giovedì 27 novembre 2008

Antropoide 1&2 (Latitudine 42 Comics/2008)




Antropoide è rivoltante. Nel senso che fomenta una sovversione culturale partendo dai conati di vomito.



Non credete a chi vi dice che la pubblicazione in questione è stupenda, meravigliosa, superfantastica, perché avete a che fare con qualcuno che non ci ha capito nulla. Leggere Antropoide è l’equivalente cartaceo di un disco di Atrax Morgue o di una compilation di grind sintetico: è quasi impossibile che possiate trarre piacere e stimoli costruttivi da tale esperienza. Inutile prendersi in giro, certe proposte puntano solo all’annichilimento, alla pura aggressione sensoriale ed emotiva. Non esiste bellezza o grazia nella devianza della carne putrescente. E con Antropoide si parla proprio di questo.



Saltano le categorie di bello/brutto, sbriciolate sotto la potenza da bomba termonucleare degli autori raccolti in questa uscita, la pornografia più gratuita prende il posto dei discorsi tra le righe. Lo sguardo velato viene privato della sua sicurezza e violentato fino allo sfinimento. Meno dissacrante de La Scimmia ma dotato di una maggiore potenza destabilizzante, Antropoide si presenta come una sequela di illustrazioni che paiono derivare da qualche misconosciuto eroguru nipponico. La riuscita degli intenti di chi ha compilato tale patchwork dell’orrore è misurabile nella nostra disapprovazione, nei nostri sorrisi ebeti e cristallizzati, nell’impossibilità di realizzare come ci si deve comportare di fronte a certi stimoli.



Lasciamo da parte i discorsi su cosa possa essere considerato arte e cosa no, sull’effettiva utilità di certe sfumature della creatività, sul senso della censura. Prendiamo Antropoide e sfogliamolo. Ne usciremo con le ossa rotte e il volto livido. Complimenti Andrea Grieco, missione compiuta.


mercoledì 26 novembre 2008

Kurt Cobain Cherie/Io è Giacomo Leopardi di Saverio Montella (Passenger Press/2008)

Un pugno di storie semplici semplici. Disegnate con un tratto ingenuo, strutturate senza capo ne coda. Prive di effetti speciali, pugni allo stomaco o provocazioni gratuite. Eppure capaci di dire tanto, tantissimo. Così tra pastori filosofeggianti, pite vegetariane e passeggiate nei vicoli di Napoli ci si ritrova in una lettura profonda e sognante, capace di oscillare dall’inflessione dialettale alla riflessione sociologica. Un libro fatto solo di parentesi, di scorci poco importanti, di tempi persi fissando il soffitto della propria stanza. Una fuga dall’ansia da prestazione del moderno romanzo grafico, abbandonando altisonanti proclami d’autorialità costruiti sul nulla a favore di un’immersione completa nel mondo di Saverio Montella. Con tutti i pregi e i difetti del caso.



Come se si venisse in possesso di un taccuino privato dove non ci è dato di capire tutto, così questo Io è Giacomo Leopardi/Kurt Cobain Cherie si pone verso il lettore con una tale sincerità da mettere in imbarazzo. Le sovrastrutture scompaiono, la libertà di espressione prende il sopravvento e smette di preoccuparsi del lettore generalista. Ma anche di quello hard core o di quello affetto dalla nota sindrome di nicchia. Sembra che nelle rotative della tipografia sia caduto il volume sbagliato, che la vera opera sia stata dimenticata sulla scrivania di qualche editore. Si ha l’impressione di avere tra le mani un diario personale, una serie di appunti, un quadernetto scarabocchiato tuffando lo sguardo fuori dalla finestra. L’empatia arriva a livelli incomprensibili, i difetti diventano pregi perché sintomi di una non convenzionalità delicata e leggera.



Una finta semplicità che si rispecchia anche nella confezione del volume, dal formato e dai colori rassicuranti e che scompaiono nel mare di lustrini delle fumetterie. L’eleganza che viene dalla semplicità, impreziosita da curiose soluzioni come la flip cover.



