mercoledì 25 gennaio 2012

La narrazione videoludica corre (troppo) veloce



Nel numero attualmente in edicola della sempre più interessante Studio trovate, tra le altre cose, un ottimo articolo sulla narrazione videoludica. L’autore, lo stesso Tim Small che aveva sviscerato la serie The Wire sulle scorse uscite, riflette su come questo medium (il videogioco) possa rappresentare la nuova soglia del raccontare storie. Dopo libri, cinema, televisione (esattamente n quest’ordine) pare sia arrivato il tempo del joypad (e fin qui ci arrivavamo tutti, in maniera insindacabile). A rafforzare questa tesi il giornalista cita lo studioso Tom Bissel, per la precisione nell’assunto secondo cui “ogni scrittore che non si interessa a quelli che oggi chiamiamo videogiochi finirà per essere solo uno spettatore di uno dei più importanti cambiamenti concettuali della narrazione nell’ultimo secolo”. L’articolo procede poi nella disamina su come mai, a oggi, non si sia ancora riusciti a raggiungere questa fusione definitiva tra la foga del gioco e la riflessione del racconto (da qui il meraviglioso titolo dell’articolo Premi cerchio per skippare il dialogo). 


Premettendo che non una cultura abbastanza vasta in materia per poter dire la mia, mi domando comunque una cosa. Se la narrazione videoludica è un concetto così moderno (e lo è) il continuo fallimento della compenetrazione con il passato non deriva forse proprio dall’incongruenza tra i due elementi? Quando si è passati dal cinema ai grandi serial TV degli scorsi anni le modifiche da apportare al linguaggio sono state minime, per lo più strutturali e di gestione del tempo. Ma qui è, letteralmente, tutto un altro campo da gioco. Prendiamo gli articoli sportivi di Hunter S. Thompson. Parlavano di campionati e partite di football, eppure erano ricchi di narrazione. Tanto da diventare, spesso e volentieri, metafora della situazione politica statunitense. Senza dialoghi, plot, divisione in tre atti e tutti quegli elementi che per troppa gente sono ancora parti costitutive fondamentali di una storia.


 E se, per poter parlare di narrazione videoludica, fosse proprio questo strappo a mancare ?


La costituzione di una nuova serie di elementi che permettano di raccontare non può più essere rimandata. Perché riesce a trascinarmi di più un platform (solitamente privi di storia, votati unicamente al dinamismo) con i suoi saliscendi di tensione che L.A. Noire con le sue tonnellate di dialoghi e le espressioni facciali perfette? Forse perché il primo è un videogico puro (che non deriva da nulla) e il secondo un tentativo di realizzare un lungometraggio interattivo (mantenendo così un piede nelle vecchie scarpe)? Perché ogni volta che un VG è particolarmente coinvolgente lo si deve paragonare per forza di cose a un film con le scene action giocabili?


Non sarà che il medium a oggi più venduto è troppo avanzato per il suo pubblico?

martedì 24 gennaio 2012

La mia definizione di perturbante


Con buona pace di Freud, non ho mai visto nulla di più inquietante di questi due Beavis & Butthead in chiave ultra-realistica (roba che neanche Ron Mueck e il suo bamboccio gigante, visto dal vivo a una Biennale di un sacco di anni fa). Qui trovate il resto delle foto. Maledetto Mike Judge!

lunedì 23 gennaio 2012

Back to School: Morning Glories di Spencer ed Eisma (Image Comics)



E’ notizia recente che finalmente qualcuno si degnerà di proporre in italiano Morning Glories. E il fatto è molto più importante di quanto ci si aspetterebbe. La bella serie di Nick Spencer (prossimo prezzemolino Marvel) rappresenta al meglio l’ultima evoluzione della Image Comics, passata dalla monnezza dei primi anni ’90 (quando vendeva tonnellate di albi riempiendoli di nulla colorato in digitale) alla recente (dal 2010) renaissance fatta di autorialità applicata al fumetto popolare.


