mercoledì 30 marzo 2011

Te la do io la realtà aumentata



Vi ricordate queste? Ecco, alla Skittles si sono saputi superare. Tirando in ballo la versione più ignorante e farlocca di realtà aumentata con cui io sia venuto a contatto. A cosa servono webcam e codici QR quando puoi semplicemente imbrattare il monitor con il tuo ditone unto?




martedì 29 marzo 2011

Jeff Koons Must Die!!!

Jeff Koons Must Die!!! The Video Game from Hunter Jonakin on Vimeo.





Dal sito ufficiale di Hunter Jonakin:



The game is set in a large museum during a Jeff Koons retrospective. The viewer is given a rocket launcher and the choice to destroy any of the work displayed in the gallery. If nothing is destroyed the player is allowed to look around for a couple of minutes and then the game ends. However, if one or more pieces are destroyed, an animated model of Jeff Koons walks out and chastises the viewer for annihilating his art. He then sends guards to kill the player. If the player survives this round then he or she is afforded the ability to enter a room where waves of curators, lawyers, assistants, and guards spawn until the player is dead. In the end, the game is unwinnable, and acts as a comment on the fine art studio system, museum culture, art and commerce, hierarchical power structures, and the destructive tendencies of gallery goers, to name a few.



Ecco, se queste cose me le avesse dette lo stesso Koons (e non ci vedrei nulla di strano, produzione del videogame compresa) adesso starei gridando al capolavoro. Dette dal buon Hunter, con tutto il rispetto possibile, non hanno esattamente la stessa presa. Ma proprio per nulla.

lunedì 28 marzo 2011

Godersela finché si è in tempo: Kaboom di Gregg Araki (US/2010)



Sinceramente non so cosa pensare. Cult o presa in giro? Colpo di genio o errore di calcolo? Kaboom poteva essere enorme e invece si ferma sul baratro, come se qualcosa avesse bloccato fatalmente il meccanismo. Gregg Araki ci fa fare un salto indietro nel tempo e ci riporta all’inizio degli anni ’90. Siamo all’interno di un campus universitario fotografato come se si trattasse di una puntata di Beverly Hills 90210 sotto acido. Il nostro protagonista è un ragazzo sessualmente indeciso che convive con il superdotato Thor, eterosessuale convinto (?). Smith, il dubbioso, non perde occasione di confidarsi con la sua migliore amica: una lesbica studentessa d’arte (quanto fa Daria?). La partenza non poteva essere migliore. In Kaboom il sesso è genuinamente presente in ogni sua variante, senza isterismi, prurigini o voglia di scioccare. C’è sesso etero, sesso lesbico, sesso gay, sesso bi, sesso a due, sesso a tre, sesso a uno, sesso per divertimento, sesso per amore. E di sesso se ne parla a profusione, con toni che definire coloriti è un eufemismo. Da questo punto di vista la pellicola dimostra di essersi meritata a pieni voti la Queer Palm a Cannes. Siamo in una società immersa nel sesso 24 ore al giorno, eppure era tempo che non si vedeva una pellicola trattare l’argomento in maniera così esplicita, divertente e leggera. Per una volta il coito non ha nulla di deviante, non bisogna leggerci niente e non è neppure lo specchio di chissà quali traumi sopiti. Consumare significa godersela e stare bene, punto. E infatti non si avverte neppure per un attimo la tipica cappa di mefitica volgarità riconducibile a quella piaga moderna che risponde al nome di amoralità. Quella misteriosa proprietà per cui si è tacciati di ottusità/arretratezza quando si da del deficiente a un tizio che ama farsi cagare addosso. Il terrore di essere etichettati come bacchettoni/mormoni/retrogradi ha convinto le ultime generazioni di sceneggiatori a spingere per forza di cose sul morboso o maledetto. Raccontare di un atto sessuale semplicemente divertente è da considerarsi di una banalità intollerabile. Per fortuna Araki non sembra fare molto caso a questa regola non scritta e ci sbatte in faccia tutta la fregola sessuale di una classe di 19enni. Chiara e cristallina come un lago di montagna. Una volta entrati in questa prospettiva (con relativa pretesa di aver capito il film) il gioco si complica, con l’arrivo di feste a base di allucinogeni, sogni profetici e la comparsa sempre più frequente di uomini travestiti da animali. Spesso pare di avere a che fare con un Lynch cazzaro, incapace di rinunciare alle sue atmosfere dense e sospese nonostante l’ambientazione giovanilistica e una paletta colori psicotropa.


