mercoledì 30 novembre 2011

Neoludica. Arte & Videogames (Edizioni Skira/2011)



“Make art-game, not game art.”



Neoludica è qualcosa di più di un catalogo dall’omonima mostra. Un evento epocale come la comparsa dei videogiochi davanti alla platea internazionale della Biennale di Venezia (a distanza di 10 anni dall’ormai storica Play al Palazzo delle Esposizioni di Roma) non poteva che richiedere un testo integrativo atipico.



Il tomo si compone di un numero elevato di brevissimi saggi, tutti dalla densità concettuale abbastanza scoraggiante per chiunque non sia un minimo avvezzo alla semiologia e all’analisi dell’immagine. In alcuni casi la direzione risulta vagamente confusa, ma in linea di massima si percepisce chiaramente il nucleo della questione. Il fatto che i prodotti videoludici siano ormai parte integrante del panorama artistico significa qualcosa di più di premiare lo stato dell’arte in tale industria. Esporre un videogioco in una galleria d’arte contemporanea non vuol dire appendere un pugno di schizzi preparatori, quattro fondali e mettere due consolle a disposizione del pubblico. O, meglio, vuol dire quello più un sacco di altra roba.



Questo perché non sempre un’illustrazione bellissima, realizzata con una tecnica sopraffina e inappuntabile, rappresenta l’arte. Al più si parla di alto artigianato. Stessa cosa nella narrazione. Di libri magnifici ce n’è pieno il mondo, ma pochissimi sono opere d’arte. In questi anni di post-modernismo e abbattimento di ogni barriera questi paiono discorsi settari, vetusti e antipatici, eppure necessari. Rifugiarsi tra le pagine di qualche romanzo d’evasione non è un male, anzi. Esistono scritti di puro intrattenimento praticamente privi di difetti, emozionanti e stimolanti a livello intellettuale. Ma la capacità di fare da antenna al nostra civiltà non gli compete (tanto per tirare in ballo la definizione d’artista di Marshall McLuhan, citato anche in Neoludica).



Nel mondo dei videogiochi e della loro critica ci troviamo di fronte al medesimo bivio. Definire un gioco come capolavoro nell’ambito ludico è ben diverso da definirlo come tale tra le austere mura di una galleria d’arte. Grafica fotorealistica, sandbox infinite (piuttosto che script ultra avvolgenti) e compenetrazioni con altri linguaggi non sono sufficienti. Occorre andare più in profondità.



Piuttosto ci si deve chiedere perché tale grafica ultra dettagliata si fonda perfettamente con il medium, magari passando dalla storia della fotografia e dello strappo portato da questa nel mondo della riproduzione.



Oppure cercare un parallelismo tra modernismo pittorico e videogiochi.



Naturale che una tale complessità di riflessioni porti a un moltiplicarsi degli strumenti espressivi. Nella videogame art l’opera può essere un videogioco, ma anche un suo diretto derivato. Sia fisico (dipinti a olio basati su frangenti di gioco, hardware, …) che digitale (video, screenshot,..).



Un altro esempio. Gli sparatutto bellici non hanno mai generato arte. Fino a quando Marco Cadioli non ha incominciato a diffondere reportage fotografici delle battaglie online in puro stile Rober Capa. Un’idea tanto semplice quanto geniale. Vera arte, concettualmente devastante.



Neoludica è un punto di partenza per un percorso ricco e stimolante, ancora tutto da discutere (e infatti nello stesso volume ci si contraddice più volte). Lettura consigliata per chiunque si interessi di arte contemporanea, anche se sono anni che non prende in mano un joypad (ma sarebbe consigliato. Se non per capire meglio l’apparato critico almeno per rilassarsi dopo una sessione di lettura).

lunedì 28 novembre 2011

La roba orenda con due teste: intervista alla Passenger Press



Qui una luuunga intervista a me e a Christian, più che mai in disaccordo su tutto (ma ci vogliamo tanto bene lo stesso). Grazie mille a Matteo Tarquini e al culo mastodontico che si è fatto. Qui trovate anche il focus sulle nostre produzioni (analizzate una per una!), sempre a opera sua. Un lavoraccio così, tutto dedicato a noi, non me lo sarei mai aspettato. Mi sono sciolto, giuro.

venerdì 25 novembre 2011

[Pyunologia pt.8] Dollman di Albert Pyun (US/1991)



Perché la storia (anche quella del cinema) non è fatta solo da chi sta in cima. Anzi, spesso è proprio dal basso che arrivano gli scossoni più interessanti. Basta saperli sentire. Partendo da questo presupposto ho maturato la decisione di recuperare l’opera omnia di uno dei registi più (ingiustamente) vituperati di sempre: Albert Pyun. Parte così Pyunologia, percorso in una poetica da VHS.


Dollman è geniale. Sarà anche scritto male, girato in condizioni di fortuna e interpretato da cani, ma l’idea di fondo è qualcosa di grandioso. Leggete la sinossi qui sotto e provate a dire il contrario.


Tutto parte sul pianeta Arturos, una sorta di versione povera della Los Angeles di Blade Runner. Nel bel mezzo di una situazione critica facciamo la conoscenza di Brick Bardo, tipico sbirro cazzuto e violento. Ora ancora più badass grazie all’aggiunta di pseudo poteri jedi. Nel giro di una manciata di minuti incontriamo anche il suo antagonista, una gommosa testa fluttuante. Segue scontro all’ultimo sangue e inseguimento negli spazi siderali dell’universo profondo. Il tutto porterà a sviluppi inattesi, fino al rovinoso arrivo sulla Terra. South Bronx, per la precisione.


Neanche il tempo di riprendersi dall’impatto che il Nostro si butta al salvataggio della sua probabile coprotagonista (in fuga da un manipolo di malviventi), con logico e conseguente spargimento di cadaveri al suolo. E qui arriva il bello, perché proprio in questa occasione scopriamo che il Callaghan intergalattico è alto… 30 cm.


