mercoledì 28 novembre 2012

Il nuovo lato oscuro della Luna: Sunpocrisy - Samaroid Diorama



Circa 10/15 anni fa gli Earthtone9 erano il gruppo da adorare a ogni costo. Ritmiche claustrofobiche, melodie stranianti e la fantastica voce di Karl Middleton a elevare il tutto a livelli quasi sempre stellari. Erano talmente pompati da certa critica (Kerrang era praticamente la loro fanzina personale) da essere definiti a più riprese come i Pink Floyd del post-HC. Ora siamo nel 2012, dei Nostri si sono perse le tracce (anche se si parla di inevitabile reunion) mentre i Sunpocrisy sono fuori con Samaroid Dioramas. E un sacco di gente (me compreso, fino a una settimana fa) non si rende conto che l’impegnativo paragone iniziato negli anni ’90 oggi ha raggiunto un nuovo standard. 

Facciamola breve. Difficilmente riprendendo gli ascolti degli ultimi 12 mesi riuscirete a trovare qualcosa di più sottilmente complesso dell’ultimo lavoro dei bresciani.

Per capire di cosa si stia parlando pensate a una serie di cartoline, dove la profondità è stata scomposta in una serie di livelli semitrasparenti. Per quanto ci si possa sforzare di asciugare la visione ogni sguardo sarà sempre e comunque  il frutto di una serie di sovrapposizioni e di fusioni tra gli strati in cui è stato sezionato il paesaggio. Lo spazio appare sospeso tra due e tre dimensioni, trasformandosi in un dedalo di frammenti sospesi in un ambiente neutro. Immaginate che questi paesaggi non siano reali, ma si presentino a loro volta come il frutto di fusioni tra diverse fonti. A questo punto non possiamo neppure consolarci pensando al risultato finale come una sorta di complesso mosaico composto da semplici frammenti. Tutto è già piuttosto complesso alla partenza.

Eppure a un ascolto distratto Samaroid Dioramas è tutt’altro che ostile. Non c’è spazio per l’onanismo math così come per certa schizofrenia -core da quattro soldi. Per definire la sensazione più potente provata durante l’ascolto si dovrebbe parlare, come già accennato, di fusione. E non è una cosa da poco, viste e considerate le libertà che ogni strumento si prende lungo tutto il minutaggio del disco. Da presupposti tragicamente dispersivi si è arrivati a un risultato coeso come un cubo di granito. Se volessimo inquadrare i Nostri nell'odiosa definizione di post-HC questa compattezza sarebbe già indicativa della qualità assoluta del lavoro in questione. Mentre un sacco di band iper-blasonate nel corso degli anni si sono perse in composizioni sbrindellate e gratuite i Sunpocrisy sono riusciti a puntare più in alto percorrendo al contempo strade più accidentate (Samaroid Dioramas avrà certo difetti, ma è un piccolo prezzo da pagare per stringere tra le mani un lavoro privo di qualsiasi tipo di banalità o faciloneria). Basta questo per capire che stiamo parlando di una delle uscite dell'anno (e considerando che solo la settimana scorsa ho detto la stessa cosa di Agnus Dei dei The Secret mi viene da pensare che la scena musicale italiana non sia messa così male...). Smettetela quindi di chiedervi se il paragone con la band di Roger Waters sia esagerato o meno. Procuratevi questo disco e ascoltatevelo fino a sviscerarne ogni segreto.

lunedì 26 novembre 2012

Sicuramente meglio del 2: Thankskilling 3 di Jordan Downey



Ammetto che mi sono approcciato a Thankskilling 3 con le peggiori intenzioni. Nonostante il trailer contenesse in egual misura sequenze esaltanti e odiosi ammicchi al pubblico del “so bad, so good” la presenza di quest’ultimi rischiava di prendere la meglio. Manco a dirlo invece la fascinazione per un intero lungometraggio realizzato con le marionette è stata troppo forte e, alla fine, ho ceduto (chi l’avrebbe mai detto?). 