Passano i minuti e il mistero si infittisce. Compaiono superpoteri, strane sette, organizzazioni segrete e su tutto aleggia lo spettro di una devastante guerra nucleare. Dal visionario del Montana si passa a Richard Kelly, in un crescendo di ingredienti e ritmo che lascia sempre più spiazzati. La sceneggiatura a questo punto è confusa, indecisa se continuare la strada della commedia sessuale o puntare al thriller dai toni surreali. E intanto si va sempre più veloci. I minuti corrono senza pietà, ci si chiede come riuscirà il regista a trovare il capo della matassa. Via, via, via. Con l’acceleratore sempre più a tavoletta, fino a….


Kaboom!


…e TUTTO finisce qui. Lasciandoci spiazzati, irritati, desiderosi di sapere cosa stava succedendo. Curiosi di sapere cosa possa voler dire una conclusione simile. Ci si può spaccare il cervello quanto si vuole, magari ragionando sul fatto che i giovani gay nei film di Araki fanno sempre una brutta fine. Ma la sensazione che rimane è quella della parabola edonistica, perfetto contraltare ai vari Twilight. Se nel mondo di Bella ed Edward una bella trombata equivale alla morte, in Kaboom il tristo mietitore arriva in qualsiasi caso. Tanto vale ingannare l’attesa facendo qualcosa di piacevole.


giovedì 24 marzo 2011

Tutti attenti! Arriva Marc McKee



Da mercoledì 13 a domenica 17 aprile, presso il Bastard Store milanese, seconda tappa della mostra itinerante sulla leggenda Marc McKee. Un tipino con l'hobby di collezionare denunce e diffide per i suoi artworks, controversi sempre un pelino più in la del consentito. Autorità assoluta nel mondo dello skate, finalmente viene premiato per il suo incredibile contributo all'iconografia di questa disciplina con la pubblicazione di un libro monografico (presentato in anteprima alla mostra). Da non perdere, anche solo per farsi una cultura su di un' artista che ha fatto della tavola la sua personale galleria d'arte.

mercoledì 23 marzo 2011

[Pyunologia pt.2] Nemesis di Albert Pyun (US/1992)



Perché la storia (anche quella del cinema) non è fatta solo da chi sta in cima. Anzi, spesso è proprio dal basso che arrivano gli scossoni più interessanti. Basta saperli sentire. Partendo da questo presupposto ho maturato la decisione di recuperare l’opera omnia di uno dei registi più (ingiustamente) vituperati di sempre: Albert Pyun. Parte così Pyunologia, percorso in una poetica da VHS.


Per capire Nemesis basta studiarsi con attenzione la locandina originale. Un logo da sparatutto a scorrimento, una tagline che racchiude in sé almeno 3-4 suggestioni da altri film, un’illustrazione che ci proietta in un mondo fatto di città piovose, piombo e degrado tecnologico. Un mash-up perfettamente bilanciato tra tutto quello che è fantascienza anni ’80 e le convenzioni estetiche dei primi ’90. E una volta inserita la VHS nel lettore non potremo che avere la conferma di tutte le nostre supposizioni.


Un po’ di Terminator, una bella dose di Robocop e Blade Runner, una spolverata di Fuga da New York e un’infarinatura abbondante di quell’action cantonese che da li a poco avrebbe conquistato il mondo. Tutto girato in un’ambientazione da Rambo italico alla Strike Commando (ma c’è parecchio anche dei seguiti ufficiali di First Blood). Ancora una volta Albert Pyun riesce a piegare tutti gli handicap del film a basso costo e ci consegna un bigino del genere di turno. Il Nostro non gira una versione economica dei grandi classici della fantascienza ottantiana. Ne dipinge piuttosto una versione idealizzata, come a dare un senso a tutte quelle pellicole-clone basate sull’ingenuità del fruitore medio. Il giochino funziona talmente bene da allargarsi anche alle sovrastrutture, oltre che al film in sé. Nemesis risulta infatti tanto mimetico agli stilemi di certe produzioni speculatorie da meritarsi ben 3 seguiti. Di cui il quarto, attenti al capolavoro, costruito con gli scarti di girato del terzo capitolo. Facilissimo immaginarsi le quattro custodie, coperte di polvere e sbiadite dal sole, disposte una accanto all’altra sugli scaffali di una videoteca. Disperse tra gli epigoni italici de La Casa, il nuovo capitolo di Leprecahun e un qualsiasi sequel apocrifo di un capolavoro di Cronenberg.