Ditemi voi se tutto questo non è meraviglioso. In un colpo solo Albert Pyun rilegge e ridicolizza un sacco di personaggi della fantascienza e del poliziesco, creando qualcosa di totalmente nuovo (non venite a dire che esisteva già il mini supereroe della Quality Comics, siamo in due territori totalmente diversi). Peccato che dietro a tutta l’operazione ci sia la Full Moon Features (quelli della serie Puppet Master), non proprio noti per la loro generosità pecuniaria. Ma noi fanatici di Pyun sappiamo bene che il risultato sarebbe stato uguale in qualsiasi caso. Anche se il regista avesse avuto a disposizione un budget faraonico non sarebbe comunque bastato. La sua è una rincorsa alla fantasia più sfrenata, all’evasione più pura e incontaminata. Dollman è l’ennesimo tassello di una filmografia che deve essere presa per intero, solo così se ne può capire la ricchezza e l’andamento da blob onnivoro. Nonostante i mille "incidenti" produttivi.


Certo, c’è da dire che in questo caso oltre all’idea di base ci sia veramente poco. La reazione degli abitanti del Bronx all’arrivo di due minuscoli essere dotati di armi potentissime è al più di curiosità. Neanche fossimo in un una puntata di Ugly Americans (a proposito, quanto è bella a vedersi questa serie?) la paura non viene proprio presa in considerazione. In un paio di occasioni viene a galla la voglia di Albert di premere sulla macelleria più bassa (ci sono un paio di corpi letteralmente divelti), qui più che mai strumento espressivo e non mero orpello estetico per adolescenti vogliosi di trasgressioni all’acqua di rose. Lo stridere tra la presenza fisica del protagonista e le conseguenze delle sue azioni avrebbe reso il tutto ancora più ironico e assurdo. Peccato (ancora una volta) che si stia sempre parlando di uno straight to video prodotto da una delle compagnie più famigerate di sempre. Tanto che sfrutterà il personaggio creato da Pyun per girarne un improbabile sequel/crossover Dollman vs Demonic Toys (lo ammetto, il titolo è grandioso. Pura VHS nostalgia).


Fulminante, a questo proposito, la fine dell’antagonista alieno. Deciso a prendere il potere di una gang terrestre finirà schiacciato dal capo di questa come un semplice insetto. Mai fare il gradasso nel Bronx quando sei alto 5 cm (ricordiamo che il cattivo era composto unicamente dalla testa gommosa). Se qui il Grand Guignol è succosa e bizzarro quanto basta, per la gran parte del lungometraggio i risultati delle raffiche di laser rimangono nella testa del regista, ben barricati dietro una lista di costi e spese irraggiungibili. Non basta certo un braccio mozzato sul finale per risollevare l'asticella del gore a livelli da midnight movie.


Il resto dello sviluppo narrativo risulta non pervenuto e verso la fine dei 70 minuti ci si accorge fin troppo chiaramente che non erano rimasti neppure i soldi per il catering della troupe. Poco importa, a noi basta l’idea che un film del genere esista. Che abbia generato una copertina da VHS in cui perdersi e costruire la nostra personale visione di Dollman. Albert Pyun perde ancora una volta l'occasione per dimostrare quanto vale, a occhi avidi e depredati da una certa innocenza infantile, e noi gli vogliamo ancora più bene di prima.

martedì 22 novembre 2011

Il ritorno del genio: Danger 5 di Dario Russo (quello di Italian Spiderman)



Siate onesti, quante volte vi siete rivisti quel capolavoro di Italian Spiderman? Tante, tantissime. Eppure ogni volta c'era una nuova sfumatura di nonsense da cogliere. La grandezza di Dario Russo è tutta lì: ti fa credere di stare a vedere l'ennesimo clone di Grindhouse e invece stai assistendo a un'alta lezione di umorismo. Nelle sue stralunate opere nulla è lasciato al caso, dalla recitazione ai fondali. Naturale che dopo la sua prima sortita internazionale (mai rilasciata su dvd, tra l'altro) tutti erano in attesa del nuovo capolavoro. Dopo i finti supereroi italiani è giunto il momento del remake dei Thunderbird: Danger 5. Vai con il trailer!




Distribuzione naturalmente via web, a scadenza regolare. Ieri è stata pubblicata la prima puntata, e dovrete farvela bastare fino a lunedì prossimo. Ingannate l'attesa spulciando il fantastico sito.


lunedì 21 novembre 2011

[Ai margini della bolla oscura] Metastasi di Spugna, Campisano, Cammello, Caselli



Il mondo di Metastasi è sconvolto dalla comparsa di un massa nera e informe sospesa a mezz’aria. Passa il tempo e il corpo misterioso si ingrandisce progressivamente, inarrestabilmente. Fino alle più tragiche conseguenze.


Tutto quello che dobbiamo sapere sul contenuto di questo volume è nelle tre righe qui sopra. Niente eroi che partono a bordo di improbabili mezzi per neutralizzare la minaccia, e neppure catastrofiche scene da giorno del giudizio. L’attenzione è tutta catalizza sui margini. Non esiste un vero svolgimento della narrazione, quanto quattro frammenti di ciò che sta attorno (prima, durante, dopo) all’ infausto evento.


Metastasi, nonostante sia scritto e disegnato da quattro fumettisti diversissimi tra loro, pare essere stato concepito dalla stessa immaginazione. Questo grazie a una coesione priva di crepe, solida come un blocco di granito. E si consideri che nessuno dei segmenti del volume tratta direttamente il fulcro della faccenda, costruendosi piuttosto una sua linea narrativa parallela.