Io è Giacomo Leopardi/Kurt Cobain Cherie non piacerà a tutti, risulterà ostico a chi nel fumetto cerca narrazione schematica e strutture seriali, grandi eventi e personaggi sopra le righe. Il tepore tranquillizzante del già noto, per quanto questo possa essere estremo e al limite. Perché a Saverio Montella non occorre urlare per destabilizzare e far riflettere.

martedì 25 novembre 2008

Jeff Koons Versailles

Genio o buffone? Senz'altro furbo. Perchè più ti chiedi quale sia l'effettivo valore della sua arte, più questa acquista significato e valore (vi ricordate che Jeff Koons è l'artista vivente più pagato al mondo? Che il suo Hanging Heart vale più di 23.000.000 $?). Perchè la reputi elitaria, ma questa sarà la mostra più frequentata dell'anno (frequentata non significa visitata, quanta gente entra ogni giorno a Versailles?). Perchè ci puoi spendere tutte le parole che vuoi, ma il buon Jeff ha fregato tutti ancora una volta.



Amen.



Post di poche parole, ma dopo essersi trovati di fronte un Michael Jackson a grandezza naturale, in oro e porcellana, la capacita di contestualizzazione può anche venire meno.

venerdì 21 novembre 2008

Quando la scimmia pagò pegno al re

Domani e domenica sarò a Parigi per la mega mostra evento di sua maestà Jeff Koons. Che come artista conta talmente poco da essersi accaparrato la reggia di Versailles come palcoscenico di questa sua retrospettiva. Qui il sito ufficiale. Al ritorno resoconto dettagliato.

giovedì 20 novembre 2008

Che fine ha fatto Jon Chang?

C'era una volta una band che amava andare veloce. Troppo veloce. Una band che sfornava uno split dietro l'altro, ma che dette alle stampe solo tre dischi. Una band che partendo dalle ceneri dei gloriosi Human Remains diede il via a un nuovo modo di concepire la musica estrema. Senza mai raccogliere quanto gli doveva essere reso. Naturalmente si parla dei leggendari Discordance Axis.




Mi si scusi la qualità del video, ma questo ho trovato.



Mentre il batterista Dave Witte con il passare degli anni è diventato una sorta di Samuel L. Jackson del grind (nel senso che è presente in un numero spropositato di dischi) si erano perse le tracce dell'urlatore Jon Chang. Almeno fino a oggi. E così, grazia all'elitaria Hydrahead Records del genio Aaron Turner (padrone della casa discografica più figa del mondo, grafico di livello mondiale, chitarrista e mastermind degli Isis,... tutto prima dei 25 anni), eccoci sbattuti in faccia i due nuovi progetti del Nostro.

I Gridlink, definibili come fottuto grind core inferno nippoamericano.

E i Hayaino Daisuki, che sono tipo thrash metal lanciato alla velocità della luce e registrato in cantina.



Mentre qui ci trovate il sito della sua software house, specializzata in videogame. Grandioso Jon, grind till death!


mercoledì 19 novembre 2008

Giada 2: squadra antimostri di Sfascia, Bellardo, Rosenzweig (Edizioni Arcadia/2008)




Prendete la solita serie con protagonista un’adolescente dark dalla doppia vita. Un esempio qualsiasi, dalla statunitense Buffy alla pletora di proposte orientali a base vampirica e/o spiritistica. A questo punto date carta bianca a tre autori italici che fanno dell’esser sopra le righe cifra stilistica. Shakerate il tutto con la maggior dose di violenza possibile e avrete Giada.



Sospesa tra incubo Tromesco e teen serial di metà anni ’90, la serie targata Edizioni Arcadia arriva alla sua terza uscita marcando una curva di miglioramento costantemente impennata verso l’alto. Dopo uno speciale, stupendo dal punto di vista grafico ma carente sul lato della storia, Federico Sfascia torna ai testi regalandoci una vicenda frizzante e imprevedibile. Proprio come dovrebbero esserlo tutte quelle in cui si parla di adolescenti, mostri e cospirazioni religiose. Giada procede per accumulo, facendo del menefreghismo verso autorialità e rigore un autentico punto fermo nel suo sgangherato universo. La carne al fuoco è tanta che congruenza e lucidità di visione perdono importanza, a vantaggio di uno scatenato giro sull’ottovolante più esagerato del luna park.



In Giada tutto è troppo. Troppo esplicite le allusioni sessuali (si parla sempre di adolescenti, quindi fatevi i vostri calcoli), troppo piene le vignette, troppo splatter i combattimenti, troppo stereotipati i personaggi, troppo frequenti gli eccessi. E per tutte queste ragioni funziona in maniera magnifica. Senza nessun tipo di pretese, senza rincorrere il mercato, senza considerare il lettore come un deficiente a cui far credere che tutto quello che non capisce è arte (e che quindi può leggere solo pattume da supermercato). Gli autori di Giada giocano con il loro amore sconfinato per il fumetto, sporgendosi senza pudore sul filo del rasoio che separa buon cattivo gusto da semplice ciarpame. La creatura di casa Arcadia è un fumetto che sovverte l’ordine tra alto e basso, che prende il fumetto nella sua accezione più pura e ce lo restituisce distillato e, in un certo senso, idealizzato.