E per godersi Nemesis bisogna mettersi proprio in quella condizione mentale. Plot sgangheratissimo (ci si doveva ficcare di tutto per non scontentare i fan di ogni titolo di riferimento), personaggi tagliati con l’accetta, dialoghi ignoranti ben oltre il lecito. Pyun di suo ci infila un filotto di scene action sotto anfetamina e la solita miriade di piccole trovate capaci di restituire l’intera opera a quella dimensione sottilmente ludica a cui appartiene. Dal cyborg con la pistola nascosta all’interno del cranio (che si apre a scatto nel momento del bisogno) alla fuga a colpi di arma automatica attraverso i pavimenti di uno scalcinato hotel. Idea ripresa poi, seppur in chiave meno convulsa e grottesca, perfino da Patrick Yau nel suo Expected the Unexpected. In Nemesis l’azione è sempre sopra le righe, trattandosi per la maggior parte dei casi di vere e proprie tempeste di piombo con ben pochi precedenti. Impossibile negare una ricerca spintissima verso una nuova rappresentazione dello scontro a fuoco. Spesso si ha l’impressione di avere a che fare con una versione ante litteram della coppia Neveldine/Taylor o del confusionario Peter Berg. Girato però con il budget solitamente riservato al catering della troupe.


In una pellicola come Nemesis il Pyun-pensiero riesce a emergere con prepotenza pur rimanendo contemporaneamente sopito sotto la coltre della marchetta alimentare. Alla carenza di quel lavoro di destrutturazione che in The Sword and the Sorcerer esplicitava tutto il gioco di ricostruzione filologica corrisponde un’iconografia quasi parossistica nella sua aderenza agli stilemi di certo cinema. Non abbiamo a che fare con un b-movie fantascientifico qualsiasi, ma con un‘opera che spinge per essere il b-movie anni ’80 per eccellenza. Arriva però nelle sale nel 1992, con almeno un paio d’anni di ritardo. Come a ricordarci ancora una volta la sua natura di outsider.


lunedì 21 marzo 2011

Morire dal ridere: Four Lions di Christopher Morris (UK/2010)



E se la migliore commedia dell’ultimo paio d’anni fosse improntata sulle imprese di quattro kamikaze pro-jihad? E se riuscisse a essere esilarante risultando al contempo scorretta fino al midollo ma comunque empatica con il dramma del popolo islamico? Sembra impossibile, eppure Christopher Morris c’è riuscito al primo tentativo. Four Lions, esordio del regista di Bristol, riesce a parlare di un argomento scottante e terribilmente reale inanellando una serie di dialoghi che al confronto il primo Kevin Smith pare un’educanda. Un fiume ininterrotto di volgarità e insulti geniali (da seguire esclusivamente in lingua originale) per raccontarci la triste storia di Omar e della sua cricca di martiri.


La sceneggiatura gioca sporchissimo. Sfido chiunque a non innamorarsi dei personaggi nel giro di un paio di scene. Irresistibili idioti trascinati in qualcosa più grande di loro, (spoiler necessario per capire il senso del film) talmente sproporzionato rispetto alle loro spalle da portarli tutti verso una morte inutile e gratuita. Attorno a loro gravitano diverse tipologie di praticante islamico, tutte dotate di una tridimensionalità tale da scongiurare ogni rischio di macchiettizzazione o paternalismo. La lama di rasoio su cui si muove tutto il film è sottilissima. E lo è ancora di più considerando che non si fanno sconti per nessuno. Chi muore lo fa sul serio, senza gag slapstick o esagerazioni gratuite. La mancanza di tatto di un Uwe Boll qualsiasi (ricordate Postal?) non è presa neppure in considerazione, con il risultato che sui titoli di coda ci si sente un po’ tristi e malinconici. Nonostante tutto.


