giovedì 28 aprile 2011

Glory to the real thing: Machete Maidens Unleashed artwork & release date



Ne avevo già parlato qui. Adesso abbiamo una data di uscita (metà maggio) e l' artwork ufficiale del dvd-case. Con tutto il cuore: in culo a Rodriguez.

mercoledì 27 aprile 2011

[Pyunologia pt.4] Radioactive Dreams di Albert Pyun (US/1985)



Perché la storia (anche quella del cinema) non è fatta solo da chi sta in cima. Anzi, spesso è proprio dal basso che arrivano gli scossoni più interessanti. Basta saperli sentire. Partendo da questo presupposto ho maturato la decisione di recuperare l’opera omnia di uno dei registi più (ingiustamente) vituperati di sempre: Albert Pyun. Parte così Pyunologia, percorso in una poetica da VHS.


Altro giro, altra corsa nel pazzo immaginario di Albert Pyun. Oggi tocca al suo secondo lungometraggio, il folle Radioactive Dreams. L’idea è geniale: poco prima dell’ecatombe nucleare due bambini vengono rinchiusi in un bunker. Ci vivranno per quindici anni, allenandosi nei loro passatempi preferiti e leggendo tonnellate di romanzi hard-boiled. Completamente assorbiti in uno stile di vita alienante finiscono per lasciarsi trasportare, convincendosi di vivere in un noir anni ’40. Quando finalmente riescono a riemergere dalla caverna in cui sono confinati si ritrovano in un mondo diversissimo da come se lo ricordavano. Distese desertiche ovunque, mutanti, cannibali, gang di ogni genere e un costante tappeto sonoro composto da canzoni a metà tra il pop ottantiano e il punk più annacquato. Il quid di genio sta proprio nell’aver messo nella stessa sceneggiatura tutti i cliché della commedia adolescenziale, del poliziesco alla Robert Aldrich e del post-atomico più oltranzista. Tutto impacchettato con una messa in scena poverissima, sostenuta solo dal mestiere e dal vigore di Pyun. Qui più che mai colonna portante dell’intera operazione.


Radioactive Dreams porta a ben più di qualche risata, e nessuna involontaria. I due attori protagonisti paiono veramente strappati di peso da un film della prima metà del ‘900, tra umorismo slapstick e una continua progressione verso il ruolo da duro e inflessibile alla Philip Marlowe. Attorno a loro l’universo imbastito da Pyun non ci risparmia nulla, dal dinosauro assassino che emerge dalle fogne a un duo di bambini sboccatissimi e violenti. Vestiti come John Travolta ne La Febbre del Sabato Sera e perennemente muniti di boombox farcita di disco. E poi carretti in legno che esplodono appena escono di strada (gag degna dei Simpson) e una cantante pronta intonare nei momenti più inopportuni il tema del film. Senza dimenticare, come già detto, tutti i luoghi comuni dei filoni citati. In un mondo visto da due ragazzi cresciuti con la sola compagni di di Raymond Chandler e Dashiell Hammet non potevano mancare trench, cappelli a falde strette, una femme fatale capace di attirare guai in maniera prodigiosa e l’irrinunciabile MacGuffin, motore primo di tutta la vicenda. Linguisticamente Pyun ci mette voci off e tagli di luce nettissimi, soprattutto nei momenti di maggiore pathos.


Insomma, un delirio. Che sarebbe potuto rientrare tranquillamente tra i grandi classici per ragazzi degli ’80 (come era palesemente studiato per essere) se non fosse per un budget criminalmente basso. In qualunque caso una grande prova dell’hawaiano, capace di impregnare ogni singolo fotogramma della sua autorialità a basso costo. Nonostante tutti i suoi limiti Radioactive Dreams è divertente, frizzante e ricco di immaginazione. Frutto di una moda a cui era impossibile sfuggire eppure dotato di una fisionomia forte e ben delineata. Simile a tanti titoli ma diverso da ogni cosa abbiate visto prima.


