sabato 30 maggio 2009

Come non prendere per il culo il lettore e scrivere un capolavoro

Da pochi giorni è stato pubblicato anche in Italia l'ultimo tomo della serie MAX scritta dall'irlandese Garth Ennis. Una bomba (tutta la run) per cui vale la pena spendere qualche minuto.



Parliamoci chiaramente: Garth era partito con il piede sbagliato. Dopo l’ottimo story arc d’avvio (dove Frank si trovava a fronteggiare la famiglia Gnucci) lo sbadiglio non si celava che dietro l’angolo. Humor nero, frasi a effetto, cadute nel grottesco e troppa autoreferenzialità. Il Punitore tornava ad essere quello che tutti temevano potesse tornare a essere: un fumetto dove un vigilante uccide i criminali con armi sempre più grosse. Nessun tipo di carica eversiva, nessuna reale pericolosità. Poi venne la serie Max e il Nostro irlandese si rese conto che NON prendere per il culo il lettore è la strategia che paga meglio.



The Punisher MAX è un capolavoro del fumetto moderno. Fumetto d’autore, tra l’altro. Poco importa se Ennis scrive e basta, il suo è un universo così compatto e ratificato da meritarsi l’alloro dell’autorialità a prescindere dal medium (fumetto seriale) e dalla sua posizione di sceneggiatore. Non riconoscergli questo status in virtù della sua natura di genere significherebbe svilire il lavoro di Maestri riconosciuti come Don Siegel o Sam Peckinpah, tanto per fare il nome di due dei numi tutelari dell’autore di Preacher e Hitman. Chiarito questo analizziamone i punti principali, mettendo in evidenza come la scelta di pretendere attenzione da parte del lettore si sia rivelata, ancora una volta, vincente.



Il primo aspetto che merita menzione è la costruzione del personaggio: Frank è vecchio. Sulla sessantina. In un universo popolato da tardo adolescenti che non invecchiano mai e da super maggiorate antigravità non è una cosa da poco. La scelta del realismo viene portata fino in fondo, consegnandoci un antieroe che ha passato i suoi anni migliori. La guerra del Vietnam rimane la guerra del Vietnam, non si aggiorna tirando in ballo Desert Storm o missioni in Afghanistan. Questo peserà non poco su molti dei temi di tutta la run. Così abbiamo un personaggio decisamente poco accattivante (non esiste il fascino del bello e maledetto) che si muove in un contesto riconducibile senza dubbio alla nostra realtà. Qui il secondo sforzo richiesto al lettore: essere informati sugli ultimi trent’anni di storia moderna rende la lettura di questo fumetto qualcosa di decisamente diverso da fruirne da totali sprovveduti. Garth Ennis decide poi di spingere ulteriormente sull’acceleratore costruendo un complesso mosaico di personaggi ed eventi finzionali all’interno della nostra complessa VERA storia.



La gestione Ennis si potrebbe bene o male dividere in due filoni: quello malavitoso e quello delle storie di guerra (con alcuni casi di crossover tematico, tipo Gli Schiavisti). In entrambi i casi gli eventi non si susseguono casualmente, ma procedono come se si trattasse di un’unica grande storia. Anche qui si gioca sporco: tra le pagine del Punitore non troverete nessun tipo di riassunto. I collegamenti devono essere afferrati nel giro di qualche riga di dialogo, penalizzando così il lettore occasionale e costringendo l’aficionado a un lavoro mentale non indifferente. L’impressione è quella di essere spettatori di qualcosa di più grande di noi, con risultati opprimenti e claustrofobici.



Ultimo punto: la gestione della politica. Troppo facile spegnere il cervello e proclamare ai quattro venti che il Punitore è di destra. O antiamericano. O guerrafondaio. L’antiretorica dominante non permette battute machiste o esagerazioni alla Millar. L’attenzione si sposta sull’uomo e sulla sua moralità in guerra. Sul soldato come individuo tradito dalle stesse istituzioni che lotta per difendere dagli invasori del caso. Il pericolo di una serie troppo fallocentrica o eccessivamente virile è ovviato dall’amarezza che ne permea ogni pagina (con l’eccezione della macchietta comica Barracuda). Questo è l’aspetto in cui Ennis da il meglio, eliminando ogni tipo di didascalismo o semplificazione, rendendo il suo Punitore l’antitesi di quello che ci sarebbe aspettati. Sembrerà incredibile ma Frank Castle fa riflettere. Sulla vita, sulla morte, sul rispetto e sul nostro mondo. Impossibile adagiarsi sugli allori, per capire a fondo questo personaggio dovrete accendere il cervello.