La verità è che Four Lions è intelligente, lucido e coraggioso. Capace di farti ridere e intenerire partendo da una situazione d’emergenza che non prova neanche a interpretare/giustificare/accusare. Al centro ci sono i cinque "leoni" in balia della Storia. E il fatto che l’unico a non dimostrare profondità narrativa (cioè sviluppo e maturazione) prima della conclusione sia un islamico convertito la dice lunga sulla volontà politica del regista. Christopher Morris dimostra che lo sberleffo e il turpiloquio sono arti delicate, per cui polso e visione d’insieme cristallina sono presupposti fondamentali. Ci si deve esporre completamente per raccontare senza esserne travolti dalla potenza implosiva. Quando non hai remore a urlare a pieni polmoni di provare simpatia verso un tuo personaggio, soprattutto se altri lo avrebbero dipinto come babau bidimensionale, allora puoi permetterti di inserire in un film sul terorismo gente che si piscia in bocca, gag su Star Wars e corvi esplosivi. Senza il rischio di passare per crasso o superficiale.


Four Lions è costruito per contrapposizioni. Va a parare dove meno te lo aspetteresti e ogni volta scopri che alla fine è meglio così. Si ride dove altri film avrebbero puntato sulla lacrima facile e ci si smuove in momenti in cui il populismo avrebbe alzato i toni. Il risultato è dirompente. Senza suggerirci tesi premasticate si finisce a riflettere sulla devastazione portata dall’integralismo e dall’ignoranza (mi riferisco a entrambi i fronti in gioco). E in più ci si gode i dialoghi meglio scritti degli ultimi anni. Da recuperare assolutamente, anche solo per godersi appieno la scena che chiude il trailer. Uno degli omaggi più sinceri e toccanti alla leggerezza d’essere che il cinema recente mi abbia regalato.




venerdì 18 marzo 2011

Musica che va veloce: Rotten Sound - Cursed (Relapse/2011)



Blastbeat da giorno del giudizio accanto a rallentamenti dal carico volumetrico di un caterpillar. Forse il primo disco grind dell'anno per cui strapparsi i capelli (in attesa di questo). Qui la mia recensione.

giovedì 17 marzo 2011

I'm old enough to bleed, I'm old enough to breed, I'm old enough to crack a brick in your teeth while you sleep





Quel simpatico di Harmony Korine colpisce ancora, questa volta in compagnia di quelle personcine piacevoli dei Die Antwoord. Il risultato è il corto qui sopra. La solita poetica del reietto suburbano, questa volta con annessa presa per i fondelli dei vari miti gangsta. In alcuni frangenti grottescamente ilare, in qualsiasi caso superiore a Trash Humpers.

mercoledì 16 marzo 2011

[Pyunologia pt.1] The Sword & the Sorcerer di Albert Pyun (US/1982)



Perché la storia (anche quella del cinema) non è fatta solo da chi sta in cima. Anzi, spesso è proprio dal basso che arrivano gli scossoni più interessanti. Basta saperli sentire. Partendo da questo presupposto ho maturato la decisione di recuperare l’opera omnia di uno dei registi più (ingiustamente) vituperati di sempre: Albert Pyun. Parte così Pyunologia, percorso in una poetica da VHS.


The Sword and the Sorcerer è prima di tutto un film estremamente divertente. Al di là (o per merito) del budget risicato, degli attori cani, degli anacronismi e delle ingenuità. Nonostante il passare delle stagioni abbia relegato l’esordio di Albert Pyun nella nicchia dei seriosi sword & sorcery (all’ epoca numerosissimi, visto il successo di Conan), in realtà abbiamo a che fare con un perfetto di swashbuckler movie insaporito da un pizzico di magia. Lontanissimo dalla severa autorità di un John Milius, La Spada a Tre Lame (titolo della versione italiana) gioca tutto sul ritmo travolgente e sull’atmosfera da romanzetto d’appendice d’altri tempi.


Partenza grandiosa, con tanto di stregone/demone in lattice risvegliato da un sonno centenario e spade a retrospinta. Colpi di genio che ci introducono la solita manfrina della corona sottratta con la forza e del primogenito sopravissuto alla strage. Non manca neppure il narratore off che ci proietta in un mondo fuori dal tempo. L’ABC del genere insomma, solida base su cui costruire un plot fatto di cospirazioni, amicizia, vendette e tette al vento.


Terminato il prologo abbiamo un telefonatissimo salto fino al ritorno del principe Talon (interpretato da un marmoreo Lee Horsely) a Ehdan, 11 anni dopo gli eventi drammatici dei primi minuti. L’uomo ora è alla guida di una masnada di mercenari e più che a riprendersi il suo regno pare interessato alle grazie delle rivoluzionarie. Nel giro di un rissa a colpi di cosciotti d’agnello e di una birra al tavolo accetta di liberare il capo della rivolta in cambio di una notte con la bella Alana. Che lui sa BENISSIMO essere sua cugina.