Non è un caso se tutti i principali autori di comics abbiano un progetto in corso (o di imminente varo) presso la casa editrice degli (ex) Grandi 7. Vedi i vari Mark Millar, Ed Brubaker, Jonathan Hickman,… Il merito di questa svolta va al giovane Robert Kirkman, capace di convincere anche i più scettici che due serie “impossibili” come The Walking Dead e Invincible possano vendere un bel po’ di copie mantenendo un livello qualitativo stratosferico, pur discostandosi totalmente da quanto proposto dalle major (si sta parlando di due serie quasi esistenzialiste, nonostante si tratti di zombie e supereroi). Le parti alte delle classifiche di vendita saranno anche in mano a Marvel e DC, ma basta un Fatale qualsiasi per tirare lo sciacquone di tutta Fear Itself in un colpo solo. Non ci credete? Provate a farvi un giro sul sito Image senza farvi ingolosire da un sacco di serie che in Italia non arriveranno mai.


Morning Glories si inserisce perfettamente in questo filone. Proponendosi come una sorta de Il Prigioniero in chiave adolescenziale, riesce a fare da ponte tra la Vertigo e i Runaways di Brian K. Vaughan.  Contorta, ricca (forse troppo) di trovate bizzarre e personaggi al limite, punteggiata da episodi di ultraviolenza assolutamente gratuiti. Oltre che arricchita da un cast capace di svolazzare tra il perfetto e il luogo comune (dove per luogo comune si intende quel genere di personaggio tipico del teen-drama alla O.C.). Dal sognatore Hunter alla provocante Zoe fino al novello genio del male Ike. Attenzione però: nonostante si percepisca un’attenzione maniacale per i dialoghi (come deve essere in ogni opera basata sull’adolescenza) e il livello sia sempre piuttosto alto, siamo comunque lontani dalla mimesi da docufiction della serie giovanile Marvel (prima gestione, naturalmente).


Aspetto apprezzabile di tutta la serie è l’onestà con cui Nick Spencer gioca con ciò che il pubblico cerca. L’ambientazione scolastica parte da Harry Potter e sconfina in tutta una serie di manga, a cui si deve anche il look preppy dei protagonisti. Aspetto fintamente superficiale, importantissimo nell’economia dell’universo narrativo (di qualsiasi universo narrativo. Cosa sarebbe della neo-icona noir Driver/Ryan Goslin senza il bomber in raso champagne?). La trama costruita a blocchi di misteri sempre più intricati parte poi da Lost (per ammissione dell’autore) per sconfinare in un sovrannaturale dalle tinte vagamente dark. Insomma un sacco di roba che piace tanto ai ragazzini. Aggiungiamoci le fantastiche copertine di Rodin Esquejo e le apprezzabili tavole (seppur molto, molto, molto migliorabili) di Joe Eisma e non dobbiamo sforzarci di capire perché Morning Glories abbia esordito con un sold-out.


Una scrittura sagace, (molto) intelligente e divertita al servizio di un bel guazzabuglio di spunti e riferimenti. Rivisti con un’ottica fresca e anticonvenzionale. Il tutto servito senza eccessi retorici, manicheismo di genere o scivoloni nei due antipodi del fumetto (populismo vs artsy-fartsy). Una goduria.


P.s. per chi sapesse l'inglese... i due trade paperback costano veramente una miseria e sono di ottima qualità. Ci siamo capiti?

giovedì 19 gennaio 2012

L'amore ai tempi del tech-metal: Why you do this


Premessa: non l'ho ancora visto. Però non potevo non segnalare questo documentario sul tech-metal. Dal titolo e dalla tagline non è difficile capire il tema: che cosa spinge ragazzi comuni a buttare ore e ore e sangue e sudore e soldi in una passione che non li porterà a nulla (economicamente parlando)?  Che la vera felicità non passi dal denaro ma dalla realizzazione artistica? E devono essere rozzi cappelloni con la fissa per i blastbeat supersonici e il cantato in growl a venircelo a dire? Qui trovate il documentario (gratis). Penso di vederlo nel weekend, poi vi dico.

[Nice try, Johnnie!] Punished - prodotto da Johnnie To (HK/2011)




Bel tentativo Johnnie, ma forse era meglio se lo dirigevi tu. Partendo da uno spunto già sentito mille volte (a un padre viene rapita, con conseguente e logica incazzatura, la figlia) l’idea era quella di andare a sviluppare un’analisi della figura paterna a tutto tondo, a discapito della componente investigativa/d’azione solitamente privilegiata in questo filone cinematografico.  