In poche parole: se cercate pornografia action questa non è la vostra serie. Da non mancare invece se tra i vostri film preferiti mettete senza problemi La croce di ferro e L'inferno è per gli eroi.

Jan Kempenaers e la memoria del paesaggio




Quelli che vedete sopra non sono fotomontaggi o simulazioni 3d. Sono monumenti del regime comunista disseminati per il territorio della Jugoslavia. Tracce di una memoria passata trattenute e consegnate ai posteri dal territorio. Proprio su questo concetto si basa tutta la nuova serie del fotografo belga Jan Kempenaers.

mercoledì 27 maggio 2009

La notte oscura dell'industria musicale

La storia è questa: Danger Mouse è un produttore decisamente quotato (Gorillaz, Gnarls Barkley, Beck). Danger Mouse consegna alla EMI il suo nuovo disco, pieno zeppo di ospiti del calibro di Pixies, The Flaming Lips e Iggy Pop. La EMI si inventa mille scuse e non permette al povero Danger Mouse di vendere il suo disco. Allora Danger Mouse decide di prendere il toro per le corna e chiama il suo amico David Lynch.



"Ciao, David. Mi dovresti fare un favore: studiami un packaging fighissimo per il mio nuovo disco".



David Lynch gli consegna un book fotografico di 100 pagine e un poster inedito. Danger Mouse impacchetta tutto e ci ficca in mezzo un bel cd vergine. Poi lo vende sul suo sito. Esatto, vende un cd vuoto. Sicuro del fatto che i suoi fan riusciranno in qualche modo a riempirlo (parole sue). Alla faccia della EMI.




martedì 26 maggio 2009

Antichrist di Lars Von Trier: l'autorialità del supplizio

Nessun tipo di umorismo. Nessuna citazione cult (a meno che non consideriate cult Tarkovskij). Nessuna concessione a un’estetica vintage o riconducibile al pop. Nessuna cazzata sovrannaturale. Fortunatamente non ci sono neppure segnali del famigerato Dogma95. Quello che rimane dopo un tale processo di spoliazione è uno dei più riusciti lavori del danese Lars Von Trier e, senza dubbio, il miglior horror occidentale da molti anni a questa parte.



Prima di tutto Antichrist recupera quell’affastellarsi di letture e significati che, prima del cannibalismo degli ultimi 15 anni, da sempre contraddistingue il cinema della paura. Lars Von Trier ci consegna un film d’autore travestito da film di genere, o viceversa. Non occorre che si stia a parlare del vero significato della pellicola e dei suoi temi. Allo spettatore smaliziato, e quindi spettatore medio di certo cinema, la parabola sul senso di colpa apparirà chiara ed esplicita. Quello che colpisce è il rifiuto da parte di molti fruitori di definire Antichrist un horror proprio in virtù della sua complessità e profondità, segno di quanto questo genere sia stato svilito nelle ultime stagioni. Destino comune anche al suo fratello minore, quel noir che ora pare unicamente territorio per investigatori falsamente anti convenzionali e scaramucce di provincia.



L’ultimo parto del regista di Dogville è un film sgradevole, privo di ritmo e dall’atmosfera malsana. Ma anche raffinatissimo, ricercato e di una bellezza formale spiazzante. Capace di trarre ispirazione tanto dalla videoarte (il tempo congelato di Bill Viola) quando dal linguaggio della pubblicità (la campagna pubblicitaria per PS2 a opera di David Lynch), Antichrist non concede nulla al caso. Il disperato erotismo dei primi strazianti minuti (infamante definire pornografia un segmento di cinema solo in virtù di una penetrazione esplicita), la violenza antiestetizzante del finale apocalittico, le allucinazioni arcane: tutto è dipinto con pennellate plumbee e senza vita. Impianto sonoro da pugno allo stomaco, sia per i pochissimi minuti musicati (prologo e epilogo) che per il reparto rumorista.



Opera falsamente esoterica, risulta invece visceralmente legata al corpo e alla sua fisicità terrena. Così anche il grandguignol passa da ciarpame torture porn a metafora funzionale alla narrazione. Le scene incriminate dal pubblico di Cannes (infibulazioni a pieno schermo, eiaculazioni di sangue) sono la cosa più lontana che si possa immaginare dalla sterile provocazione di un Eli Roth qualsiasi. Ogni atrocità ha un suo perché, riesce a essere contestualizzata e non potrebbe essere altrimenti, rendendo cosi il lungometraggio incensurabile. A meno che non se ne desideri snaturare il messaggio e il nucleo. Dura poter dire qualcosa di simile di un Saw a caso.



