Kenta Fukasaku è probabilmente il più subdolo tra i nuovi provocatori del cinema d’Oriente. Lontano dalla furia di un Takashi Miike o dall’elegante scaltrezza di Park Chan Wook, il figlio del Maestro riesce a fondere come pochissimi altri l’essenza kawai dell’estetica e filosofia otaku con amare riflessioni sulla sociologia e sulla comunicazione del mondo moderno. Come se si trattasse di una versione impudente e hardcore di Bauman, Kenta ci parla (malissimo) dei nostri giorni rivestendo l’amaro calice di una patina plasticosa dai tipici colori accessi e caramellosi tanto caratteristici agli anime.
La poetica di Kenta esordisce con la sceneggiatura di Battle Royale (2000), apocalittico Signore delle Mosche di inizio millennio e canto del cigno (se si escludono i filmati per il videogioco per PS2 Clock Tower 3) del padre Kinji, ormai divorato da una terribile malattia. Una classe di un liceo a caso del Giappone viene inviata su di un isola, location in cui gli studenti dovranno lottare tra loro per la sopravvivenza. Tra geyser di sangue e trovate di un umorismo nero come la pece (le stoppose dichiarazioni d’amicizia o d’amore in punto di morte assumono tutto un nuovo significato se maneggiate dal regista de La Tomba dell’Onore), il film si pone come un pugno in pieno volto al sistema nipponico, presentandosi però sotto le mentite spoglie di blockbuster da campagna pubblicitaria shock. L’opera, oltre al suo significato politico, può essere vista anche come prosecuzione delle sperimentazioni sul linguaggio pop del regista, da sempre avvezzo a rubare soluzioni grafiche al fumetto e ad altri linguaggi generalmente considerati “bassi” (basti pensare a come seppe asciugare l’azione tramite freeze frame fin dai suoi primissimi yakuza eiga). Ma tutto questo è nulla se paragonato alla potenza deflagrante dei successivi progetti del giovane cineasta nipponico, a partire proprio da Battle Royale 2 (2002).
Dopo una sola scena di girato (ironicamente un flashback dal primo capitolo) Fukasaku viene sopraffatto dalla malattia, lasciando al figlio il compito e l’onere di completare il lavoro. Quello che i produttori si ritroveranno tra le mani può essere ricordato come uno dei debutti più sottovalutati, bistrattati e incompresi della storia del cinema recente. In questo kolossal in dimensione action figure (non sarebbe sbagliato paragonarlo concettualmente con una delle più azzeccate campagne pubblicitarie per il videogioco Halo 3 costituita unicamente da riprese ad un tipico tabellone da war game) tutto è un gradino oltre quello che ci sarebbe aspettato, dalla messa in scena all’ideologia: in un futuro in cui sopravissuti delle precedenti edizioni del BR si sono riuniti in un cellula terroristica e hanno dichiarato guerra al mondo degli adulti, colpevoli e incapaci genitori, finzione e realtà appartengono ormai a un unico palcoscenico.
La poetica di Kenta esordisce con la sceneggiatura di Battle Royale (2000), apocalittico Signore delle Mosche di inizio millennio e canto del cigno (se si escludono i filmati per il videogioco per PS2 Clock Tower 3) del padre Kinji, ormai divorato da una terribile malattia. Una classe di un liceo a caso del Giappone viene inviata su di un isola, location in cui gli studenti dovranno lottare tra loro per la sopravvivenza. Tra geyser di sangue e trovate di un umorismo nero come la pece (le stoppose dichiarazioni d’amicizia o d’amore in punto di morte assumono tutto un nuovo significato se maneggiate dal regista de La Tomba dell’Onore), il film si pone come un pugno in pieno volto al sistema nipponico, presentandosi però sotto le mentite spoglie di blockbuster da campagna pubblicitaria shock. L’opera, oltre al suo significato politico, può essere vista anche come prosecuzione delle sperimentazioni sul linguaggio pop del regista, da sempre avvezzo a rubare soluzioni grafiche al fumetto e ad altri linguaggi generalmente considerati “bassi” (basti pensare a come seppe asciugare l’azione tramite freeze frame fin dai suoi primissimi yakuza eiga). Ma tutto questo è nulla se paragonato alla potenza deflagrante dei successivi progetti del giovane cineasta nipponico, a partire proprio da Battle Royale 2 (2002).
Dopo una sola scena di girato (ironicamente un flashback dal primo capitolo) Fukasaku viene sopraffatto dalla malattia, lasciando al figlio il compito e l’onere di completare il lavoro. Quello che i produttori si ritroveranno tra le mani può essere ricordato come uno dei debutti più sottovalutati, bistrattati e incompresi della storia del cinema recente. In questo kolossal in dimensione action figure (non sarebbe sbagliato paragonarlo concettualmente con una delle più azzeccate campagne pubblicitarie per il videogioco Halo 3 costituita unicamente da riprese ad un tipico tabellone da war game) tutto è un gradino oltre quello che ci sarebbe aspettato, dalla messa in scena all’ideologia: in un futuro in cui sopravissuti delle precedenti edizioni del BR si sono riuniti in un cellula terroristica e hanno dichiarato guerra al mondo degli adulti, colpevoli e incapaci genitori, finzione e realtà appartengono ormai a un unico palcoscenico.