Le intenzioni sono chiare. Qualsiasi personaggio gravitante attorno al protagonista in realtà viene trattato (e si comporta) quasi come un figlio di quest'ultimo. Dai veri eredi ai dipendenti. Questo è il pretesto per sviluppare un sacco di sottotrame (il sottoposto che non vuole deludere il capo, l’assistente praticamente adottato incapace di rapportarsi con la sua vera famiglia, il figlio del secondo matrimonio avviato a una carriera che detesta,…) tutte lasciate inevitabilmente a metà. Per essere onesti anche la trama principale è risolta in maniera piuttosto rapida. L’unico punto su cui il regista riesce a soffermarsi è la soffocante figura interpreta da Anthony Wong. Un uomo autoritario, fermo, iroso e risoluto. Un maniaco del controllo incapace di lasciar correre anche la minima sciocchezza (si veda la scena a tavola – e sappiamo quanto Johnnie ci tenga alle scene a tavola - in cui richiama il figlio per il modo scorretto in cui mangia i crostacei).


Eppure anche un uomo così si può trovare di fronte a momenti insostenibili. Il rapimento della primogenita è la causa scatenante di una catena di violenze (portate avanti dall’assistente-delfino) che però si esauriranno davanti al pianto disperato di un innocente. La scena in questione (che verrà sicuramente vista dai più – sbagliando grossolanamente -  come uno scivolone buonista del buon Giovannino) rappresenta il punto più alto di tutto Punished, andando a miscelare come si deve tensione, secco melodramma e il tema del karma. Colonna portante di tutta l’opera di To.


Come si è capito l’idea era stuzzicante. Lasciare da parte un attimo il testosterone per lavorare sui rapporti e sulle debolezze di una figura tradizionalmente forte come il padre. Tutto genuinamente inserito in un contesto di genere (se invece volete un capolavoro d’autore recuperate After This Our Exile di sua Maestà Patrick Tam). Peccato che il tutto scorra fin troppo bene, lasciando veramente poco. Certo, la qualità è senza dubbio alta. La solita squadretta di sceneggiatori capitanata da Wai Ka Fai garantisce una scrittura talmente solida e brillante che la scansione temporale a blocchi sfasati quasi non si percepisce neanche, svolgendosi con una fluidità che molta gente non riesce a garantire neppure nei testi più lineari. Anthony Wong è quasi noioso nel suo essere sempre e comunque enorme, anche se tutti lo preferiamo nei panni del killer scolpito nella roccia. Ci sono un paio di scene fantastiche e una giusta dose di cattiveria. Tutti risultati garantiti senza problemi dal livello professionale fuori scala raggiunto dalla Milkyway Image (che produce capolavori come Exiled con poco più di 5.000.000 di dollari US, basandosi sempre sulle stesse troupe e cast). Quindi nulla di eclatante.


Così ci ritroviamo con solo un buon film. Senza quei geniali colpi di pancia che hanno reso gran parte della produzione di questo Maestro qualcosa di indimenticabile. Se la precedente produzione (Accident di Soi Cheang) era perfetta ma gelida (perché richiedeva di essere così per esigenze di sceneggiatura), qui almeno ritroviamo quell’amore per i personaggi che spingeva il cantonese a riempire le sue pellicole di piccole manie e frasi smangiate. Peccato che al timone non ci sia lui, ma uno dei suoi galoppini (e non parliamo del discepolo-fantasma Patrick Yau). Materiale per l’ennesimo capolavoro ce n’era, ma bisogna essere anche capaci di manipolarlo.

giovedì 12 gennaio 2012

Crash o Giorni di Tuono? La nuova serie di Banks Violette


Di Banks Violette ci ricordiamo tutti benissimo l'arcinota serie basata sul black metal. L'ossessione adolescenziale per l'oscurità diventava strumento per analizzare la morte e il suicidio in un contesto spettacolarizzato e cannibalizzato dalla massa populista. Più avanti sarebbero arrivate le esibizioni con performance live dei Sunn O))) (e Attila Csihar), destinate a rimanere negli annali come la più moderna rappresentazione possibile delle litanie funebri di memoria ancestrale.