lunedì 25 aprile 2011

Luigi Presicce e l'arte per pochi






Apprendo dall’ultimo numero di Studio che il grande AA Bronson è impegnato in una serie di performance prive di pubblico. Moderni riti esoterici che nascono e muoiono in luoghi segreti, senza testimonianze filmate o fotografie. Il canadese dice di essere arrivato a fare una scelta così estrema in risposta agli eccessi mediatici a cui è arrivato il mercato artistico/creativo. Dove ormai non conta quello che fai ma quanta gente ne fruisce e ne parla (anche a sproposito). La cosa mi stimola ma la trovo forse troppo radicale per avere un peso reale. Poi scopro che la nuova edizione di Emerging Artists – Young Italian Art (il più importante concorso italiano per artisti emergenti) è vinto da Luigi Presicce. Luigi non produce nulla di tangibile, non vende le sue opere e non è rappresentato da nessuna galleria. Perché tutto quello che fa il leccese è mettere in scena strambi teatrini pagani, quasi sempre per un pugno di persone. Tanto per farvi capire, la performance che gli ha permesso di vincere il premio è stata eseguita davanti a due bambini (ma ne esiste comunque un video). Leggendo le interviste ci si rende conto che Presicce è tutt’altro che un genio della comunicazione, interessato solo al suo mondo fatto di riti pagani, immobilismo e strani make-up. Eppure la sua poesia ti smuove qualcosa dentro. Mi sfoglio tutte le testimonianze delle sue performance precedenti e ne rimango estremamente affascinato. La voglia di partecipare a questa riproposizione moderna di oscuri riti mistici è tanta, anche se è facilissimo intuire che non ne avrò mai la fortuna. L’arte sfugge definitivamente alla riproduzione tecnica e torna a essere qualcosa di enorme. Affascinante eppure/perché incomprensibile. Poi, dopo anni di ultramateralismo e ironie assortite, la presenza di simbolismi neri ed esoterici ha il misterioso potere di attirarmi come una mosca sul miele (anche se, a essere onesti, il primo a spingere su questo versante è stato l’americano Banks Violette con le sue installazioni a base di black metal e suicidi adolescenziali). A conti fatti abbiamo a che fare con una poetica criptica, invisibile, inquietante. Tutto il contrario di quello che ci hanno insegnato ad apprezzare nell’ultimo decennio.

venerdì 22 aprile 2011

La fanzina più grossa del mondo






Ieri, dopo mesi di attesa, mi sono ritrovato nella cassetta delle lettere il tanto agognato Directory di Ari Marcopoulos. Pensavo si trattasse del solito, raffinato tomo made in Rizzoli US e invece mi sbagliavo di grosso. Directory è essenzialmente una fanzina di 1200 pagine. Stampata in b/n su carta da giornale, impaginata spartanamente e arricchita con una fotocopia a tiratura limitata (!) firmata dallo stesso autore. Una fregatura? Neanche per scherzo.


A parte il costo ridicolo del volume (ve la cavate con 30 euro) tutte le scelte prese si sposano perfettamente con la poetica del fotografo statunitense. Ruvido, suburbano, underground e sanguigno fino al midollo. Directory non fa nulla per piacere al lettore (perfino la scelta delle fotografie sarebbe discutibile, con una reiterazione ossessiva di soggetti quasi identici) eppure risulta estremamente affascinante. Dopo tutto si tratta di un viaggio intimo e sentito nell'immaginario di un'artista che ha vissuto sulla sua pelle gli ultimi 30 anni di controcultura di strada. Quanto avrebbero stonato carta patinata e slipcase ultra-grammato?

martedì 19 aprile 2011

Più giustizia (arbitraria) per tutti



E' on line Giustizia Arbitraria, nuovo progetto di Federico Sfascia. Tanta scorrettezza gratuita per cominciare bene la giornata. Cosa volete di più?

Il peso delle morti virtuali




Un paio di segnalazioni circa un argomento di cui nei prossimi mesi sentiremo parlare parecchio. Prima di tutto l'installazione qui sopra, a opera di Riley Harmon. Per ogni morto nei server di Counter Strike la macchina perde del sangue, tracciando dei segni sul muro. La dipartita virtuale diventa così reale e tangibile.


Altrettanto affascinante questo pezzo di Jamie Madigan. Il tema è semplice: e se la piattezza della narrativa videoludica fosse data dalla violenza gratuita e ottusamente ineluttabile?


E già che ci siete fatevi un giro anche su Kill Screen, uno dei pochi siti (e magazine cartacei) che parlano di videogame in maniera seria.

lunedì 18 aprile 2011

PressPausePlay




Trailer di quello che sembrerebbe un bel documentario (nonostante Moby) sulla recente rivoluzione digitale. Quella che ci ha reso tutti creativi e ha permesso a chiunque almeno di provarci. Nonostante quelli della vecchia guardia non l'abbiano ancora accettato del tutto non mi pare affatto una cosa da poco.