Antichrist non piacerà all’amante del cinema di genere, così come scontenterà chi frequenta i cinema d’essai. Perfetto.

lunedì 25 maggio 2009

Anthropodino di Ernesto Neto




Nuova installazione per il brasiliano Ernesto Neto. Posizionata nella cosidetta Park Avenue Armory di New York, secondo le intenzioni dovrebbe essere il primo passo verso la conversione del vecchio stabile a qualcosa di simile all'enorme ingresso della Tate Modern di Londra. In qualunque caso il buon Ernesto continua a non sbagliare un colpo, fin dal suo debutto internazionale alla Biennale veneziana del 2001.

Dynamite Warrior in dvd! in Italia!





Con Chocolate il miglior film di arti marziali prodotto in Thailandia (ho scritto film, avete visto? Non è un caso che Tony Jaa non sia coinvolto!). Finalmente fuori anche in Italia. Un folle guazzabuglio di spaghetti western, fantasy e mazzate. Un mare di mazzate, per la precisione.

sabato 23 maggio 2009

Iron Fist, difensore del post moderno

Iron Fist rappresenta qualcosa di più di un fumetto di arti marziali. Iron Fist è l’ultima spiaggia del post moderno a fumetti, l’ultimo baluardo di una tendenza che pare destinata a morire soffocata dai suoi stessi punti cardine. Al di là della storia e dei meccanismi narrativi (funzionali e ben oliati, come ci aspetterebbe da un narratore abile come Brubaker) è la costruzione dell’immaginario a colpire e a far riflettere. Iron Fist è un fumetto leggero, scorrevole e che vive di cultura pop senza per questo vertere unicamente su citazioni, allusioni, dialoghi fiume o svisate meta narrative. Questo perché le avventure di Daniel Randal sono talmente immerse in quel continuum viscoso conosciuto come immaginario collettivo da perdere ogni connotazione ben definibile, assumendo cosi lo status di "senza tempo." Il team creativo dietro a questa serie (buona parte della riuscita va data anche al maniacale studio degli outfit da parte di David Aja) riesce a tessere una tela ricca di particolari che tutti conosciamo a menadito, impregnandoli al contempo di un feeling talmente moderno e “cool” (passatemi il termine, ma non esiste parola più giusta) da renderli qualcosa di mai visto. Ogni numero costruisce tutto il suo fascino sulla capacità di far convivere contrapposizioni clamorose, rendendolo incapace di invecchiare in qualche nicchia. Iron Fist fornisce al lettore un pacchetto più che fantasioso (città celesti, un Hydra sempre più vicina agli eccessi della Spectre, dragoni, tornei alla Morta Kombat) ma mantiene comunque un feeling urbano e stradaiolo, si basa su un fumetto spiccatamente anni ’70, prende spunto dal pulp degli anni ’40 ma è narrata e disegnata in uno stile moderno e ficcante. E’ totalmente devota all’intrattenimento ma è priva di ogni tipo di ironia, è basata sulle arti marziali ma richiede attenzione per poterne seguire la trama. Un equilibrio precario e difficilissimo da mantenere, ancora più affinato di quanto fatto da Grant Morrison durante la sua run di Batman. Così finisci per vederci di tutto, dalle sortite americane di Bruce Lee ai gongfupian di HK, senza che questi vengano neppure lontanamente chiamati in causa. Che fosse questo il fine ultimo del postmoderno , piuttosto che lo sterile giochino a chi tira in ballo il cult movie più nascosto (o il blockbuster più sopravvalutato da sua maestà nostalgia canaglia)?

venerdì 22 maggio 2009

Cercasi disperatamente: Emigre 29 (1994)



Mi vanno bene anche le scansioni. Qualunque cosa. Se avete il numero originale sono disposto ad arrivare anche a cifre abbastanza nerd. Ma devo sfogliare almeno una volta il numero di Emigre dedicato a quei geni di The Designers Republic. Grazie!

