giovedì 31 luglio 2008

Silverfish di David Lapham: nuova linfa teen slasher

Silverfish non è un capolavoro. E neppure un must have per il fumettofilo più generalista, per essere sinceri. Eppure, nonostante questo, riesce comunque a essere meglio di tutto quello che il cinema US ci ha proposto in fatto di teen slasher negli ultimi 10 anni.



Gli ingredienti ci sono tutti: adolescenti, misteri, assassini seriali e sparute tracce di conflitto generazionale. Ogni parola in più sarebbe in bilico tra lo spoiler che non ti aspetti e l’informazione già nota, in una ragnatela di riferimenti più o meno espliciti che David Lapham tesse con consumata abilità (dopo tutto è l’uomo che ci ha donato Stray Bullets!).



Silverfish rimane a tutti gli effetti un'opera di forma, dimenticandosi di approfondire il contenuto a favore di uno studio maniacale del linguaggio genere. Il risultato è un So Cosa Hai Fatto su carta, ma molto più avvincente, ritmato e cattivo della controparte a 24 fotogrammi al secondo. Un’ autentica sceneggiatura disegnata che batte di gran lunga tutte quelle che hanno raggiunto la celluloide da Scream a oggi. Colpisce come ancora una volta la narrativa “bassa” (o legata a un medium “basso”) riesca dove linguaggi considerati alti, in questo caso perdenti anche sullo stesso campo da gioco (perché Silverfish non ha nessun aspetto legato in maniera esplicita al fumetto), falliscono.



La rilettura di un filone narrativo fin troppo codificato non è certo un compito all
a portata di tutti, ma Lapham dimostra di saper maneggiare la materia fluida di cui è composto il nostro immaginario collettivo. Contando unicamente su dialoghi frizzanti, filosofie ben definite e un montaggio che concede al cliffhanger l’importanza che gli spetta.



Che Kevin Williamson e compagnia cerchino di fare lo stesso.







martedì 29 luglio 2008

Consigli per gli acquisti: The Chaser, GP506, Shamo, L change the World

Vi aspetta un agosto bloccati in casa? Non demoralizzatevi, armatevi di carta di credito e connettetevi a Yesasia.com, autentico scrigno dei tesori per l'amante del cinema orientale. Tra le chicche in uscita in questi giorni:


The Chaser: noir koreano ultrastiloso. Tutto già visto tra Old Boy e A Bittersweet Life, ma perchè privarsi della solita dose di melodramma, mazzate e scene catartiche sotto la pioggia?



GP506: dallo stesso regista del terrorizzante R Point (zombie/Vietnam movie) un nuovo excursus nel horror bellico. Sempre dalla Korea del Sud.



Shamo: tratto dall'ultraviolento e omonimo manga, diretto da Soi Cheung. Per fare chiarezza il nuovo maestro dietro a capolavori del nichilismo come Love Battlefield e Dog Bite Dog. Dicono tutti che sia una marchetta paura, ma sinceramente per Soi questo e altro.

L change the World: al terzo capitolo pare che la popolare serie di Death Note si sia decisa di munirsi di un vero regista: Nakata Hideo, che tutti conoscono come la mente dietro a The Ring e Dark Water. Cult?



Tutti reperibili da YesAsia, sottotitolati (in inglese) e a prezzi modici (evitate le edizioni jappe!).



lunedì 28 luglio 2008

Diary of the dead: Romero e l'iperrealtà di Baudrillard


Romero deve essere un folle totale. Perché solo un folle sarebbe capace di dare in pasto a un pubblico di autentici rompicoglioni (come solo nerd e bloggers possono essere) un’opera che fa della mediocrità e dell’errore il suo punto di forza. Diary of the dead non è un film di zombie (ma quale dei film di Romero lo è stato?) visto dagli occhi di un videoamatore, non è un horror e non è neppure una sperimentazione sui nuovi linguaggi della comunicazione. Diary of the dead è semplicemente iperrealtà.



