sabato 27 ottobre 2012

[God Told Me To] Ninjas di Dennison Ramalho

NINJAS from Dennison Ramalho on Vimeo.


L’industria cinematografica è sempre stata foriera di grossi misteri. Si prenda ad esempio il cortometraggio in apertura al post (dell’anno passato, ma che ho avuto modo di scoprire solo ora grazie alla recente segnalazione di Twitch). Girato in evidente economia riesce comunque a dimostrare quanto abbia da dire il giovane regista Dennison Ramalho. L’opera è durissima, agile nel miscelare in 25 minuti l’exploitation sociale di Tropa de Elite, suggestioni jhorror di rara efficacia, torture porn, spennellate di thriller psichedelici anni ’70 e un apparato visivo nonostante tutto modernissimo. La domanda è semplice… perché un soggetto così talentuoso non sta già lavorando a qualche produzione di spessore? Perché invece il suo imdb lo indica ancora all'opera su di un cortometraggio che vedranno in quattro?

Ninjas si apre con una scena tanto enorme da mangiarsi in un sol boccone praticamente tutti gli horror esoterico-satanici degli ultimi anni (contemporaneamente). Sia per la coerenza tra ambientazione e sceneggiatura (i thriller a sfondo demoniaco hanno sempre funzionato meglio se ambientati in paesi cattolici - nel senso più retrogrado del genere. Vedi Spagna, Italia, Sud America,…), sia per la potenza visionaria con cui si chiude. Si procede con il già citato segmento giapponese, filone esausto ma che qui viene ripreso tanto come scuola estetica quanto come magazzino di significati. Il senso di colpa rimane uno degli spettri più difficili da sconfiggere. Una volta presa una scelta sbagliata questa si anniderà ai margini del nostro sguardo per un sacco di tempo (come il rancore, no?). Si passa poi al capitolo conclusivo, quello di gran lunga più stordente e ricco di interesse. La Notte della Pulizia è una follia dove trovano posto Arancia Meccanica, Hostel e Una Lucertola con la Pelle di Donna. La coercizione da parte dell’autorità diventa simbolismo allucinato e iperviolento. Considerando quanto sia derivativo il materiale di partenza mi pare che tale conclusione non sia esattamente un risultato da buttare alle ortiche. La regia desatura il desaturabile, si fa languida o convulsa al momento giusto, non indugia mai in vezzi archeologici (se non, vagamente, nell’audio) e non nasconde nulla. I demoni interiori improvvisamente assumono lo spazio che meritano: nullo. Quando scopri che razza di mostri camminano sulla nostra stessa Terra tendi a ridimensionare ogni tua psicosi o semplice sega mentale. Vedi alla voce Joseph Fritzl, Idi Amin o qualche altra personalità dello stesso calibro di disumanità.

Chiusura nella media, ma era durissimo fare qualcosa di più.

Conclusione: caro Dennison Ramalho, ti voglio al lavoro su di un lungo al più presto possibile. Che di Neill Blomkamp non c'è ne mai abbastanza.

mercoledì 24 ottobre 2012

YouTube Cinerama: Slave Girls from Beyond Infinity



Sono giornate piuttosto piene, quindi zero tempo per dedicarsi a qualche nuova visione e/o lettura. Fortunatamente esiste il mio canale televisivo/radiofonico preferito: YouTube. Scopro solo ora (e vi giro prontamente la news) che qualche genio ha caricato per intero uno dei b-movie meno B di sempre: Slave Girls from Beyond Infinity (clicca per recensione completa). Non fatevi ingannare dalle apparenze. Sembra spazzatura ma in realtà è di un'intelligenza letale. Oltre che traboccante umorismo raffinato e mai scontato (e non è una battuta). Salvatelo nei preferiti e godetevelo quando meglio credete. Sarà durissima non adorarlo.

venerdì 19 ottobre 2012

[Il cinema di Tsui Hark come metafora del grindcore] Pig Destroyer - Book Burner


Siamo sinceri, alla notizia di un nuovo disco dei Pig Destroyer un sacco di gente (sottoscritto compreso) si era già scritta in testa il classificone musicale di fine anno. Ancora prima di ascoltare una singola nota di Book Burner avevamo già deciso che questo meritava il podio. Incuranti del fatto che solo il mese scorso sono usciti due lavori eccellenti come i nuovi The Faceless e Between the Buried and Me mentre a novembre ci aspettano Converge, The Secret e Dragged into Sunlight. Dopotutto i Pig Destroyer sono quelli di Terrifyer, una delle migliori uscite grind moderno di sempre. E in più questa volta abbiamo Adam Jarvis (Misery Index) alla batteria. Impossibile sbagliare.