Il team up che non ti aspetti

Christian Passenger + Dr. Pira. Direttamente da Napoli per difenderci dal male. O almeno questo è quello che vogliono farci credere... Qui il resto del report.

mercoledì 20 maggio 2009

[ma quanto lo aspetto?] Eclipse Series 17: Nikkatsu Noir

Vi ho mai detto quanto voglio bene ai ragazzi della Criterion? Se amate il jappo noir del ventennio '50/'70 quanto lo amo io, allora questo è l'indirizzo su cui cliccare. Suzuki, Nomura, Masuda,... tutti nello stesso, stilosissimo (e ci mancherebbe altro) box. Quanto manca al 25 agosto?

Motivi per cui la carta stampata non morirà mai: File Magazine

Mentre i grandi continuano a piangersi addosso dal basso qualcosa si muove. Si parla di crisi dell’editoria, di Internet come freddo esecutore di ogni tipo di medium, di avanzata del grande nulla gratuito. E allora perché non offrire qualcosa che abbia valori impossibili da clonare e diffondere attraverso muletti e torrenti? Prendiamo per esempio questo File Magazine, nuovo progetto made in London da parte del milanese Fabio Sebastianelli (già dietro Specialten Magazine).



56 pagine formato tabloid, stampate su carta da giornale e racchiuse in una copertina dalla grammatura più che considerevole (immaginatevi un quotidiano con la copertina rigida). Layout e scelta delle immagini tra il minimal e il magazine d’arte, battendo una strada già aperta dal mitico Acne Paper svedese (pubblicazione di culto, edita dall’omonimo brand). All’interno ci trovi un dvd (con più di due ore tra corti, video musicali e interviste) e una stampa a tiratura limitata, ospitata in un’elegante tasca, disegnata in esclusiva da Geoff McFetridge. Direi che per poco più di 10 euro non è affatto male, considerando la bassa tiratura e la ricercatezza degli argomenti trattati.



Perché anche come contenuti siamo anni luce da quello che ci si ritroverebbe a scaricare dopo una pigra navigazione sulla rete: a parte un pugno di stoccate tra l’arty e la fuffa legalizzata (ma che vi faranno impazzire se vi piace l'elettro pop dal sapore vintage, genere che io detesto), la qualità dei contributi è indiscutibile. Con impennate quando il tema si fa struggente. Così è impossibile non commuoversi mentre sullo schermo passano le storie (vere) di Jim Lee, barbone senza identità, o del più grande collezionista di dischi a livello mondiale. Condannato a morire per una malattia troppo costosa per le sue tasche e costretto a cedere, vanamente visto che nessuno pare interessato, il suo archivio (valore stimato: oltre i 50.000.000 di dollari) per meno di tre milioni. Senza dimenticare le storie puramente di fiction, come l’amara favola provinciale September o la dolcezza delle note dei Cinematic Orchestra (Ninja Tune Records). Interessantissimo anche il dietro le quinte dell’artwork per il nuovo album di Flying Lotus (Warp Record, mica pizza e fichi).



Sentite puzza di snob lontano un chilometro? Molto facile, ma il punto non è quello.



Il punctum di questo articolo sono una serie di domande che mi assillano ogni volta entro in contatto con una pubblicazione come questa. Perché se prendo una delle qualsiasi proposte editoriali delle case editrici “major” tutte queste cose fighe me le posso sognare? Perché il packaging di un prodotto è considerato ancora un fattore di secondo piano? Perché il layout sembra puntare sempre alla quantità? Perché il medium non diventa parte del messaggio in senso positivo? Perché devo sempre trovare tutto diviso in alto/basso, genere/autore, monnezza/arte? Perché la multimedialità (anche di contenuti) non è mai presa in considerazione?



Perché a queste cose ci arrivo io e non gente pagata per farlo?

martedì 19 maggio 2009

Motociclette, cocaina e il Passeggero









Dopo una corroborante giornata d'ufficio è arrivato il momento di dedicarsi al Passeggero. E per caricarsi cosa c'è di meglio di un bel pò di rock zozzo ("motociclette e cocaina" si riferisce agli Zeke, l'unica band della storia a costruire un'intera discografia intorno a questi due argomenti) e di qualche anteprima succulenta? Ecco i contributi di Chelsea Lewyta e Jared Nickerson.


lunedì 18 maggio 2009

giovedì 14 maggio 2009

Pausa!