Secondo Jean Baudrillard sia ha l’iperrealtà dal momento in cui il non si riesce più a distinguere la rappresentazione dal rappresentato, la simulazione dall’originale. E questo è esattamente ciò che succede nel nuovo capitolo dell’opera Romeriana: per tutti i 90 minuti della visione assistiamo a immagini che dovrebbero essere spacciate per vere e grezze, ma in realtà sono fotografate, montate e musicate come un film horror di serie b. Una scelta suicida ma consapevole, come testimoniano alcune soluzioni troppo grottesche (il motivetto sudista che accompagna l’uscita di scena della ragazza texana) per essere frutto del caso. Nel contempo testimonianze di autentiche disgrazie e sciagure (materiale di repertorio, nulla è ricreato ad hoc per l’occasione) sono utilizzate per narrare il dilagare fittizio dell’epidemia. Ma se i frammenti che dovevano sembrare veri si palesano come finti e quelli indiscutibilmente veri danno l’impressione anch'essi di essere slegati dalla realtà, cosa si può definire reale all'interno di una finzione? E nel reale stesso?



Riflessione che culmina nella scena capolavoro, autentico colpo di genio che permette di assumere il giusto punto di vista e di decodificare una lunga serie di scelte a dir poco anticonvenzionali. All’inizio del lungometraggio assistiamo alle riprese di un film horror a basso budget da parte di un gruppo di studenti universitari (i protagonisti del film). Durante la lavorazione il nervosismo spinge i ragazzi ad accese discussioni su cosa possa essere credibile o meno all’interno di tale cornice, arrivando a deridere molti dei luoghi comuni rintracciabili all’interno di questo tipo di cinematografia. In chiusura di Diary of the dead abbiamo invece la stessa scena ma “reale” (reale dentro un film che si dovrebbe spacciare come finto documentario, e quindi come finta cronaca, per definizione narrazione di un fatto realmente successo), con un “vero” zombi a rimpiazzare un ragazzo travestito e “veri” fiotti di sangue. Con enorme sorpresa gli studenti realizzeranno che tutta una serie di cliché (la fanciulla che scappando dal mostro fatalmente si inciampa, la camicetta strappata,…), così impossibili da riprodurre in un contesto finzionale senza apparire ridicoli, nella “realtà” funzionano invece estremamente bene. Ma a questo punto noi, spettatori di entrambi i film, a cosa stiamo assistendo?

Probabilmente ciò che vediamo è vero, perché se lo vediamo attraverso l’occhio della telecamera (e ragioniamo attraverso le riflessioni di Baudrillard) non abbiamo a che fare con una rappresentazione ma con il rappresentato stesso. Gli stessi protagonisti sembrano rendersi conto di quello che succede solamente dopo averlo visto attraverso l’obiettivo, non credendo ai loro occhi (non si rendono conto di avere investito degli zombi deambulanti) ma prendendo per oro colato tutto quello che arriva attraverso qualsiasi mezzo digitale (incominciano a credere ai morti che camminano dopo aver visto un filmato caricato su YouTube da una ragazza di Tokyo).



Diary of the dead non è un film mediocre, è una riflessione eccellente che deve travestirsi da film mediocre per essere credibile e percepibile. Dopo le didascalie di Land of the dead Romero pare essersi ricordato come fare politica.

domenica 27 luglio 2008

[pubblicità creativa] Porno Guiness





E chi lo va a dire a quei quattro bacchettoni che bloccarono una geniale campagna di comunicazione solo perchè dentro c'era Rocco Siffredi che assaporava soddisfatto delle patatine?

sabato 26 luglio 2008

[trailer] Punisher: War Zone Comic-Con 08 Footage



Io sono una tra le tre persone al mondo ad aver gradito il primi due film del Punitore, perlomeno per le abbondanti citazioni spaghetti western del secondo capitolo. In questo Punisher: War Zone pare però che la regista Lexi Alexander abbia finalmente deciso di rappresentare il buon Frank per quello che è sempre stato: un violento, psicolabile e ingiustificabile vigilante.



