Difficile trovare una figura più controversa di Takashi Miike nel panorama cinematografico dei nostri giorni. Il regista di Osaka riesce a imporsi nel medesimo tempo sia come autore austero che come perfetto prodotto del mercato. Inutile stupirsi di come un artista osannato da Ghezzi e Muller (mica gli ultimi due arrivati) possa passare alla speculazione videoludica, senza dimenticarsi di essere stato scelto dagli intellettuali nipponici come regista di The Great Yokai War e di essere amato in tutto il mondo per la sua misoginia e crudeltà, cosi come per le sue dolci digressioni infantili. Una schizofrenia che lo ha portato, a solo un anno di distanza dalle sperimentazioni queer di Big Bang Love, Juvenile A, a dirigere questa marchetta pulp.
Sukiyaki Western Django è chiaramente un’operazione studiata a tavolino (come testimonia il cameo di Tarantino nei panni di Ringo), un mezzo fallimento concepito come il prossimo cult planetario. Lo stadio finale di un piano ben congegnato, ma sabotato dall’interno da Miike stesso. Un uomo che non riesce in nessun modo a rendersi invisibile, abbassandosi al livello di shooter pagato a ore.
La prima barriera contro cui il grande pubblico rischia di infrangersi è la concezione di ritmo del Nostro: assistere a un film di Miike è una prova non da poco. Si ha la sensazione di aver assistito a un lungometraggio di 3 ore dopo soli 20 minuti di proiezione. Per lassi di tempo enormi non succede nulla, poi tutto si brucia nel giro di una manciata di secondi. Nel frattempo davanti ai nostri occhi si affastellano decine di personaggi, situazioni, storie apparentemente inutili. Un linguaggio cinema che non affabula lo spettatore, che non lo anestetizza. Una continua corsa alla sperimentazione all’interno del genere puro che non può che ricordare il pioniere Seijun Suzuki. Esattamente come il regista di Tokyo Drifter (1966) la composizione dell’inquadratura è maniacale, sfruttando a pieno l’enorme talento visivo di Miike, ma mai convenzionale. Si ruba a piene mani da manga, videogiochi, cinema di ogni parte del mondo. Quello che ci viene restituito è un affresco western rivisto con ottica iper moderna. Dentro ci trovi un po’ di tutto: fondali dipinti, sangue a fiumi, pose plastiche, umorismo slapstick, dramma, citazioni dalla serie Female Prisoner Scorpion di Shunya Ito fino a Da uomo a uomo di Giulio Petroni,… Il perfetto prontuario per una versione wasabi del Grindhouse statunitense, se in ballo non ci fosse il regista meno adatto a questi contentini per un pubblico di nostalgici.
La messa in scena è sontuosa, dai paesaggi agli stupendi costumi, e tutto gioca con la confusione tra occidente e oriente. O meglio: tra come l’oriente voglia apparire occidentale e come appare in realtà. Una recitazione in un inglese stentato diventa cifra stilistica se messa in mano a un pazzo come l’uomo dietro Ichi the Killer. Scelta confermata dal fatto che l’unica frase in Giapponese di tutto il film viene urlata da un uomo in punto di morte. Come se il tempo dei giochi fosse finito. Come se, sotto sotto, la propria nazionalità fosse più forte di ogni condizionamento.
E se questo Django fosse il primo film moraleggiante di Miike? Cosa vi sareste aspettati da un remake di un film italiano (anzi, per un certo senso, del film italiano per eccellenza) girato con mentalità statunitense da un giapponese? Una puttanata, poco altro. Takashi si toglie un sassolino grande quanto un macigno dalla scarpa e rincara la dose di polemica bulldozer portata avanti dal suo episodio Imprint per la serie Masters of Horror (l’unico episodio di un regista orientale per una serie americana, l’unico episodio censurato). Probabile che la sua parentesi americana nasca e finisca qui, con sua (e nostra) grande felicità.
Iconoclasta fino alla fine. Proprio come il Django di Corbucci.
3 commenti:
Quindi: se dico che è una puttanata (come ho detto), non sto dimostrando di Non Capirci Un Cazzo Di Cinema, giusto?
No, no. Il film è una mezza sola (anche se stupendo a vedersi) ma il mio sospetto è che Miike ci abbia messo parecchio del suo per farlo risultare tale. Il fatto è che Takashi è troppo nipponico per ogni altro mercato. Io avrò visto più di 20 dei suoi film, ma ogni volta è una lotta. Di pro ci sono le sue solite tremila invenzioni, gli eccessi e le contaminazioni. Di contro il ritmo e il suo amore per gli spazi tra le righe. In poche parole, un condensato del cinema nipponico. Se quello che ci arriva da HK, Korea e Thailandia è facilmente vendibile a chi ha un minimo di interesse per il cinema dell'altra parte del mondo, per avvicinare qualcuno al cinema jappo bisogna cercare i film con il lanternino. Per rimanere in campo spaghetti remake penso al The Good, the bad and the weird uscito in Korea: già dal trailer (lo trovi nel blog) si capisce a cosa si va in contro. Un giocattolone iperpatinato, ipercinetico, ipertecnico e votato unicamente al divertimento. Perchè il film originale è mitologia e messo in mano a un furbone come Kim Jee-woon (guardati A Bittersweet Life e dimmi se non è un John Woo in D&G) il risultato è certo. Django invece è puro terrorismo cinematografico (bastano i primi 10 minuti dell'originale per capire cosa voglio dire), e proporre un remake al più anarchico tra i registi giapponesi, con in più intenti commerciali, è stato un suicidio. E Miike non ha fatto nulla per evitarlo. Anzi.
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