Mi pare chiaro che a questo punto le convenzioni del genere siano saltate del tutto. Sono ben pochi gli eroi del fantasy disposti a rinunciare al loro regno legittimo per del sesso consanguineo. E questo è ancora poco rispetto a quello che deve arrivare. Un susseguirsi di gag memorabili, combattimenti, nudità femminili, eccessi gore e one liner scolpite nella pietra. Un Talon che, trovatosi di fronte a un muro di nemici non previsto, si pronuncia in un poco convinto “Who dies first?” è quantomeno impagabile. Secondo solo al raccordo di montaggio che salta dal classicissimo discorso-gasante-prima-della-rivalsa all’inquadratura dei rivoltosi già rinchiusi nelle segrete del castello.


Il tutto tratteggiato con una povertà di mezzi che è quasi un pregio. I costumi appartengono a epoche diverse, i campi lunghi della città sono riprese di Instanbul e la vita del popolo ci arriva grazie a riprese di repertorio di qualche villaggio medio orientale (mentre, si noti bene, il castello è tipicamente centro europeo. Vegetazione circostante compresa). Anche gli interni cambiano stile architettonico di stanza in stanza. Personalmente sono sicurissimo di aver visto le segrete in qualche altro film.


Albert Pyun è un cineasta troppo intelligente per non capire di avere a disposizione poco più che un mucchietto di nulla. A questo punto meglio divertirsi. Si affida così a una colonna sonora strepitosa (roba da attrazione di Gardaland sotto mescalina) e gira la perfetta trasposizione cinematografica di un fuiletton (o di un romanzetto pulp). Tutto è talmente sopra le righe che è impossibile non pensare a una raffinata operazione di destrutturazione (anche se inconsapevole). E’ come guardarsi un telefilm per bambini innestato con dello splatter e una serie continua di doppi sensi a sfondo sessuale. Il ritmo è brioso e le sequenze a effetto si susseguono con una frequenza tale da non far mai abbassare l’attenzione. Intrattenimento puro.


A Pyun basta un’uscita per codificare la sua estetica da VHS. Se altri registi fanno di tutto per nascondere la povertà di mezzi all’hawaiano sembra quasi che lavorare in certe situazioni piaccia. Pura poesia da bmovie che spinge per essere accettata senza rivalutazioni snob alla Cahiers du Cinéma. Siamo dalle parti di un Mario Bava privo di malizia (e tecnicamente non così eccelso). Proprio come nei film del Maestro sanremese non si cerca una fuga dalla finzione ma si punta a una valorizzazione metalinguistica del fantastico a basso costo. Tutto con le debite proporzioni. Se un film come Diabolik rimane un capolavoro della pop art (e paragone perfetto con TS&TS) è grazie alle strabilianti doti artistiche di un regista senza pari. Inutile illudersi che tali risultati possano essere replicati dal Nostro. Se si guarda allo scheletro concettuale invece non si è troppo lontani. Nei film di Bava un muro di cartapesta non è bello perché mi illude che si tratti di vera pietra, ma perché è un meraviglioso muro di cartapesta messo a simulare la pietra. Senza ironia di sorta. Si tratta semplicemente di un'altra scala estetica rispetto a quella convenzionale. Un po’ come Raimi o Miike, tra gli unici a utilizzare gli effetti speciali esplicitando la loro evanescenza rispetto al fotorealismo generalmente rincorso con ogni mezzo. Stessa cosa con il cinema di Pyun: non è cinema a basso costo che scalcia per entrare alla corte dei gradi, e neppure mimesi ironica di certi canoni. Sono produzioni minuscole che vogliono essere tali, cercando di sovvertire l’ordine delle idee e rendere i difetti punti di forza. Con tutta la sincerità del mondo.



lunedì 14 marzo 2011

Che siano maledetti gli abitanti di L.A.



Mi sembra il minimo, visto che saranno i primi (e spero non gli unici) a godere di Psycho Spaghetti Western. La nuova serie di Ed "leggenda vivente/maestro inarrivabile" Ruscha. Qui una piccola anteprima.