Vuoi vedere che è la volta buona che ci ritroviamo tra le mani un ottimo film piuttosto che un divertente b movie?

venerdì 25 luglio 2008

Dark Knight, linguaggio dell'azione e scenari sonori




Pare che tutti abbiano qualcosa da dire sul nuovo Dark Knight, tutti a sbrodolare sui buchi dello script, sulle psicologie dei personaggi, sull’interpretazione di Heath Ledger. Eppure, nonostante qualsiasi apprezzamento al lavoro in questione sia meritato e giustificato dalla qualità stellare del prodotto, nessuno ha notato due aspetti fondamentali della regia del grande Christopher Nolan. Due fattori invisibili ma indispensabili all’alchimia da cui è scaturita l’atmosfera plumbea e da apocalisse imminente in cui il nostro pipistrello pare trovarsi perfettamente a suo agio. Si parla di linguaggio cinematografico e sound design.



Si prenda la prima, magnifica, scena. Una rapina in banca in apertura di un blockbuster da multisala. Qualunque altro regista della generazione di Nolan avrebbe preso l’occasione per imbastire una sequela di bullet time e interpolazioni dei movimenti di macchina. Ci sarebbero state macchine da presa che avrebbero attraversato muri e finestre, freeze frame digitalizzati e piani sequenza in computer grafica. Per nostra fortuna pare che il britannico si sia dimenticato di tutta questa paccottiglia in pixel, preferendo una concezione di regia action che deve tutto a Mann, Hill e Siegel. Derivativa? Forse, ma assolutamente cazzuta. Tesa e tagliente come una lama di rasoio, un’ autentica stilettata ai nervi. E così per tutte le restanti due ore. Tutto è terribilmente reale e fisico. Da qui l’impressione di un reale pericolo imminente. Grandangoli e carrellate (oltre ad abbondanti schizzi di sangue non in digitale) tornano a colpire dritti in faccia, come non se ne vedeva dagli anni ’80.



Si parlava anche di sound design, ovvero la capacità di creare autentici scenari sfruttando unicamente l’aspetto uditivo. In Dark Knight i suoni si ovattano, si amplificano, di distorcono, oppure scompaiono del tutto. Un autentico tour de force di sperimentazioni sensoriali che non può non rimandare a quel Time & Tide di Tsui Hark, assoluto pioniere in questo campo. Anche la colonna sonora, più vicina a un mood ambient che a una banale fanfara fatta da tema e variazioni, viene stuprata e sottomessa al volere della regia. Una sinfonia di suoni stridenti e di bassi pulsanti, mille volte più significativa e funzionale di quattro sviolinate da melo di quart’ordine. E poi, ma verrebbe da dire sopratutto, il silenzio. Angosciante e gelido come un pugnale di ghiaccio, che arriva quando meno te lo aspetti e ti riporta alla realtà. Nel modo più brutale possibile.



Pare che i tempi della scialba e banale favoletta dark di Tim Burton siano finiti. Finalmente si arriva dalla parti di Frank Miller e del Gotham Central di Ed Brubaker e Greg Rucka. Finalmente si parla di Batman.

martedì 22 luglio 2008

[teaser] Yatterman di Takashi Miike (Jap/2009)



Yatterman + Miike = Capolavoro annunciato?

lunedì 21 luglio 2008

Kickback di David Lloyd

Prendete il solito noir, la solita città lercia, i soliti poliziotti corrotti. Un canovaccio dove anche i più grandi finiscono troppo spesso per cadere nel baratro del già sentito o del prevedibile. David Lloyd è uno che sull’orlo del baratro non ci arriva neppure vicino, ma che lo osserva con sguardo sornione e beffardo dalla sua postazione privilegiata nel gotha del fumetto mondiale. Sono cose che succedono quando si passano tre anni a disegnare V per Vendetta.