Una serie che sarebbe perfetta se serializzata, anche solo per far rabbia a Walter Benjamin e ai suoi seguaci.


lunedì 17 novembre 2008

Daredevil: Battlin' Jack Murdock di Carmine di Giandomenico (Panini/2008).




Come si può riscrivere una storia di cui si sa già tutto? Come si può competere con autentici giganti del fumetto statunitense sul loro campo da gioco? Come ci si prende la responsabilità di essere il primo autore italiano a scrivere e disegnare una miniserie Marvel? Chiedetelo a Carmine di Giandomenico, enorme (e troppo spesso dimenticato) talento del fumetto nostrano.



Battlin’ Jack Murdock riesce a raccontare di super eroi senza mostrare un costume, di melodramma senza sfociare nel patetico, di grandi uomini senza nessun tipo di retorica. Dilatando per tutta la lunghezza del volume l’ultimo combattimento di Jack Murdock, padre del ben più noto Matt, di Giandomenico getta lo scheletro su cui una ragnatela di flashback dipingerà la parabola di un uomo con cui la vita è stata troppo arida. Portando una profondità tutta europea in un contesto fin troppo US, e rafforzando il tutto con un cinismo strisciante legato a doppio filo con la sua italianità, l’autore ci accompagna verso un finale che stupisce per come la gestione dei personaggi non permetta a sentimenti fortissimi di trascinare il pathos della vicenda in territori da soap opera.



Di Giandomenico toglie l’infallibile eroe dal centro del fumetto, dimentica effetti speciali e pornografia muscolare, per rimetterci un uomo che non riesce a muoversi senza sbagliare. Jack e il ricco cast di comprimari riempiono ogni vignetta di ogni tavola, nella gran parte dei casi ne travalicano i limiti limitandosi a mostrarci figure tagliate, particolari o sguardi. Troppo veri per essere contenuti in quattro linee tracciate su di un foglio di carta. Il tratto di Carmine è particolareggiato, vigoroso ma adatto a tratteggiare emozioni sui volti di un microcosmo fatto di soprusi e voglia di rivalsa, perfetto per una storia che richiede fisicità più che voli pindarici.



La potenza metaforica dell’incontro di boxe, un uomo contro un altro uomo, solo fiumi di sangue e sudore tra di loro, amplifica la potenza narrativa dei flashback e descrive alla perfezione l’orgoglio e la dignità di un uomo capace di porre il figlio davanti a tutto. Anche a se stesso. La vita come un ring, dove conta solo il proprio valore, dove le parole sono inutili e sono solo i fatti a contare. L’unico posto al mondo dove puoi veramente dimostrare chi sei e cosa vali. Ma anche un campo di battaglia dove molto è tacitamente ammesso, e dove non sono pochi quelli disposti a tutto pur di vincere.



Riuscendoci.

giovedì 13 novembre 2008

[poster] Death of a hostage di Johnnie To (2008/HK)

Johnnie To, il mio regista preferito in assoluto, ci aveva assicurato che non avrebbe più lavorato a tre film contemporaneamente. Noi, dopo il capolavoro assoluto Exiled (miglior noir degli ultimi 15 anni), l'esperimento Triangle, la coregia di Mad Detective, la marchetta Linger e la commedia The Sparrow, ci avevamo creduto. Poi sono arrivati i fondi francesi per il remake di Red Circle, del mai troppo compianto Melville, e la produzione del nuovo Soi Cheung. E ci credevamo ancora di più. Fino a questa news.



Come si spegne quell'uomo?

mercoledì 12 novembre 2008

[ma quanto lo aspetto?] Mastodon Boxset

I Mastodon sono, evitando di contare ottuagenari, la più grande band vivente. Gli unici, con i Dillinger Escape Plan, a poter puntare al grado di classico senza tempo. Tre dischi, tre capolavori (proprio come i Dillinger). E adesso se ne escono con questo cofano tank, tra l'altro a un prezzo esorbitante. Maledetti bastardi.