Wrangler e l'arte di farsi male











Ma quanto è figa (sia artisticamente che concettualmente) la nuova campagna Wrangler?

venerdì 11 marzo 2011

Jack Jensen, le Filippine e gli eroi del web 2.0





Mentre la gran parte dei gestori di blog non può fare a meno di sfruttare ogni triste & trito trucchetto per attirare qualche nuovo lettore c'è chi invece della nicchia ne fa un vanto. Riuscite a pensare a qualcosa di più settoriale del war-movie filippino (con qualche cessione al ninja-movie, sempre filippino)? Ne dubito. E quando è stata l'ultima volta che avete letto un disclaimer come questo qui sotto?



WHERE TO DOWNLOAD THESE MOVIES???



Some readers write and ask were they can download the films on this blog. I'm afraid I can't help you. Most of these films are old video tapes that I've spent months (and sometimes years) on tracking down. I'm simply not interested in downloading movies. I want to own real releases. On a rare occasion I might swap a dvd-r with someone (or nice readers send me dvd-r's for free) but I don't download and I don't know where you can do that. Sorry.



Jack Jensen è un vero eroe. Ricercatore e divulgatore appassionato (molto utili i suoi aggiornamenti sulle aste eBay), ma sopratutto gestore unico di quella perla del 2.0 che è When the Vietnam War raged... in the Philippines. Perché se a scaricare l'ultimo remake US sono capaci tutti, voglio vedere in quanti riescono a rintracciare la VHS greca di Cobra Thunderbolt.

giovedì 10 marzo 2011

Cosa ci vuole per dare una botta di vita al cinema di HK?



Johnnie To a produrre, Anthony "Carisma" Wong a recitare e un trailer che promette l'ennesima, brutale variazione su di un canovaccio stranoto. Tutto come ai vecchi tempi.

mercoledì 9 marzo 2011

Dal Canada con furore: Protest the Hero - Scurrilous



Il precedente Fortress era un gran bel disco. Questo non lo è altrettanto ma scommetto che rientrerà comunque nella top5 annuale di molta gente (me compreso). Qui la mia recensione. Loro sono i soliti smanettoni con il pallino per la melodia, questa volta meno post e più classic (rock).

lunedì 7 marzo 2011

Cyborg Director's Cut: prime news da Cynthia Curnan



Come tutti ben saprete è stata ritrovata la gloriosa director's cut del cult Cyborg. Più cupo, violento e cazzuto dell' originale. Proprio oggi ho ricevuto una mail da Cynthia Curnan (produttrice di Pyun, che ho avuto il piacere di conoscere via mail discutendo di un'eventuale collaborazione per Passenger Press) con un sacco di informazioni graditissime a chi, come me, considera Albert uno degli ultimi grandi registi statunitensi. Nel suo genere forse il più grande in assoluto. Dunque:


- il dvd, con dedica e autografo da parte del regista, costerà 30 dollari (spese di spedizione US-Italia incluse).
- sono nella merda. Nel senso che sono già oberati di ordini. Se siete interessati armatevi di santa pazienza, visto che si tratterà di un'uscita semi artigianale curata direttamente da loro.
- se tutto va per il meglio potrebbe arrivare anche una director's cut del famigerato Capitan America. Godo come un riccio.


Se eravate anche solo vagamente interessati adesso dovreste avere la bava alla bocca. Per eventuali prenotazioni scrivete a curnanpictures@gmail.com.

sabato 5 marzo 2011

Come Kick-Ass perse lo scettro di "Cinecomic preferito dalla scimmia"



Anche se mi vergogno a dire che giorno dopo giorno Capitan America mi pare sempre meno una boiata (vedi le nuove foto del teschio rosso).

venerdì 4 marzo 2011

The (inner) Shield: Powers di Bendis e Oeming (2000-...)



La più grande forza di Powers è il saper evitare categoricamente ogni tono di grigio senza mai, e qui sta il difficile, finire nella provocazione gratuita. Agli albori del millennio Bendis e Oeming si presentavano al pubblico con l’ennesima serie supereroistica improntata sul realismo, per di più ambientata in un distretto di polizia. Gli ingredienti per la solita rincorsa alla risata nera e crassa c’erano tutti, le possibilità che si ottenesse qualcosa di realmente nuovo ridotte al lumicino. Oggi, a pochissimo dalla pubblicazione del quarto volume deluxe statunitense (enormi, lussuosi, supere conomici se presi su Amazon) e ad ancora meno dal tredicesimo tpb regolare, possiamo dirci del tutto smentiti.