Maggiori informazioni su http://www.presspauseplay.com/ .

giovedì 14 aprile 2011

[Pyunologia pt.3] Captain America di Albert Pyun (US/1990)



Mi si lasci il privilegio di partire prendendola piuttosto larga. In uno degli scorsi interventi relativi al nostro regista hawaiiano preferito si era tirato in ballo un confronto con Mario Bava. Considerato il fatto che si sta per andare a parlare di cinecomics anche questa volta occorre scomodare il Maestro, sempre nella prospettiva di poter capire meglio le intenzioni di Pyun. Per arrivare a parlare di Captain America si deve partire infatti da Diabolik (diretto da Bava, ovviamente), campione indiscusso del suo genere anche a distanza di decenni.


A differenza di tutti gli altri cinecomics prodotti Diabolik riesce a dare una profondità enorme al linguaggio del fumetto rendendolo, paradossalmente, pura superficie. Inscrivere l’opera di Bava unicamente nel linguaggio cinematografico è infatti un errore di concetto imperdonabile. Tirando le somme siamo più dalle parti della video arte sui generis, complice la fusione completa tra pop-art e prodotto di genere. In misura molto maggiore rispetto agli horror di Morrissey prodotti dallo stesso Warhol, tra l'altro. Mario Bava getta in faccia allo spettatore una versione apparentemente stereotipata e piatta della narrativa disegnata, giocando invece su come luoghi comuni e percezione della finzione abbiano influenza sul grande pubblico. Il risultato è un film dove le cose che sembrano vere in realtà non esistono (tutta la caverna sotterranea di Diabolik era composta in realtà da modellini ingranditi con un gioco di specchi) e le poche cose vere sembrano finte (il castello in cui avviene il furto di gioielli pare fatto di cartapesta). Meravigliose poi la continue prese in giro nei confronti di certe esagerazioni da blockbuster, in primis la distruzione di tutti gli uffici del governo (scena copiata poi da Fincher per il finale del suo Fight Club). Ancora una volta il Maestro si riconferma tra i più grandi registi di sempre, affinando la sua incredibile capacità di ratificare i generi e contemporaneamente di rileggerli in chiave postmoderna (con almeno 40 anni di anticipo). Operazione riscontrabile nel sabotaggio al gotico di La Maschera del Demonio, nello slasher totale Reazione a Catena (a cui bastano i primi 10 minuti per destrutturare il genere, inventato dallo stesso Bava con 6 Donne per l’Assassino), nella psichedelia ipertrofica di Ercole al Centro della Terra (uno dei pastiche di generi più strabordanti a cui abbia assistito) e, tra le altre cose, nella sottilissima parodia della fantascienza low budget di Terrore nello Spazio (in cui compaiono tre razze di alieni senza che se ne veda una. Tutto grazie a raffinatissimi giochi di sceneggiatura e messa in scena).


Un lavoro concettuale straordinario e in anticipo sui tempi, a cui va a fondersi una messa in scena di una classe e di uno stile (chi se lo ricorda?) che oggi sarebbero impossibili anche solo da mettere su carta. Dalle scenografie sospese tra il design di Joe Colombo e le più sfrenate fantasie alla James Bond fino alla colonna sonora di un Morricone in stato di grazia, capace di unire lounge music e free jazz. Senza dimenticarsi di una Marisa Mell oltraggiosamente bella (sempre fasciata in miniabiti da infarto) e di Michel Piccoli nella parte di Ginko. Confrontate con la CGI e la totale mancanza di gusto odierne e avrete un risultato impietoso (a dir poco).


Tornando sul Capitan America di Pyun ci si deve fermare all’aspetto teorico. I primi 30/35 minuti sono la precisa trasposizione tardo ottantiana di quanto fatto da Bava con Diabolik. Il fumetto si palesa come tale e si auto sabota infilando continui richiami al ridicolo tra le pieghe del cinema di cassetta. Di fatto tutta questa prima parte del film è straordinaria. Pop a budget zero, divertentissimo e scanzonato. Non indugia sui propri difetti e si concentra piuttosto su ritmo e trovate da b-movie horror. Se dopo si volesse fare i precisi a ogni costo ci sarebbero intere sequenze sovrapponibili agli Ultimates di Mark Millar, ma facciamo finta di niente e manteniamo un bel ricordo di una bella serie a fumetti. Si deve dire però che se le esagerazioni su carta hanno la funzione di gasare il nerd medio, su pellicola hanno un risultato praticamente opposto. Vedere un Capitan America che si fa un volo intercontinentale attaccato a un razzo ed evita all’ultimo minuto l’impatto di questo con la Casa Bianca semplicemente prendendo a calci il missile è paragonabile solo al nostro Capitano che, dopo essersi risvegliato da un ibernazione di 50 anni, si fa Groenlandia – Canada di corsa. Tutte cose che, per inciso, nel film succedono veramente. E sono comunque meno fiche del Teschio Rosso che parla italiano (visto che nella trasposizione cinematografica lo si fa passare per frutto di esperimenti del regime fascista).