Sorpresa, sorpresa... il film non è affatto male. In primis per i diversi picchi di follia lisergica che lo punteggiano. In secondo luogo per i pochissimi problemi che si fa a giocare con la sgradevolezza più cristallina e ignorante. A tratti pare di essere tornati ai tempi del famigerato Showden Dozen, uno dei pochissimi show televisivi capaci di infrangere (sbricciolare/polverizzare/vaporizzare) realmente il muro del politicamente corretto. Tutto consegnato agli spettatori in una confezione sfavillante, visto che probabilmente gran parte dei 100.000 dollari di budget sono stati spesi nella fotografia. Soluzione saggia, indispensabile per sfuggire al rischio di poverata digitale. Un’estetica che, a parte pochissimi casi giustificati da una forte spinta autoriale (il Dogma di Trier, qualcosa di Korine e Visitor Q di Miike), ha sempre ammazzato e sepolto ogni buona intenzione. Quindi tanto di cappello a Jordan Downey per la consapevolezza con cui ha affrontato la sua prima prova a budget medio/grosso, scegliendo di fare un passo indietro e di assumere almeno un professionista capace di dare solidità all'insieme. Tra le altre cose la capacità di capire i limiti del proprio lavoro è proprio matrice e motore di tutto il plot, interamente basato sul totale fallimento di Thankskilling 2. Definito a più riprese come il peggior film mai girato (anche se in realtà non è mai esistito se non in alcuni spezzo di questo terzo capitolo. Prendiamolo come una sorta di McGuffin metacinematografico). Per deridere la pochezza dell’operazione si arriva perfino a citare alla lettera la leggenda metropolitana legata al famigerato E.T. per Atari 2600 (quella per cui milioni di cartucce invendute di quello che venne definito come il “peggior videogame di tutti i tempi” vennero seppellite ad Alamogordo, New Mexico. Ridente cittadina nota per aver ospitato il primo test nucleare degli Stati Uniti e per avere una solida tradizione di giunte comunali non proprio brillantissime).

A tratti l’umorismo è talmente sgraziato e malevolo da strappare risate sincere, altre volte la necessità di riempire a forza quasi cento minuti di tacchini killer e bruchi alieni dalle abitudini equivoche porta a soluzioni stucchevoli. La realtà è che siamo ben lontani dalla coesione dei migliori Troma movie post renaissance. Quelle che funzionano veramente sono le singole gag, i personaggi (tutti) e l’idea alla base. Il paragone con Showden Dozen torna a essere utile per definire un lavoro che si pone a cavallo tra sbruffonata amatoriale e tentativo di creare un cult a tavolino. Colpisce come certi scivoloni ingiustificabili convivano con una ricerca maniacale di aspetti magari non così centrali (i set sempre pieni roba, perfetti per trasmettere certe sensazioni alla white trash). Si ha l’impressione che la direzione dell’insieme non sia del tutto chiara. O che le effettive capacità tecniche del regista non siano all'altezza delle sue idee. O viceversa.

Detto questo, e nonostante verso il finale la voglia di premere sul  ffwd sia impellente, il film una visione la vale. Molto più di certa robaccia che invece sul grande schermo riesce ad arrivarci senza tanti problemi. Se si fosse trattata di una webseries, con i suoi tempi e le sue limitazioni percettive (tenere alta l’attenzione per i 10 minuti di una puntata è  molto meno impegnativo che farlo per tutta la lunghezza di un lungometraggio), probabilmente staremmo già urlando al cult. Così invece non possiamo che levarci il cappello di fronte al coraggio e ai picchi di genio del regista Jordan Downey, farci quattro risate e poco altro. Il meta bmovie definitivo rimane (e rimarrà ancora per lunghissimo tempo)  Terror Firmer.

mercoledì 14 novembre 2012

The Secret - Agnus Dei



Nel mio personalissimo vocabolario colloquiale l’aggettivo figo/a potrebbe essere definito come la versione contratta di “cosa giusta al momento giusto”. Questo non implica la vendita di migliaia di copie, la presenza sulla bocca di tutti o una popolarità di massa. Anzi, spesso e volentieri le cose fighe sono ad appannaggio di pochi. E’ un po’ come la divisione tra mercato di massa ed early adopter. Prendi un autore come Louis C.K. E’ un genio, ma farà ridere solo chi di comicità ne sa parecchio. Non a caso è stato definito come comico per comici. Dal suo bacino di idee cabarettisti più popolari attingeranno allo sfinimento, annacquando e arrivando con quel pizzico in ritardo che basta per conquistare la casalinga di Voghera. In questo caso il vero figo è Louis, perché è lui il comico giusto al momento giusto. Sta a noi capirlo (e infatti io lo conosco perché mi ci hanno introdotto altri, mica è farina del mio sacco) e approfittarne.