La compattezza dell’opera sta tutta nell'empatia con cui vengono tratteggiati personaggi che altrimenti sarebbero rilegati nella classica vignetta di panico (quella con la bionda che indica qualcosa fuori campo, mentre alle sue spalle tutti si danno alla fuga). Da semplici elementi compositivi a personaggi tridimensionali, tutti diversi tra loro. C’è chi scappa, chi rimane stoicamente al suo posto, chi semplicemente non capisce cosa stia succedendo e chi si adatta subito al nuovo ordine mondiale. Quattro capitoli, quattro stili, quattro visioni diverse del mondo. Eppure una comune sensibilità.


Una partenza da The Twilight Zone che sfuma nell’affresco antropocentrico. E per una volta non assistiamo al solito siparietto di casi umani dove vince facile chi gioca al ribasso. Troppo facile votare tutto al pessimismo cosmico, così come alla retorica post-traumatica da fumetto statunitense (da Watchmen in avanti). Se osserviamo la realtà privandoci di mediazioni linguistiche deformanti è dura non rimanere sopraffatti dalla complessità che ci circonda. Possiamo incrociare persone pessime, magnifiche e tutto quello che c'è nel mezzo. Poi, tanto per complicare ulteriormente le cose, tutti sappiamo che anche l’uomo più gentile al mondo ha i suoi momenti di incazzatura. E viceversa. E’ come confrontare Caravan (la miniserie Bonelli) con un Walking Dead. Se del titolo di Kirkman possiamo leggere interi volumi senza che succeda nulla, e ritenerci comunque appagati, è per le sfaccettature più del vere del vero tipiche dell’umanità che ne popola le pagine. In Caravan invece avevamo solo archetipi umani mascherati da vita comune con qualche battuta colloquiale. Tra questi due estremi Metastasi si avvicina pericolosamente all’epopea dei non-morti di casa Image.


E basterebbe questo per invogliarne l’acquisto.


Senza considerare che ognuno di questi ragazzi ha il suo stile grafico, la sua poetica e le sue ritmiche. Tutte diverse ma altrettanto valide.


Metastasi andrebbe recuperato anche solo per questi motivi. Il valore aggiunto lo da l’autoproduzione. Il voler scavalcare la vecchia filiera editoriale pur di poter far sentire la propria voce. Ogni difetto tipico dell’inesperienza viene reso inoffensivo da questa foga, dalla voglia di non stare ad aspettare il nulla osta di nessuno. Presto, prima che la massa nera ci schiacci tutti.


Per il volume provate a scrivere a uno degli autori.


venerdì 18 novembre 2011

I need this place like i need a shotgun blast to the face!



Scopro solo oggi, a distanza di due anni precisi dalla sua pubblicazione, l'esistenza di questo volume. Una raccolta delle migliori lettere d'insulti ricevute da Andy Kaufman. Teorico e fondatore dell'anti-comicità, genio assoluto e una delle mie più profonde influenze (e non parlo di creatività, parlo proprio di visione sul mondo in toto). Anche se fuori tempo massimo mi sento in dovere di segnalarvelo. Perché tutti noi dobbiamo un sacco a Andy.


Procuratevi in qualche modo The Andy Kaufman Show, pilot di un suo varietà stroncato dopo una sola apparizione. La gag in apertura (se si può chiamare gag) è forse la cosa migliore si sia mai vista in televisione. Per farla breve: il programma parte già sul finale. Si è appena conclusa una gag esilarante (o almeno questo si deduce, visto che tutti ridono a crepapelle), Andy si ricompone, ringrazia il suo pubblico e ci saluta. Via ai titoli di coda. Il vero show parte solo dopo la conclusione di questi. Peccato che gran parte degli spettatori abbiano già cambiato canale. Divertente, no?


Ma Andy era anche quello che sfidava le donne a wrestling in diretta tv, sostenendo che nessuna di queste potesse battere un uomo (gag durata mesi, conclusasi in maniera drammatica [naturalmente era tutta finzione nella finzione]). O che si travestiva da Tony Clifton, il più scarso e irritante cantante da pianobar di tutta Las Vegas, per insultare i suoi complici infiltrati tra il pubblico (naturalmente nessuno sapeva niente, trovandosi nel mezzo di una situazione piuttosto sgradevole). Il titolo del post è forse la sua esclamazione più famosa.


La sua influenza è stata enorme, anche se nessuno lo vuole ammettere. Se oggi troviamo un sacco di roba più divertente dei vari tormentoni televisivi è anche merito suo. Ha insegnato al mondo cosa significhi ribaltare ogni prospettiva, come essere estremamente cerebrali apparendo stupidi e petulanti. A 25 anni dalla sua morte il socio di una vita non trova metodo migliore per commemorarlo che rendendo pubblici una serie di insulti e minacce di morte. Genio anche da morto.

giovedì 17 novembre 2011

Ecovengeance! Bugs di Barone & Babich (001 Edizioni/2011)



Bugs ha prima di tutto il grande merito di portare avanti un discorso profondo e stratificato impacchettandolo in una bella confezione da prodotto di genere. Pratica diffusa all’estero (in ogni ambito della narrativa) ma che non ha mai preso piede in maniera continuativa nel nostro territorio. Nelle nostre librerie possiamo trovare o minimalismo d’acchito, o giornalismo a fumetti, o evasione pura o… Tutte cose meravigliose e stimolanti, però di tanto in tanto sarebbe piacevole anche godere di qualche crossover tra filoni. Tanto per vedere che effetto fa. O per poter permettere a un autore di aprirci il suo mondo più intimo senza doverci sorbire per forza di cose i ricordi della sua infanzia. Gli esempi in passato non sono mancati (il più celebre penso sia il primissimo Dylan Dog) ma da un po’ di tempo a questa parte gli esperimenti latitavano.


