire questa sua nuova serie come “divertente” sono ben pochi (nessuno) i momenti genuinamente spensierati che si vanno a incontrare tra le sue pagine. Tra un ordigno nucleare sganciato solo per non chiudere il laboratorio (e non parlo di una bomba immaginaria con morti immaginari, parlo proprio di Enola Gay e  Little Boy), un Einstein temuto come il peggior supercriminale e un Enrico Fermi privo di umanità, di roba “divertente” ne vedo ben poca.


Piuttosto userei il termine “sottilmente sgradevole”, con le invenzioni dello sceneggiatore rese ancora più incisive dalle matite di Nick Pitarra. Uno che pare uscito da qualche casa editrice underground anni ’80 (sarebbe fichissimo vederlo all’opera sulle Tartarughe Ninja). Il suo tratto tremolante e l’amore per le anatomie sgraziate vanno a braccetto con tavole farcite di particolari e soluzioni spettacolari (dovreste vedere come rendeva i viaggi nel tempo su Red Wing). Una sintesi perfetta di quanto serve a una serie per porsi in equilibrio su quella sottile linea che divide mainstream e mercato indipendente.


Il risultato finale per ora è molto più che soddisfacente e la voglia di leggersi il primo story-arc in trade paperback è tanta. Hickman si conferma intelligente e smaliziato quanto basta per far rizzare le antenne a tutti. Qui cerca di arricchire il suo consueto iperclassicismo con qualche trovata di montaggio un po’ fuori asse, ma da qui a dire che anche la forma segua la freschezza dei contenuti ce ne vorrà ancora molto (non che voglia dire molto, a dirla tutta. Il Saga di Vaughan & Fiona Staples continua a migliorare - incredibilmente - nonostante sia raccontato nel modo più tradizionale possibile). Per ora perfetto così, in trepidante attesa del prossimo numero.

martedì 12 giugno 2012

Shawarma o dim sum? East Meets West di Jeff Lau (HK/2011)



Chiariamo subito una cosa: Jeff Lau ha diretto il colossale A Chinese Odissey. Che ancora a oggi, nelle sue quasi tre ore e mezza di follia, rimane uno degli esempi più fulgidi e annichilenti di dove potesse arrivare la creatività del cinema di HK durante il ventennio d’oro. A questo aggiungeteci la produzione di Ashes of Time e la comparsata in The Bride with White Hair. Capite bene che se negli anni accumuli una tale quantità di crediti bonus puoi benissimo sbagliare qualche film senza scandalizzare nessuno. E infatti, a denti stretti, nessuno si è lamentato di KungFu Cyborg. Del suo umorismo scialbo e del suo digitale ultrapoveristico. Del suo trailer ingannevole e dei bei ricordi evocati di altri robottoni alla cantonese (vedi alla voce I Love Maria di David Chung). Fortunatamente però East Meets West è (quasi) tutta un’altra storia.

Pensate a un film di supereroi, ma fortissimamente localizzato in Asia. E per Asia non intendo il tecnologico Giappone ma la folkloristica Victoria Harbour (dove trovate l’unica Avenue of Stars che merita un pellegrinaggio nella vita). Nulla di nuovo, va detto. Dal cupissimo Opapatika di Thanakorn Pongsuwan al capolavoro The Heroic Trio di Johnnie To (supersonico, strabordante, kitsch. In totale antitesi con quello che sarebbe arrivato da lì a pochissimo e quindi fondamentale per poterlo capire) non sono pochi gli esempi di traduzione della mitologia del superuomo da americano ad asiatico. Via ragni radioattivi e sieri vari, avanti Buddha e un sacco di altre leggende a base di spiriti e reincarnazione.

Peccato che qui entri in ballo il già citato Lau, un uomo dotato di un’immaginazione e di una creatività troppo fervidi per la sua reale capacità di valutazione. E infatti East Meets West parte a mille all’ora, mettendo troppa carne al fuoco. Tutta la prima tranche è un caleidoscopio ultraglitterato dove vanno a incastrarsi l’umorismo del glorioso Bangkok Loco (di Pornchai Hongrattanaporn) e le intuizioni di All About Women (di Tsui Hark). Si ride e si rimane sconcertati in egual misura (va detto, ci sono almeno tre-quattro gag meritevoli di meme istantaneo. Ma anche un sacco di robaccia indegna), perdendo spesso l’orientamento. Poi entrano in ballo i superpoteri e la faccenda si complica ulteriormente. Se in Opapatika avevamo il tizio che melodrammaticamente subiva lui stesso le ferite inflitte ai nemici (continuo a non capirne il senso, ma apprezzo comunque l’allure maledetto) qui abbiamo il superchef con i ravioli al vapore giganti. Più altri sette personaggi più o meno sullo stesso livello.

