Paradossi a cui si va in contro se si decide di collaborare con Takashi Miike. Quando il produttore Toshiro Nagoshi decise di spingere la software house Sega a finanziare una controparte orientale di Grand Theft Auto, la scelta del fuorilegge di Osaka come regista per le scene di raccordo fu quasi automatica. Così come il capolavoro della Rockstar (soprattutto il capitolo ambientato a Vice City) non ha mai fatto mistero circa i suoi prestiti nei confronti dei grandi crime movies occidentali, era naturale che l’erede di Fukasaku (e, non per nulla, autore di un fantastico remake di una delle pietre miliari dello yakuza eiga a opera del maestro) fosse incaricato di donare un'aura cinematografica al progetto. Ma cosa succede se Miike finisce per essere incaricato anche della trasposizione del videogioco su grande schermo?
Like a dragon vale molto di più come cortocircuito di linguaggi che come opera filmica, forte di tutti i pregi e i difetti che ogni lungometraggio dell’iconoclasta giapponese comporta. La volontà di unire un cast oceanico (scelta che rimanda direttamente a Battles without honour and humanity e a tutti gli Yakuza papers seguenti) con una sceneggiatura a incastro di scuola Tarantinesca/Guy Ritchiana è quantomeno deleteria se messa a contatto con la concezione del ritmo narrativo di Miike. Come in ogni altra regia del Nostro i tempi si dilatano all’infinito per poi comprimersi all’improvviso, dando spazio infinito a parentesi (apparentemente) inutili per bruciare tutti gli snodi narrativi fondamentali in un pugno di minuti (si veda l’intro del primo DOA, un lungometraggio di ampio respiro riassunto in sette minuti). Affascinante cifra stilistica che in un contesto come il blockbuster appare invece come incapacità nella gestione dei tempi.
Ricollegandoci al concetto di cortocircuito Like a dragon è invece una prova di forza fenomenale. Rifiutando di tornare a girare un nuovo Agitator (200 minuti di sommesso e livido intimismo yakuza) Miike decide di punteggiare lo script di trovate al limite del surreale. Boss mafiosi che uccidono a colpi di palla da baseball, duelli molto John Woo ma con fucili a pompa al posto delle celebri Beretta, risse alla Tekken con tanto di auree vitali e pugni in fiamme, enormi elicotteri Huey capaci di volare rasoterra alle trafficate strade di Tokyo, miracolosi reintegratori vitaminici e un protagonista, Kiryu, dotato di tutto il carisma necessario a fissarsi a lungo nell’immaginario collettivo. Se il videogioco era dotato di una regia e di una sceneggiatura capace di elevarlo quasi allo status di film interattivo, così la sua trasposizione su pellicola fa di tutto per ricordarci da dove viene.
A una serie di trovate registiche stupefacenti per freschezza e audacia Miike affianca, come sempre, un lungo giro sull’ottovolante delle emozioni più viscerali. In Like a dragon si passa da farsa a dramma (e viceversa) senza soluzione di continuità, lasciando spesso spiazzati per la velocità con cui si viene sbalzati dall'umorismo cartoonesco al pathos dell’affresco criminale. Le trovate visive alternano un uso sorprendente del digitale (sempre esplicito) con immagini di una poesia e di una potenza mozzafiato, senza dimenticare i classici micro cut tanto cari al regista di Ichi the Killer.
Di certo non il miglior Miike, ma di sicuo l'ennesima dimostrazione di quanto questo cineasta stia riscrivendo le regole del cinema. Giapponese e non solo.
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