Nei prossimi giorni il blog non sarà aggiornato perchè il sottoscritto se ne va in Svezia a godersela. Vi saluto proprio con il trailer di uno dei cult obbligatori del cinema svedese: Thriller - a cruel picture di Bo Arne Vibenius. Spiacente ma il filmato è relativo alla versione americana, rimontata senza le scene hard core. Voi recuperate quella vera che ne vale la pena. Ci si legge!




mercoledì 13 maggio 2009

Seagalogy: A Study of the Ass-Kicking Films of Steven Seagal di Vern (Titan Books/2008)

Che cosa rende un libro di critica cinematografica un GRANDE libro di critica cinematografica? Prima di tutto, condicio sine qua non, conoscenza seria e approfondita del materiale di partenza (fattore non del tutto scontato). Da questo dovrebbe derivare una tesi e una serie di argomentazioni utili a bloccarne ogni tipo di confutazione. A questo punto ci si deve munire di capacità linguistiche tali da permetterci di esprimere le nostre idee in maniera non fraintendibile. Tutto senza dimenticare il motore primo di questo tipo di opere: un amore viscerale per il medium dalle immagini in movimento. E, credeteci o meno, Seagalogy ha tutto questo. E forse qualcosa di più.



Vern ci consegna un tomo dal peso non indifferente, dove la carriera di Steven Seagal viene divisa in tre grosse stagioni e anche il più scrauso dei suoi film finisce per meritarsi un pugno di paginette. Un trattamento che restituisce dignità a tutta una serie di prodotti etichettabili sicuramente come serie B (non stiamo ad arrampicarci sugli specchi), ma non per questo passibili di snobismo o superficialità. Contrariamente a quello che ci si aspetta, questo Study of the Ass-Kicking Films of Steven Seagal non è un libro comico, ne tantomeno un trattato costruito su prese in giro nei confronti dell’ex istruttore di aikido. Eppure durante la lettura vi ritroverete a rotolare dalla sedia più di una volta, con le lacrime agli occhi e questo capolavoro stretto tra le dita. Tutto senza che questo vada a scalfire minimamente il valore dell’analisi portata avanti da Vern. Perché, come nei libri seri, anche in questo ci sono i confronti tra copione e filmato, le dissezioni dei primissimi script e la ricerca di affinità tra le varie sortite di Steven. Dannatamente serio, minuzioso, certosino. E altrettanto divertente. L’autore riesce a dribblare con eleganza il rischio dell’umorismo da nerd (quella variante di comicità tanto supponente e saccente quanto perfetta nel descrivere l’inetto di Svevo), evitando pure di cadere nella trappola della mediocrità a buon mercato. Esilaranti le ricerche sulla figura del barista nella filmografia di Steven (con il grande mistero legato proprio al suo debutto Nico, dove il barman continua a comparire nei momenti più inaspettati e nei titoli di coda viene definitivo come “CIA barman”) o i continui confronti con gli altri action hero del periodo (vi siete mai immaginati Van Damme fermarsi ad ammirare un cavallo selvaggio? No. Bruce Willis? Nemmeno. Interessante come Vern faccia notare che l’unico attore extra Seagal a potersi permettere tale manifestazione di sensibilità animalista sia Tony Jaa. Se al posto di un cavallo ci fosse un elefante).



Lungo le 350 pagine di questo manifesto ci si prende anche la briga di dare una definizione al cosiddetto kick ass movie, genere prediletto dall’italo americano nella prima parte della sua carriera (fino a Trappola in alto mare, non compreso). Tanta brutalità, nessun tipo di ironia (volontaria) e un protagonista sospeso tra il granitico e il monodimensionale. Come dice Vern, tanto duro da distinguere un esplosivo semplicemente annusandolo (scena presente in Nico!).



In conclusione un libro perfetto. Oltre che un sonoro calcio nel culo a certa critica da salotto, ferma a certi standard morti 50 anni fa.

lunedì 11 maggio 2009

Quando Buddha ha i superpoteri: Opapatika di Thanakorn Pongsuwan (Tha/2007)

Ovvero gli X-Men in salsa thai. In altre parole: se in un film cercate soprattutto quella gamma di sfaccettare che non possono fare a meno di connotarne in maniera univoca e inconfondibile la provenienza geografica, allora Opapatika è il vostro film.