E quindi? Abbiamo tra le mani l’ennesima gratuita parodia del genere (con tanto di riflessione mediatica alla X-Statix)? No, perché in mezzo a mille trovate folli il regista trova il tempo di inserirci la storia d’amore tra l'antagonista e la leader dei buoni. Trattando la materia con la sensibilità e il sentimento che merita (guarda caso è l’unica parte del film comprensibile). Alla stessa maniera ci sono un sacco di piccoli momenti agrodolci che parrebbero impossibili da inserire in un contesto dove il cattivone finale prevede innate doti da coiffeur, eppure Jeff ci riesce. Dimostrando di non aver perso il tocco con il passare degli anni.

Il risultato finale di tale potpourri emotivo non è certo un film "bello" nel senso consueto del termine. Nonostante un ritmo frizzante e una cura maniacale per la messa in scena ci sono troppe cose che non vanno. Eppure un sacco di gente dovrebbe dedicargli il tempo che richiede, anche solo come lezione di libertà creativa. O come dimostrazione che anche in un contesto cazzone e demenziale come questo un minimo accenno di profondità emotiva non è il sacrilegio che in troppi continuano a ritenere (a meno che non si tratti di una gag con Will Ferrell e Zach Galifianakis, allora va bene tutto).




venerdì 8 giugno 2012

Esprimersi con un videogioco: Indie Game the Movie




Martedì 12 esce Indie Game the Movie. In contemporanea mondiale, visto che lo si può scaricare da un sacco di piattaforme (cosa che invoglia anche a pagare, tra le altre cose). A vedere il trailer sembra l'antidoto perfetto all'E3 appena passato (avete visto i filmati in cui si contano le morti simulate per ogni conferenza? Ma è possibile che in un videogioco non si possa fare altro? Il primo mezzo espressivo dell'umanità a comprendere l'interattività in tempo reale e noi lo sprechiamo per emulare Michael Bay. Pacche sulle spalle per tutti, grazie). Diciamo che, cosi a naso, un sacco di gente dovrebbe fare tesoro di lavori come questo (passi che non sopportiate il chiptune, ma perfino la grafica del dvd è più bella della quasi totalità di quelle legate all'industria videoludica). Il tutto è, ciliegina sulla torta, finanziato con Kickstarter.

giovedì 7 giugno 2012

Se la Cannon avesse fatto fumetti: Night Business di Benjamin Marra



Avevo già parlato del grande Benjamin Marra in occasione della pubblicazione del suo web comic Zorion the Swordlord (magnifico, l’unica vera alternativa – anche se meno ignorantemente parossistico - al Prison Pit di Johnny Ryan, il fumettista amato dal pubblico che lui stesso detesta). Nei giorni scorsi ho terminato la lettura anche di tutto il resto dell’opera omnia del Nostro e vorrei spendere qualche parola su quella che è a oggi la sua creazione più complessa: Night Business. Per rigore di cronaca segnalo che, quando il pacco con i miei fumetti è partito da Brooklyn, il nuovo Lincoln Washinghton: Free Man! non era ancora uscito. E da quanto si legge in giro parrebbe proprio il lavoro della maturità – nel senso che per una volta si va a parare in territori quasi seri - di Benjamin.  Facciamo quindi finta che io non ne sappia nulla e concentriamoci sui primi quattro numeri del fumetto più anni ’80 che mi sia capitato di leggere ultimamente.