Toxic Holocaust - An overdose of death... (Relapse/2008)

Alla fine non riesci a spiegarti perché “An Overdose Of Death…” continua a finire nel lettore cd. E’ rozzo, poco originale e, oltretutto, la copertina è una merda. La cosa più giusta sarebbe scagliarlo in un angolo del dimenticatoio, fare finta di nulla, togliere il cellophane al nuovo All Shall Perish e dedicarsi all’ascolto dell’ennesimo manifesto del post death core. Eppure non funziona così. Joel Grind ha la misteriosa capacità di spegnerci il cervello, affumicandolo con una cortina di thrash metal dalla spiccata attitudine punk’n’roll, e di trascinarci in un cheapissimo post atomico anni 80. Quelli con Luigi Montefiori nella parte del cattivo, per capirci. Così ci si ritrova a fare le corna e a ondeggiare la testa, sognando di indossare un gilet di jeans con le toppe dei Possesed, urlando a squarciagola slogan deliranti alla stregua di “Nuke the cross!”. Mancano solo l’amico di una vita e una sestina di birre a testa per completare un quadretto nostalgico che puzza di adolescenza da qualche chilometro di distanza. Forse questo disco è così bello proprio per la sua capacità di restituirci un amore per la musica ignorante e incontaminato, senza sovrastrutture che ti spingono a cercare il disco sempre più al limite. Scordatevi l’ultimo Metallica, il vero thrasher troverà nei Toxic Holocaust tutta quell’immediatezza, quella sfacciataggine e quell’amore sconfinato per il cattivo gusto che facevano grandi i dischi di vent’anni fa. Un’autentica pausa da tutto.


martedì 11 novembre 2008

Milano criminale: la città esige vendetta (pt.2) di Cajelli e Ferrario (Edizioni BD/2008)

Devo ammettere che alla conclusione del primo volume di Milano criminale: la città esige vendetta ero rimasto piuttosto dubbioso: sfuggiti al rischio del classico giochino citazionista, Cajelli e Ferrario si avviavano verso la riproposta filologicamente perfetta del poliziesco anni ’70. Una ricostruzione maniacale, seguito di un lavoro di ricerca serio e approfondito, restituiva al lettore un ibrido tra “Roma a mano armata” e “Uomini si nasce, poliziotti si muore”. Il valore iconografico del primo (che rimane il poliziesco per antonomasia, nonostante si tratti di una speculazione sul prototipo “La polizia incrimina, la legge assolve”) incontra la potenza scardinatrice della sceneggiatura DiLeiana (ma anche della regia sempre sopra le righe di un Deodato non ancora prigioniero di se stesso) del secondo, andando a completare un quadro esemplare. Forse troppo, e qui ritorno sui miei dubbi. Il volume poteva essere esaltante per chi era a digiuno di Lenzi e Castellari, ma rappresentava una proposta troppo puntuale nell’aderire al suo originale per chi, con quei film, si è bruciato l’adolescenza.



Tutti dubbi fugati da questo secondo capitolo. Con il dipanarsi della vicenda Cajelli riesce a dimostrare quanto la visione dalla distanza possa essere utile in un tipo di narrazione che trae ispirazione prima di tutto dal reale. Gli autori di Milano criminale riprendono una serie di cliché e caratterizzazioni tipiche dei ‘70 per innestarle alla conoscenza che si ha di quegli eventi a quasi 40 anni di distanza. Come risultato i due milanesi danno alle stampe un poliziesco che distilla attraverso il filtro della storia tutto ciò che era già contenuto in potenza negli originali, trame politiche e sociali all’epoca senza privilegio dell’invecchiamento, ma che oggi riusciamo a leggere con l’ottica corretta. Si avverte la sensazione di uno spostamento da “Milano trema: la polizia vuole giustizia” verso la narrazione a ventaglio di “La polizia accusa: il Servizio Segreto uccide”, con la speranza che si arrivi alla profondità di “Confessioni di un Commissario di Polizia al Procuratore della Repubblica”.



Plauso per la scorrevolezza dei dialoghi, così veri ma al contempo indissolubilmente legati alla mitologia italica della frase lapidaria (vedi alla voce spaghetti western), e per il magnifico lavoro di Ferrario nel fondere disegni e fotografia in maniera del tutto organica e originale. Interessante come il suo stile così cartoonesco si sposi alla perfezione con la durezza della trama e come una costruzione della tavola piuttosto convenzionale non riesca a sferzarne dinamismo e appeal cinematografico. Sono cose che succedono quando si è gran bravi a fare il proprio lavoro.