Definita questa cosa potrei esaurire la recensione del disco in una sola riga.
Band figa. Disco figo. Produttore figo. Tutto fuori per l’etichetta più figa del pianeta. Punto.

Mentre noi stiamo qui ad arrabattarci sulle nostre miserie i triestini The Secret se ne vanno in America e - nell’anno che ci ha consegnato The Faceless, Between the Buried and Me, Converge, Pig Destroyer, Cattle Decapitation, High On Fire - spiazzano tutti con un disco inarrivabile. Non sentivo una roba così gelida dai tempi del capolavorissimo Storm of the Light’s Bane dei Dissection. Meno abrasivo e malvagio del precedente Solve et Coagula, Agnus Dei è invece raffinato e bestiale allo stesso tempo. Doloroso come una rasoiata in pieno volto eppure sempre accessibile e coinvolgente. La copertina ne è perfetta definizione. Uno di quegli ossari dove l'orrore diventa sublime e potresti perfino definirlo "bello" o "suggestivo". Eppure parli di morti ammucchiati (se siete fanatici di Ballard tirate pure fuori la vostra copia di Crash. Il senso è lo stesso).

Tornando al discorso del "figo". Potrà non piacere, ma questo è il suono. La colonna sonora del 2012. Conta solo questo.

Essere sul pezzo.

Essere il pezzo. 

Raccontare la realtà con suggestioni destinate a durare. Scattare un’istantanea ipereale e dimostrare di essere lucidissimi nonostante ti capiscano in pochi. Sfruttare materia ignorante come black metal, hardcore e crust per arrivare a risultati altissimi. La definizione di artista, che con il maestro artigiano non ha nulla a cui spartire.

Io i The Secret li farei suonare alla White Cube, non in qualche locale sperduto in zone industriali. L'equivalente musicale di quelle opere d'avanguardia realizzate con materiali primordiali. Di dischi più belli ne sono usciti e ne usciranno un sacco (vedi l'ultimo Cattle Decapitation, superiore in tutto) ma dubito che saranno così perfettamente incastrati nei nostri giorni come questo Agnus Dei. E per quello che mi riguarda nulla conta di più.

martedì 13 novembre 2012

Arrivano i Bravest Warriors!



Primo episodio della nuova web serie di Pendleton Ward (quello di Adventure Time): Bravest Warriors. Poche storie. Saranno belli i film in 3d, le produzioni Pixar, la nuova Disney e così via. Però io questo tizio lo adoro.

E spero sempre che Genndy Tartakovsky torni al 2d (anche a costo di sembrare ripetitivo... ribeccatevi questo e rimanete sbalorditi ancora una volta).

Che cavolo stai facendo, Johnnie?

DRUG WAR (2012) Trailer from Richard Lormand on Vimeo.

Non provarci neanche a farmi credere che quell'effetto orrendo in digitale lo metti nel film finito. Perché è una roba talmente brutta da far sparire tutto il resto del trailer, che invece tanto male non è. Anche se nulla di straordinario, bisogna dirlo. Speriamo solo non ti stia giocando la carta della macchiettizzazione a tutti i costi. Con le sparatorie e le scene brutali inserite a forza solo perché sei Johnnie To e quindi così deve essere (ti avverto: sta scrivendo una delle quattro persone al mondo a cui Sparrow è piaciuto almeno quanto i tuoi lavori più blasonati).

Ricordati che un sacco di gente mette tra i suoi/tuoi film del cuore i due Election (dove non si sparava un colpo di pistola) o quella follia fantasy di The Heroic Trio (che anno quel 1993! Quattro film diretti di cui almeno tre capolavori da consegnare ai posteri). Ma tu lo sai benissimo: io mi lamento un sacco, eppure ogni volta che vedo una Beretta in mano a uno dei tuoi protagonisti mi emoziono sempre.

Detto questo devo ammettere che infilare una bella esecuzione capitale nel trailer del tuo primo film girato in Cina è un ottimo modo per mettere in chiaro un sacco di robe. Come minimo scopriremo che è tutta una montatura e nessuno muore veramente (in quel modo lì), però almeno qualcosa per tranquillizzare noi fan lo hai fatto. 

domenica 11 novembre 2012

Ancora best worst movie: Miami Connection


Pare che questa rincorsa al best worst movie anni '80 non abbia mai fine. Da qualche giorno a questa parte QUALSIASI sito di cinema statunitense è impazzito per questo Miami Connection. Oscura gemma del 1987 tirata a lucido da quei geni della Drafthouse Films (gente che riesce a far convivere nel loro catalogo Cannon Films e Kim Ki Duk) e pronta alla pubblicazione (quasi) simultanea in bluray/dvd/digital delivery e sala cinematografica.