E invece succede che Book Burner è solo un ottimo disco. Mi spiace dirlo, ma di quel parossismo d’esecuzione che ha reso grande il genere ne troviamo veramente poco. Mi spiego meglio. Prima di tutto procuratevi World Extermination degli Insect Warfare e Amber Gray dei Gridlink (tanto per citare due lavori stratosferici che si pongono agli antipodi stilistici del genere, ovvero il culto manicheo del passato e l’iper-modernismo fine a se stesso). Adesso che li avete ben adagiati sul vostro hard-disk ascoltateli al massimo volume possibile. La prima impressione che avrete è quella di trovarvi al cospetto di due mostruosità dove il gusto del grottesco è motore primario. Troppo veloci, troppo furiosi, troppo rumorosi. Non un attimo di flessione, un cambio di andatura o una concessione all’ascoltatore. Pura aggressione. E così dovrebbe sempre essere il grindcore.

La stessa cosa succedeva con Terrifyer. Anche se i ritmi erano più rilassati (virgolette), il muro messo in piedi dalle assurde distorsioni della chitarra di Scott Hull era più che sufficiente a provocare crisi di claustrofobia. L’alchimia con il ferino drumming di Brian Harvey aveva contribuito a definire quella grassezza sghemba e pachidermica che rimane a oggi uno dei marchi di fabbrica di casa Pig Destroyer (vedi quella manata in faccia di Carrion Fairy). Sono sempre stato convinto che la ricetta magica per ottenere un grande disco grindcore sia quella di studiarlo nei minimi dettagli e poi fare di tutto per farlo apparire più rozzo e ignorante possibile. Book Burner invece è un lavoro dove i suoi cinque anni di gestazione si percepiscono tutti. Quasi fosse death metal. Genere pornografico per eccellenza in cui tutto deve essere “fuori”. Dove ogni minima cazzatina o soluzione arzigogolata deve arrivare in faccia all’ascoltatore come una rasoiata. Per capirci meglio mi permetto di proporvi una sagace (sic) metafora cinematografica. Nei film del coreano Kim Jee-woon (quello di A Bittersweet Life e I Saw the Devil) percepisci ogni singolo virtuosismo perché spesso e volentieri interi segmenti narrativi sono basati su quello. Godi come è giusto godere di tanta grazia e aspetti con ansia la nuova trovata di questo grandissimo cineasta. Se invece prendi i film dello Tsui Hark degli anni d’oro (fino a Time & Tide) la regia è talmente fuori dai binari che non ti rendi neppure conto di assistere a qualcosa di ancora più assurdamente ricercato. Semplicemente non hai tempo di stare a riflettere su quello che stai vedendo. Non ci capisci un cazzo ma sei felice come un bambino. Ecco, quello è grindcore.

Book Burner invece sono solo 32 minuti di grandiosa musica schiacciasassi tirata a lucido. Tutti i fan di certe sonorità lo adoreranno, ma la pelle d'oca e le pompate di adrenalina non fanno parte del pacchetto.

mercoledì 17 ottobre 2012

Manborg al cinema (ma in Canada)!


Il perché gli Astron-6 siano un gruppo di guasconi a cui tutti dobbiamo voler bene l'ho già spiegato. Facile immaginarsi quindi la mia invidia nei confronti dei canadesi venendo a sapere che da loro il nuovissimo Manborg (in realtà precedente a Father's Day) uscirà su grande schermo. Qui sotto trovate il trailer. Prima di urlare alla poverata e all'ennesimo finto b-movie vi pregherei di:

a) osservare con attenzione il poster in apertura del post. Quanto amore disinteressato e talebano per certa iconografia di cartapesta ci trovate? Un sacco. Non vedevo una roba così figa dai tempi di 2019 - Dopo la caduta di New York. E ho detto tutto.

b) rivedervi il già citato Father's Day. Tanto per riportarvi alle mente di che bombetta puzzolente stiamo parlando. E poi è il film con il finale più bello di sempre.

c) considerare che oggi come oggi il regista Steven Konstanski è impegnato con Gulliermo del Toro a dare gli  ultimi ritocchi alle creature di Pacific Rim. Per farvi capire che non stiamo parlando proprio dell'ultimo stronzo della lista. Anche se si fa produrre i film dalla Troma.