Aldilà di tutta la dietrologia possibile sui crime movies settantiani Milano criminale è un fumetto splendido, che riesce a essere accessibile (e comprensibile) a chiunque, nonostante la sua ricercatezza e minuziosità.
Si attende con ansia il terzo capitolo.

lunedì 10 novembre 2008

Crimini Finanziari di Malka e Mutti (Edizioni BD/2008)

Un titolo che meno attraente non potrebbe essere (a proposito, perché non optare per l’acuta e sottile traduzione inglese?), un argomento non proprio alla portata di tutti e uno stile di narrazione che fa dell’essere anti spettacolare il suo punto di forza. Bisogna dire che alla BD hanno coraggio da vendere. In questo caso ben riposto.



Dalla prima all’ultima pagina saranno almeno quattro o cinque le occasioni in cui la squadra protagonista di Crimini Finanziari si raccoglie per riassumere i fatti e tirare le fila della vicenda. Una scelta narrativa che spesso cade nel classico “spiegone”, ma che in questo caso rappresenta alla perfezione l’opera di cui si sta parlando, ponendosi esattamente all’antitesi della sua controparte statunitense. Perché se in un caso, quello US, la razionalizzazione di una vicenda ne ammazza pathos e potenza drammatica, nel caso del fumetto di Richard Malka e Andrea Mutti si ha una completa immersione in una matassa narrativa di proporzioni quasi ingestibili. Personaggi, dati, locations, scambi tra reale e finzione, tutto in una quantità esagerata e compresso dentro una foliazione che sembrerà sempre e comunque riduttiva. Non è un caso se per tutte le 144 pagine di questo tomo le vignette si moltiplicano, si frammentano, riempiono la pagina in maniera quasi parossistica. E all’interno di ogni singola sequenza abbiamo personaggi che parlano tanto, tantissimo. Parlano di numeri, tecnicismi finanziari e politica, sorprendendoci come le poche frasi a effetto inserite quasi a forza da Malka risultino fuori luogo in un flusso di informazioni che pare troppo vero per essere relegato al genere. Anche la struttura narrativa ne risente, muovendosi per ellissi e lasciando spesso il compito al lettore di decifrarne svolte e colpi di scena. La scelta di non rallentare mai il ritmo, di non dare un attimo di respiro neppure alle svolte più importanti (non dico splash page come se piovesse, ma almeno una vignetta più grande di un francobollo ogni tanto non sarebbe stata male), stordisce il lettore e lo fa sentire minuscolo, come se la sua presenza non fosse desiderata o comunque gradita. Una scelta di coraggio, che da spessore e realismo impossibili da ottenere in altri modi, ma che rende la lettura spesso difficile da seguire. Come si sarà già capito, Crimini Finanziari non è un fumetto per tutti. Grazie ancora BD, per non considerarci come una massa di nerd interessati solo all'ultimo megacrossover da discount.



Leggere Crimini Finanziari è un po’ come essere travolti da un treno in corsa: enorme, veloce e inarrestabile. Se si volesse essere un po’ più cinici si potrebbero mettere in disparte paragoni ferroviari per lasciare spazio a leggi economiche e flussi di denaro, arrivando alla conclusione che in questo senso l’opera è metafora perfetta dei nostri tempi. Peccato per le occasionali svisate in territori televisivi o per le facilonerie che punteggiano qua e la il dipanarsi della trama, ma il risultato è comunque ottimo. Immaginatevi uno 007, con tanto di cospirazione mondiale, alle prese con qualcosa di infinitamente più grande di quello che tratta solitamente (è la prima volta che trovo in un libro cifre così alte da aver bisogno di note a margine per poterle capire). Dimenticatevi cocktail e locations esotiche per calarvi in studi legali, banche e paradisi fiscali. In Crimini Finanziari si fa sul serio, attentati e scalate si susseguono senza sosta, e per riderci sopra ci sarà sempre tempo. Forse.

sabato 8 novembre 2008

Far East Pop Bonanza pt.2: Shanshui Records




Chiptune, minimal techno, ambient. Se cercate un'etichetta che ridefinisca i limiti di questi tre generi non potete non prendere in considerazione la fenomenale Shanshui Records.