Peccato che dopo un inizio così scoppiettante il lungometraggio si involva paurosamente, trascinandosi stancamente fino al finale. Siamo sempre nella zona dell’opera godibile, ma quel senso di autentica perla dimenticata che riesce a trasmettere nei primi minuti svanisce poco a poco. La poetica di Pyun è soffocata dai bisogni di una produzione infame, riuscendo a malapena a fare capolino. Rimane il sapore dell’amaro in bocca nell’accontentarsi di un quasi mediocre film TV quando si sarebbe potuto avere tra le mani un capolavoro psicotonico di povertà e fantasia (come era stato The Sword & The Sorcerer). Peccato, non rimane che consolarsi riguardandosi le prodezze di Marisa Mell/ Evan Kant.



lunedì 11 aprile 2011

Il mio amico cappellone: Hesher di Spencer Susser (US/2011)



Sarà che io di metallari fattoni ne ho sempre frequentati tanti (troppi), però questo trailer mi garba parecchio. Sperando che non si risolva nella solita indie-commedia in agrodolce.

domenica 10 aprile 2011

A volte va anche bene: A Better Tomorrow di Hae-sung Song (Kr/2010)



Si può perdere del tempo a scrivere un articolo sul remake coreano di A Better Tomorrow? Contro ogni aspettativa la risposta è sì. Non perché il rifacimento in questione sia un capolavoro, ma perché almeno coglie lo spirito dell’originale e, attenzione attenzione, ha l’ardore di approfondirlo (pur rimanendo una pellicola di cui nessuno sentiva il bisogno). Il regista Hae-sung Song ha la scaltrezza di evitare sparatorie, balli di morte e laghi di sangue. Della trilogia di John Woo/Tsui Hark va a riprendere piuttosto il vero aspetto rivoluzionario: l’eroe che piange, fallisce, muore. Se a metà degli anni ’80 lo spettatore occidentale era bombardato da testosteronici macrocefali statunitensi, tutti in gara per la pistola più grande e la battuta più scontata, a HK nasceva una nuova generazione di personaggi romantici. Capaci di uccidere centinaia di nemici (da qualche parte avevo trovato il bodycount di Chow Yun Fat, e si parlava veramente di numeri a tre cifre) così come di sciogliersi in lacrime per un amico perduto o ritrovato. Sorprendente come in 20 anni di plagi all’opera del Maestro nessuno dei sedicenti discepoli (leggi: sciacalli) abbia mai capito che il fulcro su cui ruotava tutta la sua poetica non erano i mexican stand off, e neppure le coreografie con i caricatori infiniti, quanto piuttosto il melodramma sottocutaneo. Quello che traspare anche in una matrice noir. E allora tutti ad approcciarsi a questo remake pregustando chissà quali leccornie balistiche, rimbambiti da anni di reboot hollywoodiani, eretti all’ombra dell’onnipotente e onnipresente adagio bigger is better. Così un onesto mestierante come Song ci frega tutti. Relega le sparatorie a sole due scene (seppur belle toste, frenetiche e violente a regola d’arte) e poi ce la mette tutta per rendere ancora più tridimensionali i rapporti tra i personaggi. Il risultato è una pellicola molto meno dirompente di quella del 1986, ma più cupa, completamente priva di un domani migliore a cui aspirare. Non un capolavoro, semplicemente un buon film che sa almeno dove andare a parare (e non è roba da poco). La produzione è nella media del prodotto di cassetta sud coreano, quindi più superficialmente curato di tutto quello che si vede generalmente da noi.