In Bugs c’è un sacco di roba pescata dal copioso mare magnum della cultura pop. Ci sono le minacce entomologiche tipiche del b-movie, organizzazioni segrete e prescelti, le sincopi action del cinema noir nipponico, il controfinale da horror-comedy anni ’80 e un pugno di personaggi a metà tra Minoru Kawasaki e Quentin Tarantino. Tutto materiale succulento e croccante, apparentemente lontano da contaminazioni “alte” e cerebrali.


Barone e Babich approfittano della bagarre sollevata da questa sarabanda di suggestioni per andare un po’ più in profondità, parlandoci di cambiamenti ed evoluzione. Il tutto potrebbe essere visto come una sanguinolenta metafora del vecchio adagio “Si diventa sempre ciò che si odia”, riletto però in chiave politica e positivista (oppure, se proprio non volete accendere il cervello, fermatevi pure al livello ento-gastronomico). Il fatto che tra le pagine sia compresa una soluzione e non una cronaca del problema differenzia Bugs da tutti quei titoli basati su di un immaginario specchio dell’epoca in cui venivano creati. Pensiamo a un Hellblazer, fino ai più recenti DMZ o il sopraffine primo ciclo di Chew (la più geniale parodia/metafora dell’iper-igienismo, e relativa avversione per il ributtante, della nostra epoca). Tutte riletture di un presente, senza visioni sul domani. Qui invece si punta in alto, dirigendosi direttamente alla seconda tappa. I due autori sanno bene a che rischi vanno in contro e decidono (saggiamente) di stemperata l’atmosfera eliminando una divisione netta tra buoni e cattivi, virando al grottesco. Il finale aperto rende il tutto ulteriormente più leggero e, a conti fatti, un troppo insistere sull’attuale situazione sociopolitica avrebbe reso l’insieme pesante e fermo sui suoi passi (e dopo tutto si sta parlando di evoluzione/progressione, no?).


In questa prospettiva l’apporto di Babich è fondamentale, capace di dare al volume un appeal sospeso tra serie statunitense e il manga meno scontato. La fragorosa sequenza finale è un compendio del fumetto action negli ultimi anni. Il disegnatore aggiunge un’ulteriore incarto sfavillante attorno a un nucleo denso e un poco minaccioso. Il rischio di "fumetto impegnato dal peso specifico della ghisa" si perde in mille linee cinetiche e prospettive mirabolanti.


Peccato che tutto questo a volte tenda a ingolfarsi. Il flusso di riferimenti spesso infatti non procede con la fluidità che ci si aspetterebbe. Al posto di lanciare l’amo e lasciare che il lettore abbocchi all’esca, compiacendosi della ragnatela di collegamenti tessuta in fase di ideazione e dando fiducia a chi sta dall’altra parte della pagina, l’amo viene messo a forza sotto i riflettori. Il caso più eclatante è il grillo parlante che declama a gran voce, evidenziando in un bel giallo fosforescente l'imperdonabile spiegone, di essere una trovata meta testuale. In momenti come questi la dinamica della narrazione subisce un brutale stop, come se i vari ganci ad altre opere non fossero bene amalgamati a Bugs e necessitassero di una spintarella privilegiata.


Ma sono piccole imperfezioni, minuscole. Sbavature risolvibili con un semplice passaggio di carta abrasiva. Dopotutto, come già dimostrato da Ernest Cline, non è facile navigare nel fiume perennemente in piena dell’immaginario collettivo. Lo si deve conoscere tanto bene da lasciarlo fluire come meglio crede (anche perché frutto di una mente comunitaria, quindi superiore al singolo contributore), in caso contrario ogni costrizione risulta forzata.

martedì 15 novembre 2011

Gabriele Arruzzo e una proposta per il nuovo stemma della Repubblica Italiana



Gabriele Arruzzo entra di prepotenza nella top ten degli miei artisti italiani preferiti. Quello che vedete sopra è un quadro 180 x 180 cm (smalto e acrilico su tela) presentato alla scorsa Artissima. Il titolo è veramente quello in testa al post. Tanto per farvi capire con che tipino abbiamo a che fare (non carico nessuna foto dei suoi lavori così siete obbligati a spulciarveli voi. Mi ringrazierete).

lunedì 14 novembre 2011

Tette, nani & dittature: Machete Maidens Unleashed di Mark Hartley (US/2011)



Non mi nascondo dietro a un dito: Machete Maiden Unleashed mi ha lasciato con po’ di amaro in bocca. Non per la qualità del lavoro quanto per l’esigua quantità con cui si presenta. Pensare a un documentario sull’exploitation filippina (intesa sia come produzioni locali che come delocalizzazioni statunitensi) e limitare il tutto a un’oretta scarsa è una mossa sporca. Sopratutto per chi, come il sottoscritto e moltissimi altri spettatori, in quei montaggi di scene sgangherate e ridicolmente populiste ci si è tuffato di testa. In 54/55 minuti non c’è tempo per un discorso coerente e approfondito, e il tutto finisce per essere limitato a qualche siparietto simpatico dedicato a chi c’era (sul set o davanti allo schermo di qualche cinema off) e a sparuti parallelismi con gli eventi storici.


Tutto da buttare, quindi? Assolutamente no, perché Machete Maiden Unleashed ha dalla sua un grandissimo pregio. Tanto importante da rendere la visione obbligatoria e sollazzante per chiunque sia vagamente interessato all’ argomento.


Il documentario di Mark Hartley è di una sincerità spietata.