Ma Kickback è un altro campo. Raffinate analisi sociopolitiche lasciano spazio al genere puro e agli abissi d’umanità che il poliziesco si porta sempre dietro. Joe Canelli è un poliziotto disilluso, che si compiace nell’essere completamente immerso in un flusso di decadenza. Non vuole lottare contro il sistema, figurarsi contro i suoi demoni interiori. Fino al giorno in cui i suoi colleghi non incominciano a cadere come mosche. Da qui una vicenda che lega a doppia mandata Ellroy, Lynch, Chandler e Hammet, senza mai finire nel delicato palcoscenico del post moderno o del metagenere alla Frank Miller. Insomma un noir vero, tumescente e livido come il cadavere di una puttana abbandonato sotto la poggia battente.



Stilisticamente l’influenza del sommo Bardo si sente tutta, soprattutto in fase di raccordo e di piani di narrazione paralleli, ma sono le tavole di Lloyd a colpire come un uppercut alla bocca dello stomaco. Pastose, sperimentali, sempre cinematografiche e perfette dal punto di vista della narrazione. Un autentico capolavoro di linguaggio e ricerca, sottile, funzionale e mai urlata (su tutti i campi sfocati).



Pare che il noir sia il genere che negli ultimi anni si stia sposando meglio con il medium fumetto, basti pensare a capolavori come 100 Bullets, Criminal e Fell, e questa uscita non fa che confermare l’unico trend capace di distaccarsi da un citazionismo becero e mortifero, troppo spesso giustificato come umorismo. In altre parole con il noir non si scherza, tanto meno con Kickback. A meno che non vogliate fare un giro al porto con un bel paio di scarpe di cemento armato. Ci siamo capiti, no



Kickback (Magic Press, brossurato, 96 pagine a colori, € 9,50) testi, disegni e colori di David Lloyd

domenica 20 luglio 2008

Solfa Ezine n.0 fuori adesso




Nuova ezine tutta italiana. Naturalmente gratis, incentrata sulla grafica e il design più d'avanguardia. Il formato è accattivante, i contenuti quanto più lontano dal dilettantesco o dozzinale ci si possa immaginare. Insomma, non la solita Solfa. La trovate qui.

sabato 19 luglio 2008

[trailer] All the Boys Love Mandy Lane di Jonathan Levine (US/2006-8)

Finalmente si hanno notizie di questo sospirato teen slasher statunitense. Sospirato perchè i pochi che l'hanno potuto visionare in anteprima ne hanno parlato gran bene. E considerando il genere siamo già dalle parti del miracolo.


In All the Boys Love Mandy Lane scopriamo come l'ossessione di un'intera scuola per la stessa ragazza possa sfociare in una mattanza d'antologia (tanto d'antologia da aver fatto slittare l'uscita del film per ben due anni). Aspettiamoci quindi sesso adolescenziale, droga, alcool e fiumi di sangue. Sperando che il regista Jonathan Levine abbia deciso di non correre con il freno a mano tirato.


giovedì 17 luglio 2008

[trailer] Ichi di Fumihiko Sori (Jap/2008). Quando Zatoichi è donna.



Da Fumihiko Sori (Ping Pong, Vexille) una curiosa rivisitazione al femminile del mito di Zatoichi. Evitando commenti sull'orrida canzone pop nei primi frangenti del trailer, il piatto pare decisamente ricco. Piuttosto che certe trovate tipo Shinobi si pare respirare di più l'atmosfera da chambara delle decadi passate. Sarà un bene o un male?

mercoledì 16 luglio 2008

Dazed Digital / Collectively Individual

Interessante concorso indetto da Dazed Digital, controparte online della rivista Dazed & Confused. Il tema è, come da titolo, Collectively Individual. Decisamente interessante.



Quella sopra è la mia foto, scattata al Neurotic Death Fest 2008, presso Tillburg. Chi meglio del metallaro estremo esprime il concetto di individualità collettiva?



Se vi gusta cliccate qui e votate!

martedì 15 luglio 2008

Far East Pop Bonanza

Chi lo dice che il meglio del pop deve parlare inglese? Ecco un brevissima (ma prima di una serie) serie di consigli su band orientali che fanno del pop più caramelloso la loro ragione di essere. Cliccate sul monker per arrivare direttamente al loro MySpace.