E ora... Trailer!


Kitamura + Stuart Gordon + Albert Pyun + i Bruttissimi di Oden? Tutto rivisto attraverso l'umorismo deviato degli Astron-6? Voglio il cofanetto in quadruplo DVD anche di questo! (avete capito bene, parlo di questa follia qui. Manco fosse Quarto potere).

sabato 13 ottobre 2012

How To Disappear Completely: One Man Metal



Continua la strana ossessione di Vice per il metal più intransigente. Da pochi giorni è infatti disponibile la prima parte del documentario One Man Metal, dedicata a tre delle realtà più oltranziste e isolazioniste del depressive black metal (tutte composte da un solo componente, da qui il titolo del lavoro).

Aspetti belli: l'apertura mentale dell'intervistatore e la quasi imparzialità che riesce a trasmettere. 

Aspetti brutti: nonostante tutta la buona volontà del giornalista i tre musicisti vengono comunque esposti come delle scimmie in gabbia. Il fatto che mostrino per la prima volta il loro volto al pubblico (anche se Xasthur è riuscito comunque a firmare contratti per label non esattamente da nulla come HydraHead e Profound Lore) è sbandierato ai quattro venti. Roba da basso sensazionalismo da carta straccia.

Aspetti ininfluenti: la musica. Personalmente non sono un grande estimatore di questi suoni, eppure questo non mi obbliga a pensare che abbiamo a che fare con dei subumani privi di qualsiasi talento. Logico che se cerco qualcosa di inscrivibile al metal estremo capace di annichilirmi per creatività, potenza, tecnica e genio mi procuro l'ultimo dei Between the Buried and Me (anzi, meglio ancora Colors. Album irripetibile ed evidentemente influenzato da una buona dose di culo. Non vedo altra maniera per raggiungere certi picchi). Mi pare qui interessi di più come delle persone comuni riescano a dedicarsi anima e corpo a un qualcosa destinato ad aumentare sempre più le loro tendenze asociali. Senza la minima possibilità di poter ambire ad altro. Diciamo che sarebbe come mettere in piedi una band grind-core e pensare di essere invitati ai Grammy Awards. In più mi paiono persone che stanno veramente male. Aspetto che rende le loro produzioni qualcosa di tangibile e significativo, qualsiasi sia il loro livello qualitativo. Fortunatamente tutto il cinismo post-moderno del mondo non è ancora riuscito ad annientare l'empatia tra un fruitore medio come me e chi produce qualcosa derivante dal suo autentico malessere. Sfaccettatura questa che mi rende ancora più fastidioso l'aspetto delle scimmie in gabbia (Sì, ma allora potevano dire di no, hanno firmato loro la liberatoria... blablabla... zzzzz).

Detto questo vedete voi se dedicargli 15 minuti o meno.

giovedì 11 ottobre 2012

X-O Manowar su Conversazioni sul Fumetto


Su Conversazioni sul Fumetto trovate da ieri un mio articoletto sul recente revival di X-O Manowar. Con annessa, già che ci siamo, qualche riflessione sull'andazzo del genere (inteso come fumetto di genere) nel mercato mainstream statunitense. Fatemi sapere cosa ne pensate cliccando qui.