Nessun tentativo di valorizzare un cinema che di prezioso non ha proprio nulla. Nessuna arrampicata sugli specchi per cercare di spiegare l’importanza cripto femminista del filone women in prison (genere che mi sono sempre immaginato a lottare per il podio dell’exploitation con l’altrettanto sguaiato nasty nuns). Perché guardarsi Sesso in gabbia? Perché c’è una 22enne Pam Grier con le sue mirabolanti tette perennemente al vento, un sacco di sangue e situazioni ben oltre il limite del ridicolo. E come giustifichiamo Terrore sull’isola dell’amore? C’è un orrido mostro di latex che violenta bonazze con addosso i vestiti meno resistenti della storia. Dynamite Jonhson? Un versione nigga badass di Rambo, dove esplode tutto e c’è comunque tempo per qualche donnina nuda. For Your Height Only? Si parla di un remake di James Bond interpretato da un nano esperto di arti marziali, cosa vi occorre di più?


Come gran sacerdoti di tutto questo turbine di follia abbiamo Roger Corman, Joe Dante, Sid Haig, gran parte delle women in prison di prima (di cui alcune ancora bellissime) e un funambolico John Landis. Che capisce al volo il senso di tutta l’operazione e ci delizia con un paio di passaggi da cabaret d’alta scuola.


Il tono di tutto il lavoro è quello. Frizzante, scanzonato, nostalgico ma non troppo. Le rapide interviste sono intervallate da un sacco di scene (rimasterizzate e ricolorate da paura) dei film in questione. Per quanto ci si senta idioti, in più di un’occasione si ride di gusto o non si crede a quello che si sta vedendo (le tette di Pam Grier rientrano in questa categoria). Cosa che puntualmente non succede con tutte quelle produzioni che oggi come oggi vorrebbero percorrere nuovamente queste gloriose strade (ma cosa è exploitation oggi? Gli stunt-movie sud-est asiatici? I rimasugli di v-cinema nipponico? I film di Seagal girati in est Europa? Gli horror ironici imbastarditi con l'action?).


Alla fine, nonostante ci si arrivi troppo presto, ci si ritrova con la mancolista delle visioni un po’ più lunga (devo recuperare il prima possibile Ebony, Ivory & Jade e Firecracker), la riconferma che non si è i soli ad avere una serie di guilty pleasures cinematografiche al limite dell’imbarazzante e un ghigno ebete stampato sul volto. Sicuramente domani ci guarderemo il nuovo film di Sokurov, ma per oggi mi rispolvero la vhs di Lady Terminator. Colpa di Mark Hartley che mi tronca il divertimento sul più bello.

venerdì 11 novembre 2011

George Shaw candidato al Turner Prize








E riesce a entrare nella cinquina dei candidati dipingendo il quartiere di Coventry dove è cresciuto. Probabilmente uno dei 4/5 posti più tristi d'Inghilterra.


(Per la precisione l'opera in lizza è la seconda dall'alto. Molto bella ma non la mia preferita.)

giovedì 10 novembre 2011

L'ultimo gettone poi me ne vado: Player One di Ernest Cline (Edizioni ISBN/2011)





A una prima occhiata Player One non è che l’ennesimo romanzo basato sulla cultura geek. Tonnellate e tonnellate di citazioni anni ’80 adagiate precariamente su di un’intelaiatura piuttosto esile e banale. Eppure i motivi per cui l’acquisto da parte mia è stato inevitabile e compulsivo sono addirittura tre:


1- E’ pubblicato dalla ISBN Edizioni. Che saranno anche antipatici, snob e da salotto buono, però il loro lavoro lo sanno fare molto bene. E il fatto che pubblichino un libro di questo genere qualcosa deve pur significare (va bene, la Warner Bros. si è accaparrata i diritti di Player One a meno di 48 dalla sua pubblicazione, però non voglio pensare che si tratti solo di un investimento in questa prospettiva).


2- Matteo Bittanti ne parla benissimo e lo definisce “romanzo videoludico dell’anno”.


3- L’autore è Ernest Cline. L’uomo a cui dobbiamo quel gioiello di Fanboys. E per capire Player One dobbiamo per forza parlare dalla pellicola del 2008.


Fanboys partiva come la più bieca delle nerd-comedy di questa epoca nerd-centrica per poi svilupparsi in direzioni del tutto inaspettate. L’ironia tutta battutine e ammicchi lasciava ben presto spazio a un bildungsroman sentito e dai risvolti agrodolci (Seth Rogen fuori controllo escluso). Le citazioni e il fanboy-ismo diventavano lo scheletro su cui costruire un film toccante e realmente empatico con i suoi spettatori. La differenza con il resto delle produzioni indie a misura di hipster è semplice: prima di essere uno scrittore Ernest Cline è un vero talebano della cultura pop. E lo è da 39 anni, non dalla prima serie di Big Bang Theory. Tanto fanatico che i richiami metalinguistici per lui sono un automatismo incontrollabile. Se in uno qualsiasi dei film con Michael Cera l’ammicco è il motivo d’interesse di tante (troppe) scene, in Fanboys i ganci più intelligenti e sagaci sono relegati allo sfondo. Non a caso moltissimi sono andati persi con la traduzione in italiano. Dopotutto anche il più abile e colto dei traduttori non può conoscere a menadito ogni modo di dire o scelta lessicale legata all’immaginario delle ultime tre decadi. Cline evidentemente sì. Perché la sua non è un’infatuazione furba e disonesta. Il suo è vero amore. Di quello folle, incondizionato e pure un poco stupido.


Una volta chiariti questi punti sappiate che Player One è la stessa cosa, ma al cubo. Non è un romanzo che parla di videogiochi, giochi di ruolo o film per teenager anni ’80. E’ la versione cartacea di tutto questo. La sintassi, le scelte linguistiche, la costruzione narrativa. Ogni singola virgola di questo romanzo è mediata da uno di questi mondi. Per quanto vi possiate illudere di cogliere ogni possibile richiamo, probabilmente qualcosa vi sta sfuggendo. Come pensano i protagonisti, cosa gli succede attorno, le loro meccaniche sociali. Tutto deriva da altro. Anche se il target perfetto del romanzo sono over 30 colti e capaci di ricostruire la ragnatela di richiami testuali, le vicende del giovane Wade sono narrate con una prosa da young adult. La sensazione è di perdere 15 anni in un colpo solo, di vedere per la prima volta i Goonies o Explorers. Detto così sembra una palla mostruosa, ma in realtà c’è molto altro.