YMCK : prendete una cantante con una vocina da fata, sospesa tra jazz, trip hop e la vostra serie anime preferita, aggiungeteci una base composta unicamente da consolle a 8 bit e avrete i YMCK. I Pizzicato Five per le nuove generazioni.

The Shine & Shine & Shine & Shine: vengono da Taipei e scandalosamente non hanno ancora un contratto. Dolcissimo pop, leggero come dovrebbe sempre essere.


Stylish Nonsense: i Chemical Brothers Thailandesi. Ultragroove su disco, teribilmente ruvidi e lofi dal vivo.

lunedì 14 luglio 2008

[oldiest but goldiest] Memories of Murder di Bong Joon-ho (2003/Sud Korea)

Memories of Murder non è che un enorme McGuffin. Quello che gli strilli sulla cover del dvd pubblicizzano come il miglior serial killer movie di sempre è, in realta, qualcosa d’altro. Qualcosa di infinitamente più alto e destinato a rimanere negli anni a venire. Memories of Murder è, per potenza politica e metaforica, il Texas Chainsaw Massacre Sud Koreano. L’affresco di un paese diviso dai movimenti di piazza, visto dagli occhi della brutalità rurale. Con la differenza che l’opera prima di Bong Joon-ho racchiude, nei suoi 130 minuti, una profondità umana che lo differenzia dalla brutalità tout court della controparte statunitense.



Anche qui si parla di orribili e grotteschi omicidi seriali. Una catena di terrore che si consuma nella più placida campagna, mentre sullo sfondo enormi cambiamenti politici si fanno sempre più inevitabili e imminenti. La classe del sud coreano lascia sullo sfondo sangue e claustrofobia per concentrasti sui rapporti umani all’interno della piccola comunità sconvolta, creando personaggi vividi e tangibili. Nessun super agente o genio dell’investigazione, ma la mediocrità e l’umanità di persone comuni. In Memories of Murder si ride e si piange, ci si irrita per le banalità e per gli errori grossolani dei protagonisti, ci si infuria per la miopia di un governo troppo impegnato a sopprimere le spinte popolari per preoccuparsi di un assassino seriale. Ci si sente parte di una provincia abbandonata, alle prese con qualcosa di troppo grande per i suoi standard.



Seo Tae-yoon, investigatore inviato da Seul per risolvere il caso, fa di tutto per apparire freddo e calcolatore, in contrapposizione all’incompetenza e all’irruenza del campagnolo Park Doo-man. Prima della fine scopriremo la rabbia del primo e la rassegnazione del secondo, in un ritratto complesso e stratificato, che più di una volta lascia l’amaro in bocca e delude. L’espediente del serial killer appare così in tutta la sua chiarezza, scusa perfetta per poter indagare su di una società arrivata a un bivio cruciale della sua storia. Due mondi che si scontrano per cercare di rimettere assieme i pezzi di un microcosmo andato in frantumi.



Dal punto di vista cinematografico Memories of Murder è una lezione di stile e regia. Mai una banalità, nessuna concessione alla banalità o al pretenzioso. Solamente grande cinema. L’intera scena finale, ambientata sotto una pioggia catartica e torrenziale (che nulla ha del mero orpello estetico) sarà capace negli anni a venire di influenzare tutto il cinema di questa nazione (e non solo). Bong Joon-ho si conferma capace di unire narrazione, pathos e una cura formale che ha del maniacale, riuscendo a consegnare al pubblico un film politico costruito attorno a un brutale fatto di cronaca, venato di umorismo nero ma sempre e comunque esteticamente abbagliante. Se vi pare poco…

venerdì 11 luglio 2008

[trailer] Max Payne di John Moore (US/2008)


Qui il link a questa nuova occasione sprecata made in US. Proprio non capisco: hai un videogioco capolavoro (entrambi i capitoli), cinematografico al 100%, con una trama tra noir e melodramma resa fresca e accattivante da interessanti spunti onirici, decine di morti e tonnellate di bossoli ancora fumanti. Era chiedere troppo una trasposizione pari pari da medium a medium? Evidentemente sì.