Nella scena di apertura diversi grattacieli nel centro di Tokyo implodono miseramente su se stessi, lo scenario trova immediatamente soluzione in un video messaggio in cui Shuya (il capo dei terroristi e protagonista del primo film), munito di regolare AK, dichiara che il folle gesto sarebbe stato il primo di una lunga serie. In fretta e furia il governo nipponico decide di combattere i giovani terroristi inviando proprio la classe prescelta per l’edizione annuale di BR. Muniti nuovamente di collare esplosivo gli studenti vengono introdotti brutalmente alla loro nuova identità da un ipercinetico Riki Takeuchi (regular di Miike e di un certo cinema eccessivo del Sol Levante), che pensa bene di incominciare la lezione del giorno elencando su di una lavagna i nomi di tutte le nazioni bombardate dagli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale ad oggi, con tanto di conta dei morti. Tanto per far capire alla classe quanta differenza ci possa essere tra il valore di una vita umana e l’altra.
Lo sbarco sull’isola appare come una sorta di rivisitazione in chiave first person shooter della messa in scena bellica per eccellenza del cinema post moderno, quel Salvate il Soldato Ryan capace di fissarsi indelebilmente all’immaginario collettivo, andandosi qui a imbastardire con le ossessioni di un Verhoeven reduce da una maratona di dodici ore non stop di Quake. I pacchi con gli aiuti arrivano dall’alto, piccole casse di legno munite di paracadute e icona identificativa del contenuto (i medikit sono indicati da un grosso cuore) e la missione è scandita da scritte in sovra impressione, ad indicare l’inizio di un nuovo livello. Anche le armi usate dai ragazzini hanno un aria talmente moderna e gargantuesca da sembrare opera di pura finzione, come se si fossero trovare dietro ad una cassa, galleggiando a mezz’aria. Peccato che i fucili in questione esistano veramente (i FAMAS dell’esercito francese), generando un cortocircuito di significati che ribalta tutto il senso della scena. La guerra come videogioco, esattamente come apparse ai telespettatori di tutto il mondo durante quella straziante diretta da Baghdad del 1991, dove ci si sposta in un continuum da blog televisivo, passando dall’Afghanistan, alla Normandia fino al Vietnam (l’entroterra dell’isola) come se non ci fosse nessuna differenza reale, come se tutto fosse un set o stringhe di programma impresse su un DVD per Xbox. La confusione tra i piani della realtà viene spinta ancora più in la quando il giovane terrorista narra delle sue peregrinazioni nelle zone più disastrate della Terra, mentre sullo schermo compaiono scene di vita reale relative al Vicino Oriente. Se la finzione entra nella realtà ecco che Fukasaku compie esattamente il contrario: la vicenda fittizia di BR2 si svolge nel nostro VERO mondo. I dati che il prof. Takeuchi dichiarava con tanta foga erano veri.
Lo sbarco sull’isola appare come una sorta di rivisitazione in chiave first person shooter della messa in scena bellica per eccellenza del cinema post moderno, quel Salvate il Soldato Ryan capace di fissarsi indelebilmente all’immaginario collettivo, andandosi qui a imbastardire con le ossessioni di un Verhoeven reduce da una maratona di dodici ore non stop di Quake. I pacchi con gli aiuti arrivano dall’alto, piccole casse di legno munite di paracadute e icona identificativa del contenuto (i medikit sono indicati da un grosso cuore) e la missione è scandita da scritte in sovra impressione, ad indicare l’inizio di un nuovo livello. Anche le armi usate dai ragazzini hanno un aria talmente moderna e gargantuesca da sembrare opera di pura finzione, come se si fossero trovare dietro ad una cassa, galleggiando a mezz’aria. Peccato che i fucili in questione esistano veramente (i FAMAS dell’esercito francese), generando un cortocircuito di significati che ribalta tutto il senso della scena. La guerra come videogioco, esattamente come apparse ai telespettatori di tutto il mondo durante quella straziante diretta da Baghdad del 1991, dove ci si sposta in un continuum da blog televisivo, passando dall’Afghanistan, alla Normandia fino al Vietnam (l’entroterra dell’isola) come se non ci fosse nessuna differenza reale, come se tutto fosse un set o stringhe di programma impresse su un DVD per Xbox. La confusione tra i piani della realtà viene spinta ancora più in la quando il giovane terrorista narra delle sue peregrinazioni nelle zone più disastrate della Terra, mentre sullo schermo compaiono scene di vita reale relative al Vicino Oriente. Se la finzione entra nella realtà ecco che Fukasaku compie esattamente il contrario: la vicenda fittizia di BR2 si svolge nel nostro VERO mondo. I dati che il prof. Takeuchi dichiarava con tanta foga erano veri.
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