martedì 9 ottobre 2012

C'era una volta Miike: Ace Attorney di Takashi Miike



La più grossa sfortuna di Miike è sempre stata quella di essere frainteso. Fin dagli anni delle videocassette Tartan - pagate 80.000 Lire al Bloodbuster di Milano - parlare del giapponese significa tirare in ballo inevitabilmente i suoi eccessi misogini e/o violenti. E a ragione, verrebbe da dire. Per oltre un decennio il regista di Osaka è stato sinonimo di cinema estremo, oltre i limiti imposti e sempre foriero di sorprese e picchi di brutalità. Peccato che oltre a questo ci sia un sacco di altra roba, dimenticata o neppure percepita dal neofita dell’ultimo minuto (e qui permettetemi un pizzico di elitismo, visto che sulla barca io ci sono da ormai più di 10 anni). Così succede che per ogni dieci persone pronte a citare gli aghi di Audition o le chiazze di seme di Ichi ne abbiamo solo uno (se va bene) capace di ricordare il magnifico secondo tempo di Dead or Alive 2. Un’isoletta rurale immersa nella canicola estiva, i grilli, i campetti da calcio, le scuole elementari deserte e una piccola comunità ad accogliere i fuori casta (veri protagonisti di ogni opera Miikiana) in una sorta di famiglia allargata (famiglia, altro tema portante del regista maledetto. E qui dovrebbe suonare qualche campanello d'allarme, soprattutto se si considera con che rispetto e tenerezza Takashi la racconta. Vedi il capolavoro Rainy Dog). Dopo l’esplosione di popolarità del 2005 (-post Hostel) il Nostro sembra però aver perso questa indole eversiva. Tra ossequiosi remake di classici del cinema nipponico, trasposizioni live action e poco altro pare che si sia abituato piuttosto rapidamente alle sue nuove vesti di mestierante di lusso. E, per quanto sia dura ammetterlo, non poteva che andare così. Dopo l’exploit di Izo continuare sulla via della violenza cieca sarebbe stato patetico, ad alto rischio macchiettizzazione. Gli altri aspetti importanti della poetica di questo artista erano già stati sviscerati in una serie di titoli minori (dal’infanzia di Young Thugs all’amore queer di Big Bang Love Juvenile A), spesso con risultati altissimi ma quasi sempre ignorati da un pubblico desideroso solo di nuovi fiumi di sangue. A questo punto tanto vale concentrarsi su un aspetto apprezzabilissimo in ogni altro cineasta, fino a poco fa del tutto secondario nella poetica del regista di Gozu: la professionalità.

Sono lontani i tempi delle riprese scentrate e tremolanti, tenute buone solo per mancanza di tempo e denaro (praticamente tutti i film del periodo yakuza sono girati alla “buona la prima”, lo dice lui stesso nel libro Agitator). Oggi si è arrivati al paradosso di questo  di Ace Attorney. Un ottimo giallo giudiziario, girato e fotografato benissimo, perfetto nel trasporre su pellicola gli stilemi della controparte originale (una serie di giochi per le console portatili Nintendo). Non ci sono picchi, impennate o trovate d’autore. Solo la maestria di prendere uno spunto improbabile (un simulatore d’avvocati!) e di renderlo su grande schermo in maniera rigorosa e inattaccabile. Non c’è neppure la genuina carica d’ignoranza dei due Crows Zero, imperfetti ma ben più divertenti di quello che si legge in giro (e profondamente nipponici nella loro idiozia naif e bidimensionale). Ace Attorney è un bel film, semplicemente. Meno sbrodolone di Yattaman, nonostante ricalchi il materiale di partenza con ancora più precisione, ed estremamente serio nel suo incedere (le incursioni nel surreale sono poco più che impunture). Compatto, ritmato, curato in ogni aspetto nonostante ci si renda subito conto che il budget non sia nulla di faraonico (si parla di 2/3 location in tutto). Un bel po’ di pacche sulle spalle al regista, se non fosse che da Miike vorremmo altro. Peccato non essercene accorti prima.

domenica 7 ottobre 2012

Too cool for the 80's: Detention di Joseph Kahn



Qualsiasi ambito prendiate in considerazione arriva sempre il giorno in cui il grande vecchio della situazione si metterà d’impegno a vergare il decalogo perfetto per i novellini. Se si sta parlando di creatività uno dei punti irrinunciabili della serie di consigli sarà “Smettila di farti mille domande”. Traducibile più o meno con un secco “Non avere paura di fare la figura dello stupido e buttati di testa in ogni idea strampalata a portata di mano, tanto la figura dell’idiota finirai comunque per farla. Se non ora, poco più in là”. Una massima di vita su cui non ho intenzione di discutere (anzi), e che a Joseph Kahn deve essere piaciuta un sacco.