Il nuovo suono cinese è una ventata di aria fresca nel campo della musica elettronica e non mi stupirei se tra qualche anno ci si riferisse a questa realtà come la Warp Records d'oriente. Nell'attesa di quel momento godiamoci me:mo, B6, Sulumi e tutti gli altri artisti del rooster della label pechinese.

venerdì 7 novembre 2008

Frontière(s) di Xavier Gens (Francia/Svizzera/2007)

All’ennesimo clone gettato sul mercato, quanto significato può ancora avere il cosiddetto torture porn? Cosa può apportare al cinema l’ennesima variazione sul tema di Texas Chainsaw Massacre? In una parola, nulla.



Per quanto questo Frontière(s) possa apparire come una poderosa prova di forza del nuovo cinema di genere francese, il retrogusto di plastica è troppo forte per essere ignorato. Non esiste una poetica, un linguaggio, nulla. Tutto quello che questa produzione riesce a mostrare sono i muscoli di uno splatter stupido e, paradossalmente, quasi rassicurante. Non esiste una stilizzazione della violenza, l’amorale processo per cui questa diventa seducente e in qualche modo “bella”, e neppure un reale tentativo di turbare lo spettatore. Che senso può avere inondare il set di emoglobina quando, nonostante le diverse occasioni, non si concede alle protagoniste di spogliarsi oltre il canonico reggiseno? Non è per gusto voyeuristico che si fa questa osservazione, ma per dare la misura di un senso del pudore che permette di mettere in scena amputazioni (sempre quelle, tra l’altro) evitando in ogni modo i territori del sesso.



Una cura formale impeccabile (ma con qualche caduta nel gratuitamente convulso in concomitanza dei frangenti più tesi) va a scontarsi con una mancanza di originalità imbarazzante: in fin dei conti si parla sempre e comunque del solito gruppo di giovinastri che va a incappare nella solita famiglia di cannibali. Con tanto di solito figlio macellaio, enorme e ritardato (ma non malvagio fino in fondo, zzz… zzz…). Ma se nell’horror l’avvio di una vicenda può essere interpretato come scaltro Mc Guffin, rapida corsia di accelerazione verso il vero punctum della rappresentazione, in questo caso è anche il dipanarsi della trama a impantanarsi nell’acquitrino della banalità. Da bastonate nei denti la pioggia catartica sul finale, ancora di più pensando a cosa ci hanno abituato al riguardo autentici fuori classe come Michele Soavi, Park Chan Wook e Bong Joon-ho.



E se i vertici di malattia e disagio del capolavoro Calvaire (tanto per rimanere nella new wave dell’horror francese) rimangono irraggiungibili, anche dal punto dell’estetica della violenza siamo ben lungi dal minimo sindacale. Se nel 1973 Toshiya Fujita riuscì, con il suo Lady Snowblood, a rendere la violazione del corpo come una performance intrisa di eleganza e teatralità (pur mantenendone il carattere inevitabilmente feroce), e nel 2001 Takashi Miike ne sfruttò tutta la potenza simbolica per tratteggiare un sadomasochistico melodramma queer (Ichi the Killer), Xavier Gens non fa che riproporre l’ennesimo Hostel. Senza neppure la scusante dell’artigianalità degli effetti, che almeno avrebbero fatto tanto exploitation.



Person Michele Soavi
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giovedì 6 novembre 2008

Blatta di Ponticelli: presente prossimo (Leopoldo Bloom Editore/2008)

Blatta è un fumetto a cui piace rischiare grosso, sospeso tra il didascalico gratuito e l’acuta interpretazione di quanto reso noto dal sociologo Zygmunt Bauman. Perché quello che attraverso i nostri occhi, viziati nel credersi liberi e privi di autocensure, potrebbe sembrare come la più terribile distopia, filtrato dallo sguardo molle della collettività appare invece come tranquillizzante utopia. Allo stesso modo dell’umanità descritta dallo studioso britannico il protagonista della vicenda rifugge a ogni tipo di decisione, preferendogli una vita immersa in un perenne stato di sospensione. Le scelte vengono rimandate, ogni ragionamento in divenire congelato fino a nuovo ordine. Nulla ha più significato perché perfino un processo irreversibile come la morte può essere annullato. A forza di vivere realtà mediate da un monitor ci si convince che un semplice CTRL+Z possa modificare perfino una delle due certezze della vita. Ed è proprio per tutta questa serie di motivi che, a differenza di quanto narrato nella gran parte delle opere distopiche post 1984, è il protagonista stesso di Blatta a scegliere il suo destino. Paradossalmente sceglie di non scegliere più nulla, ponendosi come unico colpevole della sua disfatta.