Presso la sua nuova personale in quel di L.A. l'artista americano cambia soggetto ma non il tema. Le corse Nascar come spettacolo necrofilo per bifolchi. L'attesa e la glorificazione dell'incidente mortale come unica attrattiva di uno sport altrimenti privo di senso. Anche in questo caso il culto della morte è al centro di uncirco mediatico privo di remore. Banks riesce a prendere tutta la volgarità della nostra epoca e a trasformarla in neri monumenti ai caduti di una pornografia del dolore (che poi sarebbe la pornografia in toto, visto che un corpo umano per acquistare tangibilità aldilà dello schermo deve soffrire. Devo ricordarmi di chi fosse questa teoria, mi pare Bauman). Immagino che Cronenberg e Ballard siano andati in sollucchero.




 

 




lunedì 9 gennaio 2012

Revenge: A Love Story di Ching-Po Wong (HK/2011)



Quando, fra 50 anni, si studierà il cinema dell’ultimo paio di decenni si dovrà per forza di cose stilare una lista dei mali che lo hanno afflitto. E, tra remake, reboot e adattamenti vari, non si potrà neppure far finta di scordare il famigerato fenomeno del  twist ending. Mirabolante artificio di sceneggiatura capace di rendere inutile qualsiasi film dopo la prima visione (se non addirittura dal trailer). Pratica ben diversa dalla nobile arte del contro-finale (che non significa finale aperto), noto invece per il potere di amplificare (se utilizzato come si deve) la potenza dell’opera di base. Valgano come esempio su tutti le conclusioni di Taxi Driver e C’era Una Volta in America, di cui si sta ancora discutendo circa il reale significato.  


Alla stessa maniera Revenge: A Love Story cambia tutto il suo essere in base a quale delle sue conclusioni si prenda come valida e a quale invece gli si attribuisca valore allucinatorio o di pura immaginazione. In entrambi i casi l’opera avrà una sua dignità e una costruzione interna coerente, andando così a prendere le dovute distanze dallo sterile giochino del ribaltone finale. Anzi, considerando il dubbio instillato in ogni spettatore si può dire che la conclusione del film non corrisponda allo scorrere dei titoli di coda, quanto alla volontà del singolo fruitore di porre un fine a tutte le speculazioni del caso.    


Una ragazza rinchiusa in una casa di cura viene stuprata. L’unico disposto a lottare per fare giustizia sarà un povero venditore di panini al vapore, da sempre innamorato di lei. Da questo presupposto si sviluppa una trama nera come la pece, memore di quanto fatto in precedenza da Soi Cheang nel suo straordinario Love Battlefield. Ammettiamolo: quando vogliono i registi di Hong Kong si ricordano ancora di essere tutti figlioli spirituali del Johnny Mak di Long Arm of the Law (1984), lasciando però da parte la carica politica per concentrarsi  su storie d’amore tormentare e protratte verso il baratro della tragedia. Aspettatevi quindi continui giochi al ribasso e, se le cose potrebbero andare peggio, sappiate che lo faranno. Eccome se lo faranno.


La regia dimostra tutta la sua intelligenza riuscendo a far convivere una fotografia minimalista e povera con diverse impunture barocche e di un eleganza tanto pregna di melodramma da sfiorare in più di un caso il grottesco. Quasi una parodia sghemba e fuori sincrono di Lars Von Trier. Le trovate a effetto vengono distribuite con parsimonia, riuscendo ad arrivare sempre al punto grazie proprio al contesto grigio e statico in cui vengono inserite. Il senso di malessere è poi amplificato da una colonna sonora rumorista e insinuante, priva di un vero e proprio tema. Il tappeto sonoro non crea rassicuranti punti di riferimento, andando piuttosto a instillare un’atmosfera soffocante e da cui pare impossibile sfuggire. Chi si aspetterà una sorta di Taken tra fuori-casta rimarrà deluso. Il ritmo sincopato, la totale assenza di dialoghi tra i protagonisti, il numero limitatissimo di personaggi (comparse comprese) e location giocano tutte a favore di un cinema crudo e sgradevole. Tanto per ricollegarsi ancora una volta ai bei tempi andati del noir alla cantonese, siamo più vicini a un Dangerous Encounters of the First Kind (con le sue facce storte, le anatomie rachitiche e la città come minaccia e cimitero a cielo aperto) che alla svolta ultrapop dell’arcinoto Infernal Affairs (Andy Lau strafigo in completi leccati, cellulari al posto delle pistole e un cielo perennemente azzurrissimo).  