Night Business sfrutta – pur essendogli antitetico come stile e intenti - gli stessi meccanismi comici del film di Capitan America (quello nuovo, non quello di Pyun). Fa sorridere non perché c’è la battuta, ma perché tutto è tanto tipicizzato da rendere la parodia (o l’omaggio) sottocutanea. Il film di Joe Johnson è un polpettone dove nessuno offende nessuno e la via per il cinema spettacolare passa dalla riproposizione filologicamente manicale di una scena de Il Ritorno dello Jedi (l’inseguimento, ma dovreste saperlo già). A modo suo è perfetto: gratuito e inoffensivo come era una volta la tv dei ragazzi. Il Capitano ci crede tantissimo e non ride praticamente mai. Fa solo il suo dovere pestando cattivoni privi di  profondità.  Quasi una caricatura del bel cinema d’avventura di una volta, ma senza battutacce a rovinare l’atmosfera (cosa che nei Vendicatori – con Joss Whedon abilissimo a creare situazioni da action hero moderno in cui far muovere un eroe pulp anni ’40, educato anche quando appeso fuori dall’eliveivolo - funziona ancora meglio). Alla stessa maniera Night Business basa tutto il suo fascino sulla riproposizione di certe atmosfere grim & gritty da cinema urbano dei primi anni ’80. Non parliamo di un finto-grindhouse girato da Rodriguez, ma di uno straight-to-video girato in Romania con un budget da filmino della Comunione e una sceneggiatura recuperata dai cassetti della Cannon. Non c’è un momento comico in quattro numeri, eppure la poetica di Marra è talmente perfetta nell’adattarsi a un immaginario ormai mitologico da farti sorridere per tutto il tempo della lettura. Anche se si parla di stupri, sette segrete, giustizia sommaria e donne sfregiate assetate di vendetta.


Night Business è genere purissimo. Di quello sempre uguale a se stesso, eppure generoso nel riservarci ogni due/tre pagine una trovata sopra le righe.  Esattamente quel tipo di intrattenimento che pare destinato all’estinzione, affogato in un mare di contaminazioni, ammiccamenti e ipocriti tentativi di elevare i generi (come li riconosci? Dal fatto che il regista/scrittore non ha mai visto/letto nulla del filone, ma pensa comunque di capirlo. Alla faccia di chi ci ha bruciato ore e ore). 


Il tratto di Marra è legnoso, scoordinato, grottesco e sgradevole. “Perfetto”, se si vuole usare una sola parola. La stampa – autoprodotta - su carta economica (di quella giallognola) fa il resto. L’esperienza è completa. Si è più felici di tutti i difetti di un Night Business che di mille leccate di tanti prodotti impeccabili, eppure privi di quella visceralità che ti fa tornare bambino. Perché la fanciullesca assenza di pretese, se affiancata a una compattezza di poetica da bulldozer e a qualche colpo di genio (indispensabili e irrinunciabili, in ogni lettura/visione), rimane una cosa a cui rinunciare è un crimine.

martedì 5 giugno 2012

Cara Nintendo, io ti voglio bene però...


...due presentazioni inutili nel giro di due anni mi paiono troppe. E poi, detto fra noi, con un roster di esclusive come la tua che bisogno c'era di rincorrere gli altri con riedizioni di giochi già usciti per altre console? Sarebbero bastati 4 secondi di un nuovo Metroid per mandare in sollucchero un sacco di gente, senza contare i vari Star Fox di cui si vocifera tanto.


Va bene, le fiere di settore contano ogni anno sempre di meno (vuoi vedere che aveva ragione Moretti?) e anche il resto delle presentazioni hanno sfiorato più volte il patetico (unica eccezione: l'incredibile The Last of Us), però mi pare che qui non si sappia dove andare a parare. Va a finire che a Natale mi faccio regalare il  Neo Geo Portable e rimaniamo d'accordo così.

lunedì 4 giugno 2012

Vivo quanto un vitello decapitato



Solo per rassicurarvi, su pressione di un paio di amici, che sono ancora vivo e con la voglia di tornare a scrivere su queste pagine. Il periodo bello pieno, in collaborazione con la mia acutissima capacità di perdere tempo, mi sta tenendo un po’ lontano da tutto quello in cui solitamente sperpero le mie giornate (leggasi come: fumetti, cinema e altri ammennicoli vari). La bella notizia è che un paio di lavori sono ormai in chiusura. Prevedo quindi di rivedere la luce entro breve. In qualunque caso in questi giorni mi sono ritagliato il tempo per fare una capatina a Londra prima che le Olimpiadi la rendano la città più cara dell’universo (la stessa camera dove io e mia moglie eravamo alloggiati aumenterà, e non si sta scherzando, del 350%). Obbiettivo della sortita in Terra d’Albione: la megamostra su Hirst alla Tate Modern. Hirst? Quello dello squalo? Ma è un cialtrone… bla bla bla… solo marketing… bla bla bla… non è capace di fare niente… bla bla bla… arte populista e volgare… bla bla bla…