Nel trailer piacevole il richiamo ad Hard Boiled (John Woo era citato alla lettera nel videogame), inquietanti gli angeli (spero si tratti dei famosi spunti onirici), fuori posto


Mark Wahlberg. Il Max Payne cinematografico sarà degno del Max Payne in pixel?

giovedì 10 luglio 2008

Tropa de Elite di Josè Badilha (Brasile/2007)

Tropa de Elite è un capolavoro perché scontenta tutti. Politicamente, stilisticamente, cinematograficamente. Glissando sulla totale mancanza dell’ aspetto sessuale, Tropa de Elite è il film più Verhoeveniano mai girato da qualcuno che non sia Verhoeven stesso.



Roberto Nascimento è stanco del suo ruolo di comandante tra le fila del BOPE, i famosi squadroni della morte brasiliani, e decide di trovare qualcuno degno di sostituirlo. Per arrivare al risultato dovrà privare dell’anima una giovane recluta idealista.



In Brasile la polizia è corrotta, molto corrotta. Le favelas sono violente e nelle università i contestatori figli di papà sperano di cambiare il mondo fumando canne e discutendo di sofismi inutili. Occorre qualcuno che risolva questa situazione con la forza, qualcuno di incorruttibile e innamorato della giustizia. In altre parole il BOPE. Un teschio, due semiautomatiche e un pugnale come stendardo, l’ordine di sparare a vista come strumento di rieducazione. Praticamente un film di propaganda per la destra più ferma e radicale. Un manifesto della violenza come strumento sociale.



Nel BOPE però non troviamo agenti pronti a distribuire caramelle ai bambini. Nel BOPE ci arrivi dopo aver passato un corso di addestramento che fa dell’umiliazione la portata principale, e nel BOPE ci rimani se sai usare un sacchetto di plastica come strumento di tortura, se spari sulla folla e sorridi nel rendere pubblica all’interno del microcosmo favela l’identità di una spia. Un ritratto che dimostra quanto detto prima sia fascista e sbagliato.



Eppure, anche mostrando alla platea quanto siano brutti e cattivi gli uomini in nero brasiliani, i contestatori universitari continuano ad alimentare il mercato del narcotraffico fumando erba, la polizia rimane corrotta e Rio De Janeiro un campo di battaglia dove ogni giorno si muore senza sapere il perché. Dove stia la ragione Josè Padilha non se lo chiede neppure, troppo impegnato a sbatterci in faccia le contraddizioni dei nostri giorni con tutta la violenza possibile. Proprio come l’olandese citato nel primo paragrafo, capace di dirigere un kolossal sulla seconda guerra mondiale dove resistenza e regime finiscono per assomigliarsi in maniera sinistra.


Anche cinematograficamente tutti sono scontenti di questo Tropa de Elite: troppo sanguigno per il circolino d’essai, troppo serio per i cultori dell’exploitation. Ultraviolento, convulso, a metà tra documentario e videoclip. Crossover portoghese ad accompagnare i titoli di testa, freeze frame per mettere l’accento sull’immancabile frase cazzuta da action hero, Michael Mann ben stampato in testa quando si tratta di girare le sparatorie. Ma anche delicato nel concedere lunghe parentesi ai monologhi interiori dei soldati, nel seguirli durante la loro vita quotidiana, nei loro sogni e nel loro desiderio di normalità. Perché essere una macchina di morte può stancare, soprattutto quando propria moglie attende un figlio. Vuoi mettere che palle rispetto a un Die Hard dove Bruce Willis cammina su un jet che vola tra i palazzi di una megalopoli statunitense e non è mai stanco di uccidere cattivoni?