Proseguendo per questa strada coraggiosamente antropocentrica (non se ne può più di cospirazioni più grandi di noi) Ponticelli sceglie di dare un taglio contemplativo a tutto il libro, mantenendo comunque sempre al centro di tutto il suo palombaro troppo umano. Il grande formato delle pagine, la scelta di costruire splash page a tre ante, campi lunghi e lunghissimi, tutto pare studiato per schiacciare il lettore in un mondo enorme e spaventoso. Eppure i disperati che popolano le pagine di questa cronaca del dopo bomba riescono a trasmettere emozioni e sentimenti di un’intensità devastante, nonostante il loro volto rimanga sempre coperto. Ponticelli tratteggia anatomie e abitudini di vita con una sensibilità strabiliante, sfruttando il linguaggio del corpo come poche volte è stato fatto nel fumetto. Lampi di umanità ravvivano il grigio implacabile delle pagine.



Un lavoro difficile, che non lesina in colpi al basso ventre, ma non così plumbeo e senza speranza come potrebbe apparire a una prima occhiata superficiale. Da leggere concentrandosi su ogni singola tavola, accompagnati dal ritmo ipnotico dato dalla regia “a sospensione” di Ponticelli.

mercoledì 5 novembre 2008

The Passenger 1: diario di bordo (Passenger Press/2008)

Se dovessi indicare la pubblicazione più “di pancia” dell’attuale panorama fumettistico italiano la scelta cadrebbe senza ombra di dubbio su questo The Passenger. Nato dall’idea di narrare per vignette progetti dimenticati nei cassetti di registi provenienti da ogni parte del globo, The Passenger si presenta come un’esperienza a metà tra il flusso di coscienza e la pagina di diario. A tratti quasi infantile (nel senso più buono possibile) nel suo essere naif, a tratti astratto e ostico come la più elitaria delle pubblicazioni, il primo numero di questo antologico alza ulteriormente il tiro rispetto all’uscita zero, lasciandosi definitivamente alle spalle i territori del già visto. Senza sovrastrutture, senza piani commerciali o studi su quello che potrebbe vendere di più. The Passenger sembra fatto per essere letto unicamente da chi lo produce, tanto il senso di intimità che ci si respira è forte. Eppure le storie presentate sono tante, così come le rubriche o le illustrazioni, e il cast dietro a tutto questo è tanto numeroso quanto cosmopolita.



Tra le pagine di questa uscita troverete parentesi di sogno e storie di vita vissuta, magnifici scarabocchi ed eccessi di minimalismo, giochi di società e viaggi incredibili (anche solo per prendere il bus!). Tutto imbevuto di un’empatia e di una sincerità che rendono ciechi, che costringono chi ha preso parte a quest’impresa (anche) a esagerare nell’interiorizzazione, inducendo quindi nell’errore di non prendere in considerazione chi fruirà di tutto questo. Eppure era proprio Truffaut a indicare come i film più importanti nella filmografia di un regista fossero proprio quelli incompresi dai più, troppo di pancia e visceralmente sentiti dal proprio autore per essere perfetti. Li chiamava “i grandi film sbagliati”, e penso che l’aggettivo grandi non fosse messo a caso.


Neppure se si parla del passeggero.


Cura formale della confezione a livelli di libro di design, riuscendo a rendere un prodotto senza neppure una pagina bianca etereo e leggero come il taccuino di viaggio di un sognatore.

martedì 4 novembre 2008

Femdom di Giorgio Santucci: il corpo al potere (Coniglio Editore/2008)

Santucci avrebbe dovuto dare alle stampe Femdom senza i testi. Perché nella sua arte c’è già tutta la narrazione necessaria, con il fumetto che torna a essere comunicazione visiva pura. Il tratto dell’autore è violento, nervoso, ipercinetico. La ricerca di una poetica contenutistica personale si diluisce nella forza del linguaggio, facendo passare femmine dominatrici e citazioni Meyeriane in secondo piano rispetto al movimento e al ritmo, magnificamente fini a se stessi. Santucci dovrebbe abbandonare del tutto il contenuto per dedicarsi completamente alla forma, descrivere incessanti sequenze marziali o rocambolesche fughe da chissà quale incubo.



Il paragone più immediato è quello con i grandi maestri dell’action cinematografico di Hong Kong, da King Hu fino a Ching Siu Tung. Si prenda il capolavoro The Valiant Ones, un film nullo dal punto di vista narrativo, ma capace di ridefinire in maniera irreversibile il linguaggio del movimento e del corpo nel cinema. Oppure il punto di non ritorno The Blade (di Tsui Hark), con i suoi combattimenti al limite del subliminale. L’azione si fa vorticosa, le inquadrature e i movimenti di macchina narrano più di mille dialoghi verbosi, il cinema basso si fa avanguardia.