Bene. Ammesso e non concesso che tutte le banalità sciorinate qui sopra siano vere, non importa. Perché è impossibile farsi un’idea precisa della poetica di questo artista senza aver visto questa esposizione. Sensazione provata sulla mia pelle. Nonostante lo segua da anni solo immergendomi dal vivo, e in maniera massiccia, nel suo lavoro sono riuscito ad apprezzarlo appieno. E questo vale perfino per i suoi quadri con i pallini colorati, che ho sempre trovato gratuiti. Sbagliandomi alla grossissima. Ogni cosa ha il suo perché e alla fine tutto il percorso artistico del Nostro appare come un'unica, colossale installazione.


Passeggiando tra i corridoio della ex-centrale elettrica, inondati di una luce bianchissima e allestiti seguendo i dettami di un glaciale stile minimale, non occorre essere espertoni d’arte contemporanea per percepire come l’artista tratteggia la sinistra bellezza della morte, l’incertezza della vita e il nostro attaccamento alle religioni (nuove e vecchie). La testa di vitello in putrefazione rimane di una bellezza e di una vitalità agghiaccianti, così come si rimane pietrificati di fronte al sole nero realizzato con milioni di mosche morte. La farmacia è la nuova cattedrale dove riporre la nostra fede e le vetrinette con i medicinali le sue cappelle votive. Il regno dei cieli è carico di una grazia senza fine, ma gli si può accedere solo attraverso la morte (e ce lo ricorda anche Anatomy on an Angel). E nulla ci fa capire la nostra vacuità come il camminare attraverso una mucca sezionata, eppure ancora serena nella sua sospensione in formaldeide.


Non mi sembrano concetti immediati, eppure Hirst li trasmette con una semplicità estrema. E dal vivo la potenza di fuoco del suo linguaggio è tale che è impossibile sfuggirgli. Altro che ermetismo concettuale, solo chi non vuole capire (in nome, questo sì, di un populismo fatto di finta concretezza e attaccamento a delle presunte viscere dal vago sentore di ottusità) continua a definirlo tale.  Ma allora si parla di faciloneria? Di banalità? Mettiamola così… un sacco delle opere esposte hanno ormai più di vent’anni, eppure sono ancora allineate con le tendenze estetiche più moderne e all’avanguardia. Nel senso che un sacco di gente che crea cose OGGI realizza in realtà un qualcosa che appare più vecchio di robette che Hirst ha esposto nei primi anni ’90. Questo la dice lunga sulla profondità della sua ricerca, no?

Che dopo il buon Damien sia un demonio fuori controllo, capace di allestire dopo tutta questa grazia uno dei negozi di souvenir più atroci (e follemente costosi) che ci si possa ricordare, è fuori da ogni discussione. Basti pensare che l’ultima sala della mostra è dedicata a The Kingdom, gargantuesca opera kitsch (in realtà performance) in cui tutte le sue opere più celebrate sono riprodotte in oro massiccio e tempestante di diamanti. Hirst: egomaniaco o critico consapevole del suo ruolo nel mercato dell’arte?   


Detto questo sappiate che mi sono visto anche un paio di nuovi pezzi di Banksy (gigione più che mai), Roa e Dface (entrambi sempre grandiosi). Così, tanto per gradire.


Mi pare sia tutto. Tanto per riequilibrare la dose di infantilismo & ignoranza che da sempre ringalluzzisce queste pagine vi raccomando di non perdervi la conferenza Nintendo in agenda per oggi alle 18:00 (che da irriducibile - e orgoglioso - fanboy aspetto con le palpitazioni da mesi) e vi lascio con un video che mi mette sempre di buonumore. Forse perché c'è Dave Wittie che fa il simpatico, thrash metal, gente che va in skate e borchie usate per cucinare.