Ci sarebbe da lamentarsi di come queste spinte dietrologiche stiano soffocando la creatività. A un cinema mainstream ormai popolato solo da sequel/remake/adattamenti pare si sia affiancata una scena  indipendente meno fragorosa e sempre più votata all'archeologia. E c'è poco da lamentarsi e fare i superiori, visto che io stesso sarei in prima fila se Miami Connection arrivasse anche dalle nostre parti.

Dalle pagine di Wired.com Zack Carlson (della già citata Drafthouse Films) cerca di spiegare questo fenomeno con un magnifico intervento sulla natura dell'intrattenimento e sull'inutilità meschina del point & laught. Ben scritto e condivisibile, oltre che illuminante circa le questioni del secondo paragrafo di questo post. Riassumo in due parole per chi non avesse voglia di leggere: per quanto sgangherati e poveri possano essere, risultano molto più divertenti certi pastrocchi delle decadi passate rispetto ai blockbuster megamillionari di oggi.

Fine. Nessuna complessa teoria alla Simon Reynolds. Solo voglia di uscire dal cinema più leggeri di quando si è entrati.

mercoledì 7 novembre 2012

Le soddisfazioni di Kickstarter: ThanksKilling 3



Il boom delle raccolte fondi a 6/7 cifre degli ultimi mesi è arrivato bene o male alle orecchie di tutti: che si tratti di un film, di un libro o di un videogame chiunque ha pensato - anche solo per un secondo - di mettere mano alla prepagata e di fare la propria parte in quelli che sembravano (e magari sembrano tuttora) progetti visionari. Ora, con quest'onda di entusiasmo fuori dai radar delle prime pagine dei siti, è giunto il momento di dare una controllata ai frutti di questue tanto abbondanti. Finalmente si potrà tastare il vero polso di Kickstarter e verificare se il meccanismo di finanziamento 2.0 porta effettivamente a qualche risultato o si tratta di una bolla destinata a svanire (stessa cosa andrà fatta con il meccanismo dell' autopubblicazione, popolare come non mai). Mentre si sa già di qualche progetto andato a gambe all'aria nonostante i dollaroni raccolti (non fatemi cercare l'articolo, fidatevi) il banco di prova più importante rimarrà l'arrivo sul mercato di Ouya, la console per smanettoni che ha raccolto quasi dieci milioni in donazioni e pre-vendite. 

Per ora accontentiamoci di questo ThanksKilling 3. Finanziato attraverso la piattaforma di crowdsourcing e costato la bellezza di 100.000 dollari. Se la vostra  idea di cinema passa solo dal multisala nell'hinterland probabilmente vi sembreranno briciole, eppure io ho visto capolavori girati con molto, molto meno (e non parlo di corti sperimentali sulla condizione dell'uomo moderno. Parlo di cinema popolare). Tanti o pochi soldi investiti mi sembra comunque una stupidata abbastanza trascurabile, che probabilmente finirò per recuperare (vedrò sicuramente) solo per la presenza di burattini (che Jim Henson li possa perdonare). E per la parodia di una delle scene più belle della storia del cinema (la trovate nel trailer).

martedì 6 novembre 2012

True Norwegian Fashion Week


Quasi dimenticavo... se siete tra i fortunati a essere raggiunti dalla distribuzione della rivista Kult, sappiate che nel numero in edicola ci trovate un mio pezzo sulla follia black metal in cui pare stia cadendo il mainstream (quella sopra è la pubblicità di un modello di jeans... con un bel Cristo capovolto e sventrato come il buon Fenriz insegna, tanto per gradire). Prima di urlare alla fighetteria hipster sappiate che per l'occasione ho intervistato anche Amelia Ishmael. Che sarebbe poi la curatrice della fantastica mostra Black Thorns in the White Cube  (piccolo consiglio... ricopiatevi l'elenco degli artisti partecipanti e incominciate a fare ricerca su Google. Ci sono perle clamorose). Insomma, il pezzo è pronto da qualche mese ma esce solo ora. Per fortuna tutte le persone che mi hanno aiutato (tra cui anche il mastermind dietro il marchio di culto - e ora etichetta discografica - AntiDenim) si sono dimostrare estremamente intelligenti e lucide, tanto da rendere le loro dichiarazioni interessanti anche se non esattamente sul pezzo (e comunque quei fighetti iperpompati di SlamXHype ci sono arrivati solo oggi. Alla faccia dei trendsetter globali).