Allo stesso modo Santucci impressiona maggiormente nelle sequenze più concitate (vedi l’inseguimento, magistrale, o il combattimento contro il colosso) mentre tende ad appiattirsi nelle sezioni più di genere. Verrebbe da dire meno Rob Zombie e più Liu Chia-Liang. La costruzione delle tavole è perfetta, lo sguardo si muove alla velocità di ciò che si sta narrando. Non esiste tempo di decodifica. Si smette di pensare e si inizia a percepire, esattamente lo stesso spirito che il Maestro Hark infonde nelle sue produzioni da trent’anni a questa parte. Lo spettatore non si chiede cosa stia succedendo, ma lo vive direttamente. Le pagine action di Santucci sono fatte per essere sfogliate in una manciata di secondi, esattamente perché quella è la velocità dell’azione. Le tavole sono scevre da orpelli o fondi ridondanti, la luce descrive muscoli tesi allo spasimo e corpi in balia della forza cinetica. Interessante come l’uso della splash page si ponga all’antitesi di quello fatto da un altro grande del fumetto italiano, Alberto Ponticelli. In entrambi i casi l’uso di questa tecnica è perfetto, ma in un caso è sfruttato per accelerare il ritmo (Santucci) mentre nell’altro si ha una sensazione di sospensione del tempo.



Una prova di forza notevole, una dimostrazione delle potenzialità del linguaggio fumetto, l’ennesima conferma per uno dei più talentuosi disegnatori italiani. E ora aspettiamo Gangs, in copia con il prode Crippa.

lunedì 3 novembre 2008

David Murphy 911 (di Recchioni & Cremona): Last Action Hero (Panini/2008)

David Murphy è il miglior personaggio a fumetti nato in Italia negli ultimi anni. Non la miglior serie o il miglior fumetto in senso lato ma, ripeto, il miglior personaggio. Nato da una tanto geniale quanto elegante riflessione meta narrativa (che per una volta non fa rima con Tarantino, anzi…) di Recchioni e Cremona, la nuova creatura dei Nostri riesce a dare una profondità concettuale inedita a un filone bistratto come l’action puro. Autentica miniera di situazioni al limite, epicentro di una certa narrativa d’accumulo e perfetta superficie bidimensionale su cui costruire linguaggi e riflessioni inedite.



David Murphy narra la nascita di uno dei protagonisti (anzi, del protagonista) di questo genere, personaggi riconducibili il più delle volte ad autentiche calamite per sventure, sempre perfetti nel loro essere fuori luogo. A dimostrazione di questo, il Nostro è capace di fare tutto (ma non ha idea di come), rischia la pelle in continuazione (ma pare fatto di gomma) e vorrebbe sempre essere da un’altra parte. Un eroe dallo sguardo perennemente perso, maestro dell’improvvisazione, completamente privo di ombre. E proprio qui troviamo la novità più grande: dopo due decadi di bastardi cinici e infami ecco riapparire sulla scena l’eroe. Quello privo di retorica, apolitico e orso quanto basta. Uno che risolve la situazione solo perché qualcuno lo deve pur fare. Un’autentica boccata di ossigeno e un rovesciamento magistrale dell’atipicità ormai di maniera.



Il primo albo dei quattro è molto meno televisivo o cinematografico di quello che ci aspetterebbe, restituendo al fumetto la spettacolarità e la propensione alla sospensione dell’incredulità che gli compete. Il ritmo, grazie alla costruzione del flusso temporale a incastro e alla regia delle singole sequenze, è vertiginoso. Peccato per un certo gusto verso la citazione forzata, soprattutto in un contesto talmente archetipico che dovrebbe fuggire alla tentazione del richiamo proprio per diventarne oggetto, e per certe cessioni eccessive a un gusto troppo codificato su parametri US per il palato del fumettaro italico.



In conclusione, David è una delle più riuscite fusioni tra alto e basso che il fumetto recente ricordi, un tour de force narrativo che miscela spettacolarità, gratuita solo a un livello superficiale, e studio approfondito. La coppia di autori riesce così a dare vita a un personaggio che, per definizione, avrà sempre qualcosa da dire. Speriamo che alla Panini invece non bastino quattro albi.