Più che un film una bomba tubo, progettata a tavolino per scagliare le sue schegge mortali a 360 gradi e fare terra bruciata tutto intorno a sè. Un oggetto pericoloso e instabile, ma soprattutto terribilmente reale.


mercoledì 9 luglio 2008

Lucy and Bart: quando Cronenberg incontra la fotografia fashion




Qui il link al blog di Lucy e Bart, due fenomenali fotografi sospesi tra fashion, design e ossessione per la nuova carne. Inquietanti o meravigliosi?

venerdì 4 luglio 2008

Back to the roots: Strenght Approach & Solid Ground


In tempi dove il metal core si ritrova inspiegabilmente in cima alle classifiche è bello concedersi una boccata di ossigeno con due dischi che fanno dell'old school la loro bandiera. Su Haternal.com due rece del sottoscritto, dedicate a Strenght Approach e Solid Ground.


giovedì 3 luglio 2008

Street Art @ Tate Modern

Sabato me ne vado a Londra. Motivo che spinge alla trasferta è la fantastica esposizione Street Art alla Tate Modern. Tra gli artisti coinvolti anche l'immenso Blu, bolognese al 100% e noto per aver inventato i graffiti in stop motion. Cosa significa? Penso che il filmato qui sotto parli da solo. Pura poesia metropolitana.



MUTO a wall-painted animation by BLU from blu on Vimeo.

martedì 1 luglio 2008

[oldiest but goldiest] We Are Going To Eat You di Tsui Hark (1980)

Correva l’anno 1980 e il giovane Tsui Hark non era ancora diventato il maestro che oggi tutti riconoscono. Dopo aver diretto un interessante esperimento a metà tra wuxia e gotico (The Butterfly Murders) il Nostro decide di giocarsi la carta politica. Nasce così We Are Going To Eat You, meltin pot di generi ad alto tasso caustico.



Sulle tracce del criminale Rolex l’Agente 999 finisce prigioniero in un villaggio sperduto. Qui scoprirà che la verità è molto peggio di quello che ci si aspetta.



Giocattolone ultracinetico, a metà tra commedia di bassa lega e kung fu splatter, We Are Going To Eat You gioca le sue carte migliori insinuando i suoi veri punti di forza tra le righe. Tsui Hark incomincia qui a sperimentare una nuova semiotica per il cinema d’azione, destrutturando il gesto marziale per elevarlo a sensazione subliminale oltre che semplice stimolo visivo. Un percorso che maturerà lungo tutti gli anni ’80, arrivando a una nuova grammatica del montaggio e del linguaggio cinematografico in toto. Il maestro si diverte a sporcare il suo operato con eccessi gore da baraccone, rendendo i suoi interpeti giullari di un teatrino sospeso tra grand guignol e avanspettacolo. L’horror si tinge di slapstick comedy un anno prima del capolavoro di Sam Raimi, fan e seguace dichiarato del dinamismo tipico del cinema proveniente dall’ex colonia inglese.
Con un budget ridicolo a disposizione (che spinge a scippare senza tante pretese le musiche di Suspiria) la catastrofe si annidava dietro l’angolo, soprattutto in una fase del cinema fantastico mondiale dove i grandi fondi cominciavano a fare la differenza, ma l’abilità e il gusto, forgiato da anni di letture fumettistiche, del Nostro riescono a rendere l’insieme di influenze alte e basse qualcosa di unico e, fortunatamente, ripetibile.



Al di là del valore di scatenato helzapoppin umoristico e d’intrattenimento We Are Going To Eat You nasconde (ma neanche troppo) un’anima nera e cinica, legata a un periodo spietato e senza apparente uscita per la perla d’Oriente. Lo spettro della Cina (continuamente richiamata in maniera più o meno velata) come tribù di cannibali che punta a un’assurda autarchia, dove le persone stesse finiscono per alimentare la macchina economica e di sostentamento, è una presenza soffocante e claustrofobia, oltre che influenza fondamentale anche per il successivo film del regista, Dangerous Encounters: 1st Kind. Un problema d’attualità che Tsui Hark ci ha messo sotto gli occhi, con i sottili strumenti dello sberleffo, trent’anni fa.