Se la partenza, con lo story-arc di Retro Girl, era ottima ma senza particolari slanci (eravamo ancora dalle parti di un Watchmen + N.Y.P.D.) con il passare delle stagioni siamo arrivati a qualcosa di unico. Prima di tutto la profondità dei personaggi. Dai due protagonisti fino all’ultimo dei comprimari non esiste caratterizzazione stereotipata. Alle loro prime apparizioni Deena Pilgrim e Christian Walker erano chiusi, incapaci di comunicare e mascherati dietro a una corazza di autorità. Caso dopo caso ci si presentano sempre più come persone fragili e insicure, deluse dalla vita e da se stessi (nel caso della giovane recluta). Tra chi cerca di sfuggire dagli abissi a cui sembra destinato (il quarto volume hc si conclude proprio con il tentativo di suicidio di Deena) e chi invece non riesce a voltare le spalle alle sue vocazioni più alte (Walker che si investe del ruolo di difensore cosmico della Terra) finiremo per incontrare un’umanità impossibile da dividere tra vittime e carnefici. Il tratto più comune è la debolezza, aspetto umanissimo che troppo spesso gli sceneggiatori dimenticano. Casi cruenti, in alcuni casi ben oltre il limite dello scabroso, non prestano il fianco allo stopposo umorismo nero. Non ci si può non rendere conto che il turpiloquio fiume dei detective in realtà arriva dalle bocche di personaggi di finzione interpretati a loro volta dai non-eroi creati da Bendis. La vera Deena Pilgrim, quella incapace di gestire ogni rapporto umano, si veste della Deena Pilgrim cazzuta, tutta battute e smargiassate. Ci si sceglie un’armatura per non essere trascinati dalle brutture della vita.


Nell’universo di Powers il nero può essere spaventosamente privo di luce. Proprio in relazione a questo i lunghissimi monologhi che lo caratterizzano hanno un sapore ancora più amaro. Mai teatrali, eccessivi o sgomitanti per il cool a tutti i costi (nei limiti della narrazione di genere). Ci riportano sulla Terra facendoci sentire le voci delle persone cadute in quella voragine di buio, dando all’insieme un senso di realismo che nessuna Authority (o Ultimates) è mai riuscita a raggiungere.


Anche a livello di linguaggio la serie si pone come totalmente aliena al resto della produzione da major statunitense. Un numero può essere composto unicamente da vignette statiche e dialoghi a non finire. Poi magari ne arriva uno privo del tutto di baloon. Pagine quasi astratte nel loro minimalismo convivono accanto a doppie splash page capaci di mozzare il fiato per potenza e ricchezza. Si percepisce una libertà di espressione quasi senza pari, eppure lo spettro del giochino intellettuale da saputelli del medium è lontanissimo. Tutto è costruito sullo spettro emozionale del lettore. Ancora una volta gli eccessi perdono la loro potenza iconoclasta e acquistano di significato e calore. Nonostante i picchi di spettacolarità siano tantissimi e tutti (TUTTI) efficaci, si finisce per dare più importanza alle lunghe sessioni in centrale, alle chiacchierate in macchina o alle serate solitarie negli appartamenti di Deena e Christian.


Il fatto che Oeming sia alle matite fin dal primo numero è uno degli ingredienti principali dell’empatia provata verso i personaggi. Come succedeva in Daredevil la serialità a lunghissima gittata e la permanenza dello stesso disegnatore sono due degli ingredienti prediletti da Bendis. Uno dei pochi scrittori che vive al 100% i suoi personaggi (quelli che gli interessano) e a cui riesce a dare voce in maniera del tutto naturale. Logico che una persona la si debba frequentare per moltissimo tempo (senza che questa cambi faccia ogni mese) prima di conoscerla intimamente. E se poi ti affezioni succede che delle scene splatter, della volgarità dei dialoghi e dei pugni allo stomaco finisci per non saperne che fare.

martedì 1 marzo 2011

[oldies but goldies] Sin & Punishment: Successor of the Skies di Masato Maegawa



Che entro pochi anni (mesi?) il videogame verrà considerato a tutti gli effetti un medium artistico ormai l’ hanno capito anche i sassi. Un percorso che ha preso il via un paio di decenni fa e oggi è ormai prossimo al raggiungimento di uno step fondamentale (l’accettazione da parte dell’intelligentia dopo l’uomo della strada) per ogni suo sviluppo futuro.