lunedì 5 novembre 2012

Come un Bret Easton Ellis a 16bit: Hotline Miami



Viviamo in anni in cui una software house può permettersi di prendere a noleggio un’intera nazione per promuovere il suo nuovo titolo (ma mi piace pensare che sia tutto uno scherzo). Anni dove pare che la potenza di fuoco sia tutto, eppure (r)esistono delle piccole ma significative eccezioni. Opere microscopiche capaci di fondere in maniera mirabile il loro mondo di partenza con quello della narrativa tradizionale e della videoarte. Parlo ovviamente del chiacchieratissimo Hotline Miami. Prodotto che in prima battuta io stesso avevo erroneamente definito come semplice deriva retroludica del Drive di Refn. Sbagliando tutto. Perché HM in realtà è il più bel libro scritto da Bret Easton Ellis negli ultimi anni. Peccato che non sia un romanzo e lo scrittore statunitense se ne sia tenuto a debita distanza. Ma andiamo con calma.

Il gioco si presenta come ennesimo omaggio alla grafica a 16bit, agli anni’80 e alla sua iconografia composta dai vari Scarface + Vivere e Morire a Los Angeles. Glamorama. Detto così sembrerebbe la fusione perfetta tra GTA 1&2 e GTA: Vice City. Ovvero la sintesi tra i due titoli che hanno introdotto la nozione di “simulatore di malavita” e il sequel entrato nella leggenda. Quello che ha preso un’idea già di per sé vincente e gli ha cucito addosso un abito perfetto per sfrecciare su di una Ferrari bianca dopo essersi scolati un paio di mojito. Definendolo così rischiamo però di lasciarne fuori la componente allucinata e allucinatoria. Ogni partita di Hotline Miami si svolge alla stessa maniera. Lasciate il vostro appartamento. Raggiungete l’obbiettivo della missione (che è sempre riassumibile in due punti: entrare da qualche parte e massacrare chiunque sia ospitato nella locazione). Indossate una maschera di gomma dalle parvenze animali. Fate irruzione e incominciate a morire decine di volte. Perché in HM la morte è un loop continuo. Basta essere toccati una volta e si deve ricominciare da capo. Semplicemente premendo il bottone R. Sempre più veloce, pensando sempre meno.

Entro, sfondo il cranio a un malvivente, muoio tranciato da una sventagliata di UZI, opera del suo socio nascosto dietro la porta, R, entro, massacro i due di prima a colpi di fucile a pallettoni, passo alla stanza dopo, muoio accoltellato alle spalle, R, ri-uccido per la terza volta i due scagnozzi della prima stanza,…

La fusione tra colori fluo, beat sintetici e violenza reiterata e gratuita procede senza sosta. Una volta bonificato tutto il livello si dovrà tornare alla propria auto, parcheggiata di fronte all’ingresso. Proprio questo piccolo espediente ci da la possibilità di tornare in noi, passeggiando senza pericoli incombenti tra i cadaveri seminati poco prima. E’ un bagno di sangue. Il trip psicotico è terminato e possiamo fermarci a prendere qualcosa da mangiare sulla strada di casa (o un video da vederci spiaggiati sul divano). In qualunque esercizio sceglieremo di fermarci ci servirà sempre lo stesso commesso, in una follia spersonalizzante che sa tanto di American Psycho (impossibili da dimenticare gli amici di Bateman che si scambiavano i nomi, tanto erano simili fra loro). La narrazione procede a ritroso, in maniera criptica e convulsa. Tutto è estremamente semplice, ma nulla è chiaro. Sappiamo solo che uccidere senza un motivo preciso è estremamente divertente. Tanto la morte non ha significato, solo la pressione di un bottone sulla tastiera.

Noi, gli altri, chiunque. Valiamo Meno di Zero. Saliamo sulla nostra DeLorean rosa, seguiamo le istruzioni di una voce nella nostra segreteria telefonica e andiamo a morire. Siamo la generazione ctrl+z e per noi nulla è per sempre.