Esattamente come il blockbuster di Singer anche questo lavoro di Thanakorn Pongsuwan si basa sulle gesta di un team composto da individui dotati di poteri più o meno super. In territorio US si parla di geni, evoluzione o, al limite, di ragni radioattivi, qui le abilità speciali derivano dalla credenza buddista dell’ Opapatika, una delle quattro vie per venire al mondo. Se per noi mammiferi “normali” l'ingresso privilegiato risulta essere il Chalaphucha, soluzione che comprende il ventre di nostra madre come incubatrice naturale, per nascere supereroi nel sud est asiatico invece si deve essere generati da un suicidio. Naturale che una genesi così particolare porti anche a poteri altrettanto fuori dagli schemi, passando dall’immortalità tout court del maledetto Jiras al poco pratico dono di Paisol, un killer destinato a portare sul corpo tutte le ferite inflitte da lui stesso alle proprie vittime. Non ho idea di che vantaggi possa portare un potere simile, ma rimane comunque piuttosto suggestivo. Così, esattamente come succede con l’horror (si veda Art of the Devil, The Coffin, Buppha Rahtree), anche l’action/fantasy viene virato in chiave localizzata. Oggi in Thailandia, 20 anni fa a Hong Kong (e chi se li scorda i gloriosi anni dello splatter magic?).



Chiarite le origini dei protagonisti e verificata la loro provenienza indiscutibilmente asiatica, passiamo alla messa in scena. Come vi aspettate un blockbuster thailandese prodotto da Prachya Pinkaew (quello di Tom Yung Goong e Chocolate)? Esatto, la risposta giusta è esagerato. Opapatika mantiene questa promessa, facendoci intuire che se il vate di Tony Jaa lo avesse pure diretto staremmo gridando al capolavoro. Perché nei 100 minuti del film non esiste una scena action priva di decine di morti e litri di sangue che vanno a insozzare i marciapiedi, senza contare la presenza piuttosto corposa (oltre che gradita) di sparatorie e mexican stand off da manuale. Merce molto rara in un cinema fisico come quello thai (se si escludono le meravigliose eccezioni del manifesto Killer Tattoo, da recuperare subito se si vuole capire qualcosa del cinema di questa parte di mondo, e il post atomico Goodman Town). Peccato che Thanakorn Pongsuwan risulti un po’ legato nel momento in cui debba filmare l’azione, nonostante sappia comunque gestire al meglio una fotografia plumbea e si dimostri capace di alcuni movimenti da applausi. In ogni caso buona parte del lungometraggio risulta satura di bossoli, arti, sangue ed evoluzioni improbabili. Una mattanza che si alterna a siparietti seriosi e dall’alto tasso di melodramma, restituendoci il continuo cambio di registro tipico di tutto il cinema orientale.



Opapatika rimane un buon film, compatto in ogni suo compartimento e abbastanza forte da mantenere alta l’attenzione per tutta la sua durata. Lo si potrebbe addirittura citare come uno dei migliori esempi di “live action senza controparte cartacea” di sempre (anche se il campione di questa categoria rimane lo stupefacente russo Mechenosets) se non fosse per il suo potenziale tremendo. E per l’amaro che rimane in bocca pensandoci.




sabato 9 maggio 2009

Arriva


Primi fotogrammi di Tetsuo 3. Nonostante preferisca nettamente la seconda parte della carriera di Tsukamoto (la toccante storia d'amore Vital rimane uno dei film della mia vita) non posso rimanere impassibile davanti alla notizia dell'anno. E le immagini mi danno ragione.

giovedì 7 maggio 2009

Passenger Press presenta Calavera Comics


Alexis Ziritt lo conoscete già. Poche scuse: se non sapete di chi sto parlando non avete investito i vostri soldi nel folgorante art book che gli abbiamo dedicato. Cliccate qui e provvedete subito a colmare questa vostra lacuna vergognosa! Fatevi vivi anche alle prossime fiere in cui presenzieremo, perchè oltre al volumetto giallo limone potrete rifarvi gli occhi con le pubblicazioni Calavera Comics, tra le cui fila milita proprio il Nostro. Di cosa si tratta? Pensate a un mix letale di lucha libre, samurai, exploitation, night club, alcool a fiumi, tette, mafia e spietati sicari a pagamento. Se, giustamente, non potete più aspettare contattate direttamente loro al sito http://www.calaveracomics.com/. Rudo regna!

mercoledì 6 maggio 2009

MIODI Festival: l'evento musicale del decennio?

Solo a vedere il logo io direi di sì! Ringrazio di cuore Rae per avermi segnalato l'evento e il blog relativo. Se il 10 giugno siete dalle parti di Milano non potete farvi scappare il bill più figo di sempre. Beccatevi la lista qui sotto e godete con me:



Zu
Cripple Bastards
Ovo (sonorizzazione del Nosferatu di Murnau)
Inferno
Morkobot
Xabier Iriondo
Bastion (Reverberi + Cosi + Donadello)
The Secret
Zippo
Bologna Violenta
Gerda
The Infarto, Scheisse!
El Thule
Stoner Kebab
Lucertulas
Cani Sciorrì
Goran D. Sanchez



Praticamente adoro tre quarti delle band coinvolte, mentre le rimanenti sfoggiano comunque dei nomi da fighi. Cosa ci vuole per convincervi a chiedere un giorno di ferie?

martedì 5 maggio 2009

[ma quanto lo aspetto?] Il nuovo di Pen-Ek Ratanaruang, qualunque cosa sia.