Anche perché non vedo altre motivazioni per cui, nel 2011 (anche se il film è uscito solo nel 2012), un affermato regista di videoclip si debba auto-produrre un teen-slasher meta-referenziale (e molto ironico) incentrato su Scream. Pieno fitto fitto di dialoghi ficcanti, citazioni e strizzatine d’occhio su quanto sia banale oggi come oggi dirigere un film del genere. Insomma un macello, no? Un nuovo Jennifer’s Body su cui sfogare tutta la nostra arguzia da scafati cinefili del web. E invece no. Perché Joseph – sapendo bene di essere fuori tempo massimo e di essere un cineasta il cui unico altro lungometraggio ha una media di 3.6 su Imdb – decide di fare l’unica mossa intelligente e apprezzabile in questo tipo di situazioni: esagera. Esagera senza vergogna.

In Detention non ci sono 30 secondi filati definibili come “lisci”. Dove per “liscio” intendo esente da numeri circensi di regia e montaggio, privo di qualche riferimento ad altro o - in assenza di questo - ben generoso nel buttare nel calderone qualche ingrediente a caso. Mentre due personaggi discutono con ritmi da mitragliatrice appaiono in sovra impressione -  come pop-up di Wikipedia - le spiegazioni di quello di cui stanno blaterando, mentre la telecamera fa movimenti  impossibili, la fotografia si satura e parte la colonna sonora di qualche successo degli anni ’90 (arrivare a usare la colonna sonora di True Romance per gli stacchetti romantici significa non avere ritegno). Poi appare un bel cartello su fondo nero e ci introduce alla strana storia del ragazzo-mosca (o dell’orso viaggiatore del tempo, o della madre e della figlia che si scambiano l’anno di nascita). Dopo di che, con qualche abile gioco di montaggio, si torna al presente e si introduce un nuovo personaggio che comparirà per trenta secondi netti. C’è una scena, al limite del grottesco, dove i ragazzi sospettati della catena di omicidi vengono messi in punizione. Visto che il killer agisce come quello di Scream (“Mi hanno preso per una Neve Campbell ritardata!” esclama la protagonista) decidono di fare come nell’opera originale: studiarsi il seguito. Con i loro moderni smartphone scaricano il Torrent (letterale) e si vedono il sequel. All’interno del sequel decidono di fare la stessa cosa. Veniamo proiettati in un meta-sequel dove hanno la geniale idea di fare altrettanto. Altro salto in avanti: ora siamo in un film, dentro a un film, dentro a un film. Che però rispetto agli altri è girato con le finte spuntinature e gli effetti vintage anni ‘80 (ma dove decidono comunque di percorrere la stessa strada). Compare il killer e via, a ripercorrere a ritroso questo strano meta-tunnel fino al livello più superficiale dove scopriamo che…

Tutto questo in un intervallo di tempo che va dai 30 ai 45 secondi. Tanto per farvi capire le velocità folli a cui viaggia il ritmo, tanto frastornante quanto però monotono e privo di curvature emozionali (leggi come: va a 3000 all’ora dal primo minuto all’ultimo). Detention è uno dei rarissimi film dove sullo schermo succede più di quello che possiate capire. In questo va detto che sposa in maniera egregia la visione del mondo degli adolescenti di oggi. Immersi costantemente in un flusso di stimoli sconquassante e costituito unicamente da frammenti del decennio più hype del momento (ieri gli ‘80s, oggi i ‘90s).  Joseph Kahn ha un occhio mirabile (innegabile) e affastella senza pietà inquadrature iper-moderne come se nulla fosse, sbeffeggiando con una sonora pernacchia tutta la ricerca portata avanti da un talentuoso (e noioso) come Ti West. Messa brutalmente sulla quantità si può dire che in Detention c’è tanta di quella roba da consigliarlo anche solo per rendersi conto di cosa si possa fare con una telecamera e una sana dose di talento.

In conclusione: nonostante quello che se ne può pensare Detention è all’antitesi del cinema hipster. Non è l’artistoide vestito come un contadino dell’’800 dipendente da Instragam, quanto l’adolescente che considera le Adidas di peluche disegnate da Jeremy Scott come scarpe eleganti. Probabilmente finirà per irritarvi. Lui se ne fregherà e continuerà stoico sulla sua strada.Quindi tanto vale mettersi comodi e godersi le sue trovate clownesche. Dietro la sua idiozia non dico si nasconda della genialità (neanche per scherzo) ma neppure l'encefalogramma piatto che troppa gente tende ad aspettarsi. E poi dove lo trovate un film che ha il coraggio di piazzare gli Hanson sulla trionfale scena conclusiva?