Johnnie To è uno con la media di almeno un film epocale ogni quattro/cinque opere regolari. A questa considerazione se ne devono aggiungere ancora due: il fatto che lui di film ne gira almeno due all’anno e che anche la più piccola delle tappe d’intermezzo è in ogni caso da ricordare tra i film della stagione. Adesso possiamo passare a parlare di Mad Detective, diretta a quattro mani con l’amico fraterno Wai Ka Fai (un folle che ha nel suo carniere perle come Peace Hotel e Too Many Ways To Be Number One) e pellicola orgogliosamente appartenente alla categoria “film minori”.
Bun (un ritrovato Ching Wan Lau) è un ispettore di polizia dotato di un particolare dono: non vede le persone come appaiono nel mondo fisico ma ne scorge le fattezze interiori. Ai suoi occhi un poliziotto duro e integerrimo può quindi apparire come un debole bambinetto petulante, un gelido collega può apparire come un intero gruppo di persone e quello ipocrita come una snervante donna dalla voce fin troppo acuta e squillante. Durante i novanta minuti di pellicola il nostro protagonista dovrà sfruttare al massimo questo suo dono per risolvere il mistero di un poliziotto scomparso diciotto mesi prima.
Il fatto che ad accompagnare il nostro fido To ci sia uno sceneggiatore a cinque stelle fa capire come il film sia poco cuore e tanto cervello, ponendo sul piatto una vicenda complicata e confusa in cui tutto finisce irrimediabilmente (e cinicamente) per tornare al suo posto giusto. I virtuosismi registici si affievoliscono, andando a favorire una messa in scena cristallina e fortemente descrittiva, scelta indispensabile (e più coraggiosa di quello che sembra) per non confondere ulteriormente le carte in tavola. Il clima è divertito e i due cineasti dell’ex colonia inglese si divertono a sfidare lo spettatore mettendo sul piatto citazioni su citazioni di classici del noir americano, incastri di scrittura fragilissimi, preziosismi nascosti e personaggi che cambiano faccia in continuazione. Nulla è come sembra e la soglia dell’attenzione è costretta a rimanere alta dal primo all’ultimo (nerissimo) minuto. Siamo chiaramente dalle parti del divertissement, esattamente come nel caso di Triangle, ma qui non c’è nulla da dimostrare, manca completamente l’atmosfera da sfida guascona che animava il precedente esperimento. Ecco che tutto si fa più sottile, pur non negando la sua presenza: c’è il tema del destino (che si manifesta ancora con una pistola persa da un agente in servizio), le sparatorie (anche se fatte con la bocca e due dita tese) e (soprattutto) le psicologie dei personaggi, da sempre marchio di fabbrica del nostro Giovanni d’oriente, ma mai esplicitato in maniera così chiara fino a ora. Se prima erano piccole sequenze apparentemente insignificanti (la scena delle palline di carta di The Mission è ormai leggenda) a descrivere e sviscerare i fantasmi di luce che si muovono sul grande schermo ora tutto il film si plasma su questo aspetto della narrazione.
Bun (un ritrovato Ching Wan Lau) è un ispettore di polizia dotato di un particolare dono: non vede le persone come appaiono nel mondo fisico ma ne scorge le fattezze interiori. Ai suoi occhi un poliziotto duro e integerrimo può quindi apparire come un debole bambinetto petulante, un gelido collega può apparire come un intero gruppo di persone e quello ipocrita come una snervante donna dalla voce fin troppo acuta e squillante. Durante i novanta minuti di pellicola il nostro protagonista dovrà sfruttare al massimo questo suo dono per risolvere il mistero di un poliziotto scomparso diciotto mesi prima.
Il fatto che ad accompagnare il nostro fido To ci sia uno sceneggiatore a cinque stelle fa capire come il film sia poco cuore e tanto cervello, ponendo sul piatto una vicenda complicata e confusa in cui tutto finisce irrimediabilmente (e cinicamente) per tornare al suo posto giusto. I virtuosismi registici si affievoliscono, andando a favorire una messa in scena cristallina e fortemente descrittiva, scelta indispensabile (e più coraggiosa di quello che sembra) per non confondere ulteriormente le carte in tavola. Il clima è divertito e i due cineasti dell’ex colonia inglese si divertono a sfidare lo spettatore mettendo sul piatto citazioni su citazioni di classici del noir americano, incastri di scrittura fragilissimi, preziosismi nascosti e personaggi che cambiano faccia in continuazione. Nulla è come sembra e la soglia dell’attenzione è costretta a rimanere alta dal primo all’ultimo (nerissimo) minuto. Siamo chiaramente dalle parti del divertissement, esattamente come nel caso di Triangle, ma qui non c’è nulla da dimostrare, manca completamente l’atmosfera da sfida guascona che animava il precedente esperimento. Ecco che tutto si fa più sottile, pur non negando la sua presenza: c’è il tema del destino (che si manifesta ancora con una pistola persa da un agente in servizio), le sparatorie (anche se fatte con la bocca e due dita tese) e (soprattutto) le psicologie dei personaggi, da sempre marchio di fabbrica del nostro Giovanni d’oriente, ma mai esplicitato in maniera così chiara fino a ora. Se prima erano piccole sequenze apparentemente insignificanti (la scena delle palline di carta di The Mission è ormai leggenda) a descrivere e sviscerare i fantasmi di luce che si muovono sul grande schermo ora tutto il film si plasma su questo aspetto della narrazione.
Inutile perdere tempo commentando il comparto tecnico di un film Milkyway Image, stellare di nome e di fatto.
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