C'era una volta il capolavoro Last Life in the Universe. Noir esistenziale di una grazia e di un'eleganza inaudite, capace di ridefinire il meccanismo del colpo di scena mettendolo sullo sfondo, negandolo e regalandolo solo agli occhi dei più attenti. Ora il thailandese Pen-Ek Ratanaruang decide di cambiare genere e di buttarsi sull'horror. Sotto la sinossi di Nynph, così il titolo del suo nuovo lavoro, trovate il trailer di Last Life. Tanto per farvi capire cosa ci aspetta.



A long time ago in an unnamed forest an unfortunate young woman fell prey to two men. Soon after, the lifeless bodies of the two attackers were found floating down the stream nearby. No one knew what happened to the woman, or who or what had saved her life.



May is a city woman who has everything she could ask for. Things are looking stellar: her career is on the rise and her long-time husband, Nop, showers love and attention on her. But fate or desire play tricks on the couple who watches their lives drift by without much thought or reflection, and May starts an affair with Korn, himself a married man.



One day Nop, a professional photographer, is assigned to take a trip into the forest to film its wildlife. He decides to bring his wife along. But the journey slowly reveals how the invisible weight of their urban lifestyle haunts them like a spectre, since May insists on behaving as if she were still in the city. Her sole concerns are her laptop and her phone, and instead of working from the office she now works from the tent in the middle of the jungle.



Nop, meanwhile, treks into the forest to take pictures of wild deer and forgotten cobwebs, and along the way he stumbles into a sad-looking tree, a lonely, mysterious specimen deep in the heart of the jungle. The tree, it seems, is calling out to him, pulling him closer to it, and Nop finds himself spellbound. When her husband fails to return to the tent, May sets out to look for him but only finds his phone, then his sandal.



Only then does she realize how precious their marriage is, and how desperately she needs Nop’s warmth and companionship. Yet when May returns home believing she’s lost her husband, Nop returns. B




[pubblicità creativa] La tratta delle schiave e una campagna leggera leggera





Un autentico pugno allo stomaco. Non occorrono altre parole per definire questa campagna di sensibilizzazione all'enorme problema del moderno traffico delle schiave.

domenica 3 maggio 2009

Glamour death metal: l'inarrestabile ascesa di un nuovo trend adolescenziale

1 maggio 2009. Musicdrome (Milano), sede della prima data italiana del tour Thrash’n’Burn. Sul palco del locale si esibiranno una serie di band affiliabili alle più moderne evoluzioni del vetusto e immobile death metal. Ci vado perché stravedo per gli americani Darkest Hour, che potranno essere ladri e melodici quanto volete ma rimangono comunque un gran gruppo. Non mi aspetto certo il pubblico di quello che fu il Grind Your Mother o di quello che è oggi un festival di nicchia come lo svizzero Mountains of Death, ma non sono affatto preparato a quello che mi aspetta. Perché improvvisamente scopro cosa significa sentirsi vecchi a 26 anni.



Vedere ragazzini di 14/16 anni cantare(!) in coro le liriche di un gruppo al limite dell’inaccessibile come i Beneath the Massacre non è una cosa da tutti i giorni, così come scoprire che i poco più che ventenni Carnifex vengono acclamati molto più degli headliner Bleeding Through e Darkest Hour. Nonostante i nuovi arrivati siano esponenzialmente più estremi di quelli che dovrebbero essere i gruppi di punta. Mi guardo in giro e vedo tutti questi ragazzini, oltre che un gran numero di ragazzine adoranti, vestire i panni dei nuovi metallari. Lobi dilatati, tatuaggi non certo invisibili, magliette dalle grafiche tra lo skate e il necrofilo (marchiate da loghi sempre più illeggibili), cappellini da camionisti portati nel più classico Suicidal Tendencies style (per i profani, con la visiera all’insù) e Vans Old Skool ai piedi. Un dressing code che fa piazza pulita dei vecchi cliché da metallaro puzzolente e poco attento a certe cose. Me ne rendo conto quando passeggiando tra i classici banchetti del merch scopro il catalogo della Imperial Clothing, autentica autorità in fatto di tshirt e hoodie relativi a questa nuova corrente musicale. Salta subito all’occhio una ricercatezza (anche nel supporto stesso) più da brand street che da distribuzione di gadget musicali. A quel punto mi dichiaro sconfitto e mi siedo in angolo a bere una birra, rimuginando su cosa possa essere successo per spingere il limite dell’accettabile così in la.