A questo punto apriamo un discorso sul cinema che ci ha regalato Park Chan Wook e Bong Joon-ho. Odiato e sbeffeggiato da chiunque, negli scorsi anni ci ha presentato sul piatto d’argento diversi prototipi per il blockbuster perfetto. Pensare che ci sia gente disposta a lamentarsi di un I Saw the Devil per poi perdonare qualsiasi scivolone al peggio horror da multisala proveniente dagli Stati Uniti dovrebbe farci capire tante cose. Prima di tutto il livello di offuscamento culturale a cui siamo arrivati. Criticare preventivamente un film (spiccatamente commerciale) perché avrà una fotografia perfetta, costumi raffinati e un impianto scenico da spot patinato significa cedere al grottesco e al cattivo gusto per il puro gusto di farlo. Se il prodotto a cui punto ha velleità artistiche o autoriali è logico che la messa in scena vada incontro (se necessario) a un imbruttimento controllato e allineato alla poetica del regista (vedi Aronofsky). Quando invece lo scopo è il semplice intrattenimento, con la messa in produzione di enormi giocattoloni vuoti e fatui, la ricerca di un’estetica perlomeno ricercata è il minimo che ci si possa aspettare. Altrimenti ci meritiamo il nerd che compra il blu-ray dell’ennesimo Grindhouse-clone per potersi vedere la finta pellicola rovinata in alta definizione. Così si finisce a leggere in giro di stroncature a Kim Ji-Woon (l’esempio più rappresentativo) perché fa film troppo belli a vedersi. Tutte critiche che in Italia invece si muovono a quel genio di Sorrentino, l’unico nostro cineasta capace di dettare legge a livello planetario (e se dite di no allora non avete visto Il Divo).


In conclusione si può dire che il nuovo A Better Tomorrow meriti ampiamente la visione. Non siamo di certo dalle parti della pietra miliare, ma neppure della speculazione per lobotomizzati. E' innegabile il mestiere di chi scrive e dirige, con esempi di bravura, tipo la gara a chi monta prima la pistola, capaci di strappare sorrisi compiaciuti anche al più distaccato degli spettatori. Godeteveli, perché tutto il resto del film non sono che lacrime e sangue. Straziante il finale. Molto, molto, molto più duro e pessimista dell’originale.




giovedì 7 aprile 2011

Quarto Potere beccati questo: Fight for Your Right di Adam Yauch



Come se non fossi già abbastanza felice del fatto che il tre maggio arriva il nuovo disco dei Beastie Boys adesso esce anche questo trailer, anticipazione del corto diretto da Adam Yauch (dei tre quello con la faccia seria) in uscita lo stesso giorno. Natale quest'anno arriva prima.

mercoledì 6 aprile 2011

Miike e il Mucchio Selvaggio: 13 Assassins di Takashi Miike (JP/2011)



Tanto per mettere le cose in chiaro fin dalla prima riga: 13 Assassins è il miglior Miike da molto, troppo tempo. E guarda caso arriva al risultato battendo la via meno idolatrata e conosciuta al suo pubblico, sempre più generalista e meno competente (sono lontani i tempi delle VHS Tartan Video pagate a peso d’oro). Per il consumatore medio (all’interno della nicchia del cinema di genere “ricercato”) Takashi rimarrà per sempre quello dello splatter estremo e/o quello dei blockbuster sopra le righe alla Yattaman. Chi fa parte di questa categoria ricorderà questo suo ultimo lavoro solamente per i 40 minuti di massacro e per la trovata delle mucche in fiamme. Non ci vedrà un omaggio livido e doloroso a un cinema (e a un mondo) che non esiste più. Tantomeno una parabola discendente di uomini nati fuori tempo massimo, schiacciati dagli obblighi di una società ormai priva di senso ma comunque invadente e arcigna nel suo mantenere fino all’ultimo una parvenza di dignità.


Il Miike di 13 Assassins è lo stesso di Graveyard of Honor (guarda caso un altro remake ossequioso di un classico del cinema nipponico), Agitator, Rainy Dog e del dittico Young Thugs. Così succede che la prima ora e venti, immobile, statica, teatrale, colpisca molto di più dell’esasperante scontro dell’atto conclusivo. Nel narrare della prima e ultima missione di un gruppo di samurai privi di senso (uomini di guerra in un'epoca di pace, ingaggiati per un lavoro che va contro ogni loro logica) Miike mette più cuore ed enfasi nella fase antecedente alla catartica carneficina rispetto che al sanguinoso climax. Facce di soldati che tremano all’idea di dare finalmente un significato alla loro vita, come se non avessero mai avuto reale libertà di scelta. Da questo punto di vista questo nuovo lavoro del regista di Osaka si pone nel filone dei samurai ribelli, accanto a mostri sacri come Hideo Gosha e Masaki Kobayashi. Tutta l’epica di una vita dedicata allo scontro viene smontata da morti indecorose e gelide, prive del pathos solitamente riservato agli eroi. E una volta portata a termine la missione non rimane più nulla da fare se non lasciare a terra il fardello del samurai e incominciare a vivere veramente la propria vita.