Ching-Po Wong avvolge questo microcosmo di dolore e sofferenza in una cappa vagamente fatalista, spolverando il tutto di metafore religiose. Il senso di minaccia e oppressione se ne esce ulteriormente rafforzato e spesso si avverte l’atmosfera del grande nero statunitense degli anni ’50. Quando la sventura si accaniva in maniera tanto gratuita e compiaciuta sui protagonisti di questi film a basso budget da farli derivare in più di un’occasione nell’horror (Detour di Edger G. Ulmer).  


Genere in cui, guarda caso (?), sfocia in maniera indiscutibile uno dei due finali di Revenge: A Love Story. Strano, eh? 

sabato 7 gennaio 2012

I Barn Burner e i vantaggi di essere la feccia della Terra




Meriterebbero un premio solo per aver scelto una canzone intitolata Scum of the Earth come loro primo singolo internazionale. Puro loserismo alla Motorhead. Se poi ci aggiungiamo una totale mancanza di pretese, una vagonata di facciaculismo e un'attitudine che più rozza non si può, abbiamo una nuova band da tenere d'occhio. Altro che i mesi passati a spingere Heritage degli Opeth tra gli amici (gran disco, comunque). 

giovedì 5 gennaio 2012

[Killroy vs ®: 1 - 0] Wish You Where Here di Eric Elms



1970. Sui vagoni della metropolitana di New York compaiono le prime tag. Siamo agli albori di una rivoluzione che porterà alla sovversione della piramide culturale. Partendo da quei segni nervosi e istintivi la strada arriverà alla vetta, andando a influenzare tutto quello che ci sta sotto (e che una volta invece stava sopra). E, naturalmente, lo fa nella maniera più aggressiva possibile. Gli adolescenti dei quartieri poveri vogliono conquistare la città. La vogliono marchiare con il loro nome. Non potendo essere ovunque contemporaneamente si affidano al mezzo di trasporto per eccellenza. I treni diventano un libro aperto in costante movimento, il più grosso e pesante mezzo di comunicazione di sempre. Basta una tag fatta di getto nel Bronx per vederla qualche ora dopo circolare a Manhattan. E così via per mesi, fino alla pulitura delle carrozze. Con un colpo di genio, destinato a cambiare la storia (si studi la teoria del bubble up di Ted Polhemus), dei 15enni relegati ai margini si riprendono quello che gli era stato tolto a forza. Sono ovunque, la Grande Città ora è loro.


Siamo nel 2011. Con la mostra e l’omonimo volume Wish You Where Here pare che l’illustratore Eric Elms voglia applicare la stessa tecnica di appropriazione. Elevandola però a uno status puramente concettuale. L’artista  riprende un classico del grafittismo come il nasuto Killroy Was Here (introdotto in questa pratica addirittura dai soldati statunitensi durante la Seconda Guerra Mondiale) e applicandolo a più di 200 loghi (commerciali e no) di ampia diffusione. Ridisegnati a pennarello e sparpagliati ai quattro angoli del globo grazie alla diligente opera della microcasa editrice dell’autore stesso (pratica che gli ha permesso di arrivare perfino ad allestire una personale in Giappone). La volontà di sabotaggio è palese. Molti dei marchi presenti nel volume sono coperti da leggi austere e apparentemente invalicabili. Sono in pochi ad avere il coraggio di sfidare la terribile R cerchiata sul suo stesso campo di battaglia. Paure e convinzioni nate dopo anni di lavaggi del cervello, con l’intento di convincerci che un simbolo su un monitor possa avere chissà quale potere (lavoriamo 8/9/10 ore al giorno per dei numeri su di un display). Con che esercito dovremo presentarci per poterla fronteggiare ad armi pari?