Se vogliamo proprio fare nomi sono tre le band che hanno contribuito a rendere tangibile questo trend (già nell’aria da tempo, si pensi alle ultime esplosioni dell’HC prima e del metal core poi): Despised Icon, Job for a Cowboy e Bring me the Horizon. I primi hanno dimostrato che risultati devastanti si possono ottenere miscelando death ultratecnico, mosh di scuola NY, suoni da paura e un’attitudine da burini di periferia. In altre parole, sfrondando il metal dalle cazzate da metallaro e riducendolo a musica solo di superficie, senza sovrastrutture se non la violenza fine a se stessa. I secondi sono stati i primi a sfruttare a pieno la potenza di Myspace, passando dal nulla dell’Arizona ai milioni di ascolti del loro demo. Traducibili in un megacontratto Nuclear Blade e a endorsement da paura, tra le altre cose. Poi sono arrivati gli inglesi Bring Me the Horizon a dare il colpo di grazia. Poco più che adolescenti, guidati da un frontman carino e talmente trendy da fondarsi una propria linea d’abbigliamento, la famigerata Drop Dead Clothing. Da qui la strada è stata tutta in discesa.



Il punto focale di tutto questo discorso è che per la prima volta la commercializzazione di un suono non è stata raggiunta con l’ammorbidimento dello stesso. Avevo già parlato dei The Boy Will Drown, gruppo che aspetto al varco come pochi, ma qui il discorso va decisamente allargato. Parlando con deathsters della vecchia guardia scopro come quello che infastidisce non sono solo gli sporadici refrain melodici (presenti solo in un pugno di band) ma soprattutto l’eccesso di versi animaleschi (il pig squealing brevettato dai Despised Icon), l’uso di suoni troppo processati e la spropositata presenza di slam spaccaossa. Insomma, dei metallari indicano qualcuno altro come eccessivo e di cattivo gusto. Evito naturalmente di riportare i commenti su pettinature e magliettine di una taglia in meno (o la tenuta gangsta dei soliti Despised Icon, la band che tutti amano odiare). Un’aggressività senza senso è il trend imperante, senza contare che il grosso deve ancora venire. Basta farsi un giro tra le maggiori label per scoprire che tutte hanno in preparazione almeno un paio di album avvicinabili a questo nuovo filone. Tutte di gruppi giovanissimi, se non al debutto, ma già mostri di tecnica e professionalità. Capaci di promuoversi da soli e di strappare un contratto sfruttando a pieno la potenza dei social network. Vedremo quando cosa succederà quando questa bolla raggiungerà dimensioni tali da non poter più evitare lo scoppio. Per documentazione allego una lista di link ai gruppi più influenti questa scena



Beneath the Massacre
Whitechapel
The Faceless
Despised Icon
Job for a Cowboy
Bring Me the Horizon
Suicide Silence
Oceano
The Boy Will Drown
Trigger the Bloodshed
Annotation from an Autopsy
Ignominous Incarceration











sabato 2 maggio 2009

[trailer] District 9 di Neil Blomkamp (NZ/2009)

Seguo il sudafricano Neil Blomkamp dai tempi della sua incredibile campagna pubblicitaria per Halo (opera che va ad affiancare questa nell'olimpo della comunicazione a 5 stelle). Una serie di clip da war movie che ci immergevano in un contesto di fantasia concreto come un pugno nello stomaco. Non per nulla il suo nome fu associato per anni alla presunta trasposizione live action del capolavoro videoludico, progetto poi abortito. Tutte le speranze di vedere Neil all'opera su un lungo sarebbero cadute nel nulla se non fosse stato per la lungimiranza di Peter Jackson, produttore del lungometraggio tratto dalle avventure di Master Chef e vate del Nostro. Proprio dal ricchissimo produttore neo zelandese arriva infatti la versione extended del corto capolavoro Alive in Joberg, debutto sul grande schermo di questo grande (si spera) di domani. Cliccate qui per arrivare al ricchissimo sito del film e godere del trailer. Sotto il corto originale e una clip dalla campagna per Halo 3.