Ora come ora le scuole di creatività che spingono in ogni modo verso questo ultimo, monumentale passetto sono circa tre e mezzo. Nella prima ci metterei tutti quegli studi che interpretano l’ambiente videoludico come terreno perfetto per l’ibridazione con il blockbuster hollywoodiano. Tra i rappresentanti massimi di questa categoria impossibile non segnalare i registi David Jaffe e Cliff Bleszinski. Qui vige la regola del grande è meglio, delle prestazioni tecniche tirate al limite e del testosterone libero. Budget milionari e record di vendite da infrangere ogni sei mesi.


Nella seconda branca ci ficchiamo i vari Fumito Ueda e tutta una serie di prodotti che vanno dal pluripremiato Limbo al Flower per PS3, passando per il musicale Electroplankton. Qui la componente artistica prende il sopravvento. Schizzi di sangue e tempeste di piombo lasciano spazio ad ambienti sognanti e atmosfere rarefatte. La ricerca prima di tutto.


Tra le due (ecco il mezzo di cui parlavo sopra) si va a incastrare tutta quella produzione di genere dotata comunque di spiccata autorialità. Il suo rappresentante più famoso è quel Hideo Kojima ormai noto anche a chi una consolle non l’ha mai posseduta. Tra gli altri protagonisti vanno menzionati senza ombra di dubbio Goichi Suda e Hideki Kamiya (quando si alza con il piede giusto e lo si tiene in carreggiata), oltre che gli studi Rockstar e Valve. Maggiore profondità rispetto alla ripetitività meccanica dei prodotti inclusi nella prima categoria, art direction curate maniacalmente e il terrore di annoiare anche il fruitore più scafato. Siamo dalle parti dell’intrattenimento intelligente, capace di tracciare un solco profondo nell’ immaginario collettivo.


Tre alternative valide (seppur in modi diversi) tutte caratterizzate dall'ibridazione con altri linguaggi. Il cinema, la letteratura, il fumetto, le arti grafiche. Il videogioco viene valorizzato pescando da altri magazzini di significato e diventa, almeno nei presupposti, arte totale. Nella quarta categoria invece succede esattamente il contrario.


In Sin & Punishment: Successor of the Skies (e in maniera ancora più estrema in N+) la creatività sta nel sistema di controllo, nel gesto del giocatore, nella dinamica di gioco. Tutti aspetti impossibili da ritrovare in altri linguaggi. Non esiste progressione dell’avatar (e quindi narrazione) se non nelle prestazioni sempre più raffinate dell' utente. Lo schermo finisce presto per riempirsi di decine di nemici ed effetti luminosi, rendendo praticamente inutile ogni sforzo di caratterizzazione dei livelli (se non come puro orpello estetico). Non si teme di morire come in un RPG perchè il continue? è inevitabile, privo di conseguenze. Si gioca per giocare, per il risultato più alto (e infatti si può saltare da un livello all'altro senza problemi) o l' intervallo di imbattibilità più esteso. La concentrazione richiesta è massima. Gli sviluppatori affastellano tra le linee di programma tutti gli ingredienti del videogioco più puro e incontaminato. Il meccanismo del postmoderno viene sfruttato per raggiungerne il risultato opposto. Qui i clichè non portano al distacco ironico, ma a un ambiente che deve essere conosciuto a menadito per garantire all’ hardcore-gamer l'immersione totale. Per certi versi Sin & Punishment: Successor of the Skies è arte videoludica nella sua accezione più autoreferenziale ed esemplare. Avete presente quando negli anime distopici si mostrano orde di ragazzetti intenti a rincoglionirsi davanti a un generico monitor tutto lucette stroboscopiche e techno a 3000? Ecco, probabile che stiano giocando al titolo sviluppato da Treasure.


Almeno 15 anni di progressi dimenticati nel tempo di scoperchiare il case. Nonostante la grafica 3d il linguaggio torna primigenio e finisce per dare alla causa molto di più di quanto si pensi. Se si vuole considerare il videogioco come medium forte si deve prima imparare a isolarne gli aspetti fondamentali, quelli che devono sussistere anche senza lustrini e pailettes. Pensate di prendere una persona totalmente aliena a questa forma di intrattenimento e cercate di introdurglielo nel minor numero possibile di titoli. Con Sin & Punishment: Successor of the Skies vi basterà un solo esempio. Si prenda a esempio il filmato qui sotto, quasi parossistico nella sua aderenza totale agli stilemi dell'intrattenimento digitale.