Nel futuro ricostruito da Cline la gente passa gran parte della sua vita in un mondo virtuale chiamato OASIS, costruito attorno all’immaginario di James Halliday, adolescente dei primi ’80, geniale programmatore di videogiochi e padre di questa nuova versione di Second Life (o WoW). Un bel giorno il megamiliardario muore e lascia tutti i suoi averi al primo che riuscirà a trovare l’easter egg nascosto nella sua creazione. Per riuscirci si dovranno superare una serie di prove ultranerd, a base di film recitati a memoria e partite perfette. Una sorta di Le 12 fatiche del piccolo grande mago dei videogames nella fabbrica di cioccolato.


Ci sarebbe da fare un discorso piuttosto profondo sullo scambio realtà finzione, anche a più livelli (pensate a Inception nell’immaginario piuttosto che nei sogni) e con spaventose analogie con la nostra realtà. Ci si potrebbe vedere anche una metafora non proprio consolante e accondiscendente del mondo geek. Ma non è quello il punto. Player One si legge alla velocità di un libro per ragazzi ma è filologicamente monumentale. Anche per chi non ha mai giocato una partita al coin-op sotto casa. La fusione tra fandom, narrazione e ricerca linguistica è perfetta. Le citazioni anni ’80 non sono una strizzata d’occhio al lettore appassionato di metanarrativa, ma una componente fondamentale dell’architettura di tutto il tomo. Se Ernest Cline non fosse realmente l’enciclopedia pop che millanta di essere avrebbe impiegato anni per scrivere le 600 pagine del suo romanzo d’esordio. Certe soluzioni e sfumature non nascono certo da un’infarinatura ottenuta con qualche click di Wikipedia, sono figlie della conoscenza e dal bagaglio culturale costruito in migliaia di ore perse tra fumetti, videogiochi, vhs e romanzi dalle copertine imbarazzanti.


E’ ironico come uno dei migliori lavori del filone post/meta/geek/… sia dato alle stampe in concomitanza con la conclusione di questa moda. Fosse uscito 5/6 anni fa sarebbe venerato come la Bibbia, mentre ora sarà etichettato come un’uscita tremendamente modaiola e dal fiato corto. Rimane comunque un documento di valore indiscutibile per poter capire, senza parodie o paternalismi, le meccaniche di uno stile di vita fin troppo familiare per alcuni e totalmente alieno per tutti gli altri.


lunedì 7 novembre 2011

Caro Miike, mi spiace tanto...





...questa volta mi sa che hai toppato alla grande. Al prossimo giro riprovaci con Wario Ware o Elite Beat Agents, che magari almeno quattro risate ce le facciamo tutti.





Seriamente, come si fa a pensare di trarre un film da un simulatore di avvocati per Nintendo DS?

venerdì 4 novembre 2011

[Lo stile che uccide] Parker vol.2: L' Organizzazione di Darwin Cooke



Nel corso degli ultimi anni il noir ha decisamente sofferto di iperesposizione ipervitaminizzata. Inutile meravigliarsi quindi se ogni ricorso a un classicismo scevro da eccessi pulp o riletture forzate venga accolto con un plebiscito da tutti gli amanti di questo genere. Basti l’esempio del Criminal di Brubaker, classico che più classico non si può. Eppure meraviglioso e premiatissimo.


In questo filone si va a infilare anche la serie di Parker, che però rispetto a tutti i suoi concorrenti ha qualcosa in più: tonnellate e tonnellate (e tonnellate) di stile. Che del noir sarebbe poi uno degli ingredienti principali. Se prendiamo i grandi classici del nero (quando ancora derivava dall’horror e non dal poliziesco, come pensano tutti) abbiamo fotografie stilizzate e inquadrature inusuali. Noi spettatori percepiamo il tutto come scelte di tipo artistico, ma in realtà si parlava di vincoli imposti dal budget. C’erano pochi soldi e ancor meno tempo, quindi ci si limitava a uno/due punti luce e movimenti di macchina minimi. Così imbrigliati si era costretti a inventarsi l’impossibile pur di mantenere alta l’attenzione dello spettatore.


Era la nascita di un’estetica che ben si sposava con i duri protagonisti di Hammett e Chandler. Più che logica la fusione con un tipo di linguaggio secco ed essenziale. Gente che si muove in sordidi mondi divisi tra lame di luce e pozzi di nero non poteva certo essere logorroica. E allora ecco che allo stile della messa in scena si univa anche quello della scrittura. Asciutta, efficace, arrogante nel non voler lasciar cadere neppure una parola. Con il passare degli anni questa filosofia è evoluta attorno al suo nocciolo, arrivando a un certi gialli e neri swingati degli anni ’60. Da Sciarada a Hitchcock passando per Seijun Suzuki, Jo Shishido e samurai parigini. Non è una caso che tutti questi esempi siano connotati da un’estetica diventata iconica e ben nota anche fuori dal circuito cinematografico. Personaggi ben vestiti (nonostante siano duri che a certe cose non prestano attenzione) con linee di dialogo argute e ficcanti sempre pronte sulla punta della lingua.


Torniamo ora a Parker. Sapete come si chiama l’absolute statunitense? Martini Edition.