Naturalmente di uscite prettamente Miikiane ce ne sono a secchiate, ma raramente come in questo caso appaiono come puro contentino per chi vuole la trovata a effetto a ogni costo. La realtà è che 13 Assassins avrebbe funzionato benissimo anche con una costruzione ellittica alla Mongol, dove ogni scontro viene puntualmente evitato per mostrarci direttamente le conseguenze. E come nel film di Sergei Bodrov ci si sarebbe lasciati un attimo prima della battaglia conclusiva. Tanto come va a finire lo sappiamo già tutti.



domenica 3 aprile 2011

Il giorno dei cazzi esplosivi: The Taint di Drew Bolduc & Dan Nelson (US/2010)



Sono diversi i motivi per cui si vanno a evitare accuratamente certi prodotti: quando dal trailer si percepisce che il pedale del trash è ben bloccato con un mattone è quasi automatico che il pensiero corra a umorismo da bambino stupido (geyser di sangue ma nessun riferimento al sesso), digitale di bassa lega e zero profondità. Per fortuna che con The Taint si è lontanissimi da tutto questo. L’esordio dietro alla macchina da presa da parte di Drew Bolduc (anche grandioso protagonista) e Dan Nelson è una scoreggia tirata al momento e nel posto giusto. Dite quello che volete ma ci vuole talento anche per questo. Dietro l’apparente indulgenza verso lo splatter e il nonsenso questo piccolo, grande film nasconde una riflessione lucida e spietata sulla misoginia strisciante dei nostri anni. Esattamente come succede in South Park la carica dissacratoria è talmente dirompente da coinvolgere anche i suoi stessi autori. Così si seppellisce il lato serio e spietato dell’opera sotto una quantità sconsiderata di peni esplosivi e macchiette comiche. A una tesi piuttosto seria abbiamo a fare da contraltare una Tromata (post Gunn) come non se ne vedeva da tempo, con tanti di quei riferimenti a pornografia e omosessualità repressa da fugare ogni dubbio sulle vere intenzioni dei due registi/sceneggiatori.


The Taint racconta di un’epidemia di misoginia diffusa da un siero introdotto nelle acque di una tranquilla cittadina. Lo spettatore seguirà il pellegrinaggio (con tanto di folgorazione messianica sulla via di Damasco) di Phil O'Ginny, il ragazzo più figo della sua scuola. Un personaggio spassoso, totalmente fuori parte nella sua idiozia e nella sua incapacità di rapportarsi agli eventi. Attorno a lui graviteranno gang di fanatici del fitness, amazzoni munite di fucile a pompa, scienziati pazzi perennemente ubriachi e fiumi di sangue. Tutto girato in un digitale splendido, reso ancora più prezioso da una fotografa che non ci si crede. Completa l’opera un montaggio tra il grezzo e l’epilettico. Unico punto dell’opera in cui non si capisce se il risultato sia quello voluto o frutto del puro caso.


Umorismo caustico, mancanza totale di buon gusto, grandi personaggi, un bel pò di sangue e un gran filotto di gag riuscitissime. Tutto scritto, girato e prodotto in totale autonomia, con un budget prossimo allo zero. E in più il dvd ti arriva a casa arricchito da un artwork strepitoso, fotocopiato su carta rosa (idea stupenda, trasudante underground più di mille altre boiate viste in giro). Una delle numerose opzioni date allo spettatore per godersi il film. A questa infatti vanno aggiunte ben tre modalità di download (HD, Ultra HD e SD) e la gloriosa VHS (trasparente e autografata, stampata in 88 copie). Bolduc e Nelson riescono così ad aggirare ogni problema di distribuzione o censura, semplicemente vendendo The Taint per conto loro e curandone con minuzia ogni aspetto. Il risultato è il film più vivo, frizzante e libero che mi sia capitato vedere in questi primi quattro mesi del 2011. Ne voglio ancora.



sabato 2 aprile 2011

Jon Chang ti voglio bene: Gridlink - Orphan (Hydrahead Records/2011)



Orphan è il motivo per cui adoro il grind. Tre anni di duro lavoro per neanche un quarto d’ora di musica. 12 tracce che il 99,9 % della popolazione mondiale non riuscirebbe a distinguere dal rumore di un incidente stradale.