Basterebbe segnalare questo meraviglioso, minuscolo, gratuito vezzo per recensire il volume. Come ho già detto Cooke è stile allo stato più cristallino. L’intera sezione centrale, in cui l’organizzazione messa in piedi dal protagonista attacca il sindacato mafioso, è un capolavoro indiscutibile. Arzigogolati piani criminosi vengono resi con uno stile a metà tra la strip e l’infografica, senza dimenticare suggestioni da romanzetto pulp e soluzioni grafiche degne di Saul Bass e Maurice Binder. Tutto scorre liscio come l’olio. Contenuto, linguaggio, fruizione. Anche il resto del volume è di livello vertiginoso, alternando spacconate più dure della roccia a un sottile senso dell’umorismo. Mai esplicito o in primo piano, eppure sempre presente e indispensabile per dare un retrogusto da speziato cocktail a ogni pagina.


Arrivati all’ultima pagina di questo tomo il Martini lo si vorrebbe sorseggiare, magari indossando un completo di sartoria e occhiali fumé. Tanto per avere l’illusione, almeno temporanea, di essere fichi quanto Parker.


Ultime note per l'edizione. Quella US non ho la minima idea di come sia. Quella nostrana (Edizioni BD) è, semplicemente, perfetta. 15 euro spesi che meglio non si può.

giovedì 3 novembre 2011

Ti ricordi i cabinati? La memoria nell'epoca post-Street Fighter



Curioso come da argomenti apparentemente frivoli ci sia sempre qualcuno ponto a trarre lavori profondi e ricchi di spunti. In questo caso si parla della chiusura delle sale giochi. L'artista Jon Rafman parte dalle sua memorie e gira Codes of Honor, un corto sospeso tra machinima, documentario e sampling di videogame. Nonostante la realizzazione tecnica non sia stratosferica la potenza è devastante. Anche perché partire da Street Fighter per finire a parlare di memoria e dissoluzione della società non è proprio da tutti. Qui un piccolo intervento dell'artista stesso sul video (che, tra le altre cose, riesce a fondere con assoluta nonchalance Blade Runner, Enter the Void e Southland Tales).

mercoledì 2 novembre 2011

[E finalmente ci sono arrivato pure io] Who are you?: Drive di Nicholas Winding Refn (US/2011)


A volte fa bene aspettare. Non farsi prendere dalla frenesia tipica della blogosfera e aspettare che le acque si siano calmate prima di parlare di un titolo che si stava aspettando da mesi con la bava alla bocca. In questo caso si parla del Drive di Nicholas Winding Refn. Finita la (sacrosanta) gara a chi urlava più forte “film dell’anno” e “io Refn lo seguo dal primo Pusher” rimane il tempo per qualche riflessione che rifugga dal solito meccanismo del giudizio, andando a indagare più in profondità.


Drive parte da una sceneggiatura banale, lineare e che in mani sbagliate avrebbe finito per assomigliare all’ennesimo clone della saga Fast & Furious (come doveva effettivamente essere). Fortunatamente dietro alla macchina presa il protagonista Ryan Gosling ha imposto un autore e non un mestierante. Un bell’azzardo, soprattutto in un momento non proprio roseo per Hollywood. Il risultato è al di là di ogni aspettativa: Drive è il miglior film di Michael Mann non diretto da Michael Mann. Un Miami Vice miniaturizzato ed esplicitato.


Una volta terminata la visione del’ultimo lavoro di Refn la sensazione è la stessa di quando siamo usciti dal cinema dopo aver seguito la nuova indagine di Rico e Sonny: abbiamo assistito a un classico istantaneo. Un film troppo enorme per essere metabolizzato alla prima visione, incapace di scivolare via senza lasciare tracce profonde. Destinato a essere percepito come se ci fosse sempre stato, permeando dall’epidermide e arrivando direttamente alla nostra memoria. Questo perché i due cineasti hanno nascosto la vera narrazione tra i solchi di un plot/vettore che più dritto non si può. La sceneggiatura scorre inesorabile, trascinando con sé i suoi protagonisti. Non è un caso che in Collateral, Miami Vice e Drive il tema comune sia lo spostamento. Su di un taxi, un macchina truccata o qualsiasi mezzo abbia un motore (in MV si passa dalla Ferrrari all’off-shore passando per monomotori e mercantili). Spostamento che è a sua volta metafora di una ricerca dell’identità e di una fluidificazione del nostro essere, sempre più votato alla trasformazione perenne (Bauman docet).


Chi si lamenta che la trasposizione cinematografica del telefilm simbolo degli anni ’80 ha una sceneggiatura da post-it dimostra, per usare un eufemismo, di non averci capito un cazzo. Perché la vera narrazione è tutta negli sguardi di Colin Farrell persi all’orizzonte, nei temporali perennemente sullo sfondo (neanche il clima ha un’identità precisa) e in Gong Li che chiede al suo amante dalla doppia vita, in mezzo a una sparatoria da annali e a mezza voce, “Who are you?” (e, non a caso, Who are you? è anche il titolo del tema musicale del film). Tutto il teatrino di narcotrafficanti, tonnellate di cocaina e mojito a Cuba sono i cavalli di un motore sempre su di giri, tirato al limite lungo un’autostrada illuminata dalle prime luci dell’alba.


Refn capisce tutto questo e lo vota al b-movie. Come in Mann la musica ha ruolo di protagonista, sia il malinconico e minimale tappeto sonoro tessuto da Badalamenti (o Cliff Martinez?) che le sparate synth pop ottantiane. Vediamo una cosa ma avvertiamo che sotto c’è molto di più. Siamo all’exploitation di quanto fatto dal regista di Nemico Pubblico. Come Tubbs e Crockett anche l’identità del driver (privo di nome proprio, quindi di identificazione) muta in continuazione. Ragazzotto teneramente impacciato, glaciale professionista, vittima degli eventi e implacabile vendicatore. Tutto nello stesso pacchetto. Quando la sua amata va a bussare (invano) un’ultima volta alla sua porta è facile immaginarsi le parole che gli avrebbe voluto rivolgere: “Who are you?”.


Un film anni ’80 girato in un digitale cristallino (come la Los Angeles notturna di Collateral), un noir ultraviolento che gioca con un romanticismo (magnificamente) scontato e stopposo. Il perfetto seguito spirituale di una pellicola considerata in egual misura capolavoro d’autore e blockbuster inconcludente. Tutta la furbizia del danese sta nell’aver scoperchiato questi sottili paradossi, facendoli diventare il maggiore motivo d’interesse di tutta l’operazione. E allora eccoci arrivati alla scena dell’ascensore (guarda caso un altro mezzo di trasporto), frammento di cinema destinato a rimanere incastonato nei nostri occhi per decenni. Impossibile non avere un tuffo al cuore durante quei pochi minuti di vertiginoso alternarsi di kitsch/sublime/poesia/furbizia/arte/epica. Tutto Drive è li dentro. E nelle macchie di sangue sul bomber in satin champagne del protagonista.


martedì 1 novembre 2011

Han Solo shot first! The People vs George Lucas di Alexandre O. Philippe (US/2011)



Il primo post post-Lucca non poteva che essere 100% nerd. Mi sembra un modo carino per ringraziare tutti quelli che sono passati a trovarmi allo stand Passenger Press (in particolare il fenomenale Paolo). Mi stupisco sempre di quanto queste paginette siano apprezzate e non posso che ringraziare commosso per tutta la fiducia che avete in me. Ora, finiti i dovuti convenevoli, partiamo con la recensione.


Se esiste un’opera simbolo della cultura pop questa non può essere che la trilogia originale di Star Wars. In tutta la produzione moderna e contemporanea (cinematografica, fumettistica, narrativa o videoludica) non esiste qualcosa che sia stato altrettanto amato e integrato in maniera così organica (e capillare) nell’immaginario collettivo. Prendete 24 ore di programmazione televisiva a caso. Ci troverete almeno una mezza dozzina di riferimenti alla space opera di George Lucas. E nessuno di questi richiami avrà un carattere puramente canzonatorio o parodistico, come invece avviene quando si tirano in ballo kolossal alla LOTR o Avatar. Alla stessa maniera non esiste titolo cinematografico che possa vantare un numero così folle di rifacimenti e spin-off a opera dei fan. Per quanto Lucas non ci voglia credere e si opponga a ogni modo a questo fatto è inequivocabile che Guerre Stellari sia patrimonio comune. E proprio da questo presupposto parte The People vs George Lucas.


Il fattaccio che da il via al tutto è la scelta del regista statunitense di eliminare definitivamente le versioni originali dei suoi film, tutto a favore delle extended cut. Come tutti ben sapranno il problema non sono i 4 x-wing aggiunti in digitale o la ridicola comparsata di Jabba the Hut, ma la presenza di nuove scene che stravolgono il senso dell’opera. Si parla naturalmente dello scontro Han Solo / Greedo e dell’urlo di dolore di Darth Vader. Se nel 1977 Han era un farabutto privo di scrupoli e Dart Fener un burattino senza sentimenti, nel 1997 diventano un pilota che si deve difendere a ogni costo e un padre dilaniato per la perdita del figlio. Capite da soli quanto questo cambi le carte in tavola. E quanto sia irritante che a portare avanti questa farsa sia un regista noto per le sue crociate contro la ri-colorazione dei vecchi film in bianco e nero.


Il documentario di Alexandre O. Philippe si presenta come una lunga serie di interviste ad appassionati, geek e addetti ai lavori. Tutto intervallato da microspezzoni tratti dai famosi rifacimenti a opera dei fan della saga. Come al solito quando si parla di Luke Skywalker e compagnia l’attenzione non è rivolta veramente ai fatti, ma più che altro alla carica emotiva trasmessa da questa pellicola ai suoi spettatori. Vedere per l’ennesima volta persona adulte (apparentemente prive di turbe sociali) ammettere che la trilogia originale è uno dei mattoni (se non IL mattone) su cui hanno costruito tutta la loro vita emoziona sempre e ci fa riflettere su quanto l’immaginario collettivo agisca su di noi. Ai quattro angoli del globo il percorso è bene o male uguale per tutti: si vede Una nuova speranza da bambini, si incominciano a leggere libri fantastici, si passa ai fumetti e intanto si continuano a divorare pellicole. Senza dimenticare giochi di ruolo, videogiochi e tutte le altre propaggini dell’intrattenimento di matrice fantasy o sci-fi. Su cento persone che leggeranno questa recensione non esagero se dico che almeno 95 rispecchieranno questo iter. E proprio per questo tutto il fandom mondiale ha ancora fiducia in George Lucas. Nonostante abbia speculato per anni sulla nostra passione, nonostante sia un regista mediocre, nonostante non abbia mai imparato a gestire la pressione (molto toccante il contributo da parte di Coppola su questo argomento). E questo amore lo si vede soprattutto dalle parodie, che non sono mai fini a se stesse ma denotano una conoscenza maniacale di un universo fittizio in costante espansione. Come si diceva sopra, non troverete mai una presa in giro di Star Wars veramente velenosa o pericolosa. Sono tanti buffetti, provocazioni da spogliatoio lanciate a un vecchio amico che si conosce fin troppo bene.


E allora cosa rimane di questo epocale scontro tra il re Mida degli effetti speciali e il suo popolo di fanatici? Una bella lettera d’amore travestita da ottimo documentario. Divertente, ritmato e sentito quanto basta per giustificare tutti i soldi che abbiamo speso per riempire quella libreria carica di fumetti alle nostre spalle (perché, puntualmente, ogni volta che si parla di Star Wars l’orgoglio nerd ribolle nelle vene). E chi se ne frega se Jar Jar e l’ultimo Indiana Jones (poteva non essere citato?) sono crimini contro tutti noi.