A Eric Elms bastano una scatola di pennarelli e una fotocopiatrice. Prende un marchio intoccabile, ci piazza la sua personale versione di Killroy e se ne impossessa per sempre. Il gigante di leggi e burocrazia ha gambe d’argilla pronte a franare alla prima scossa. Nel volumetto (stampato in 1000 copie su carta da quotidiano) troviamo KFC, Mercedes, Paramount, Guess, Ferrari,… ma anche i Dead Kennedys e i Crass, Obama e Che Guevara, indicazioni stradali e simboli generici.


Eric Elms fa tutto suo, con una semplicità che ha dello spiazzante. Wish You Where Here potrebbe apparire stupido come solo le uova di Colombo riescono a sembrare. Eppure, proprio come il celebre precedente, ci fa capire come spesso il nostro problema più grosso sia la mancanza di uno sguardo lucido. Libero dalle mille sovrastrutture che ne indirizzano in maniera viziata la traiettoria. Ci voleva Killroy per ricordarcelo.

martedì 3 gennaio 2012

The Amazing World of Gumball!




Umorismo surreale, tonnellate di stile, ritmo indiavolato e le solite svisate non proprio per bambini a cui ci ha abituato Cartoon Network. The Amazing World of Gumball strappa al comunque strepitoso (e lisergico e totalmente folle) Adventure Time il titolo di miglior serie animata del canale dai tempi di Le Tenebrose Avventure di Billy e Mandy (che rimarrà nella memoria di tutti noi per i vertici di sublime idiozia toccati lungo le varie stagioni). Il consiglio è di non farvi influenzare dal target di riferimento e di recuperare a ogni costo tutte le puntate di questo gioiello. Ne vale la pena anche solo per il livello tecnico e artistico fuori scala, capace di far apparire un sacco di megaproduzioni in CGI come relitti di un passato a velocità dimezzata.

lunedì 2 gennaio 2012

Fritto misto alla cantonese: The Butcher, The Chef and The Swordsman di Wuershan (HK/2011)



The Butcher, The Chef and The Swordsman è forse il  miglior esempio di cinema hongkonghese dell’accumulo da almeno un lustro a questa parte. E si noti bene l’etichetta hongkonghese, mai come in questo caso indispensabile per differenziarsi dalla calma piatta delle megaproduzioni cinesi.


Quello con cui abbiamo a che fare è un prodotto completamente di superficie, ipercinetico e capace di modulare il suo umorismo da Fichi d’India a Peter Sellers (e viceversa) nel giro di due righe di dialogo. La pellicola del mongolo Wuershan rappresenta alla perfezione quel cinema umorale e puerile che ci aveva fatto innamorare di una poetica fatta di maschere popolari, montaggi vorticosi e fusione estrema di generi. Quando la mancanza di pretese era ancora in grado di generare linguaggi virtuosi e stimolanti, piuttosto che vuoto populismo auto rigenerante.


In The Butcher, The Chef and The Swordsman non esistono segmenti più lunghi di una manciata di secondi dove il regista non ci infili di forza (quasi sempre in maniera gratuita) la trovata a effetto. Allo stesso modo la trama è tanto idiota quanto arzigogolata, tra continui salti temporali e cambi di registro. Una leggendaria mannaia passa di mano in mano, acquistando ogni volta nuovo significato e missione. A questo si aggiungono vendette generazionali, Maestri d’alta cucina alla ricerca di un degno discepolo, bordelli tenuti in scacco da guerrieri spietati (e barbuti), macellai innamorati, prostituite manipolatrici e spadaccini privi di morale. Tutto abbondantemente condito da azione frastornante, sangue, urla e un montaggio tanto epilettico da ricordare una fusione tra Crank e Bangkok Loco. Non dimentichiamoci i tradizionali scippi (si legge “citazioni”) ad altre opere cinematografiche, come tradizione cantonese insegna (una volta incappai in un wuxia con Andy Lau totalmente musicato con la colonna sonora di Akira, penso in maniera non proprio legale). E se alcuni richiami al cinema occidentale sono palesi (Ratatouille) altri danno quasi l’idea di un doveroso pareggiamento di conti (Future Cops è del 1993, Scott Pilgrim del 2010. Capirete quando vedrete).


Difficile annoiarsi in una tale centrifuga di trovate e idee. Anzi, molto più facile scendere dalla giostra vagamente nauseati e rimbambiti dallo strepitio di un cast incapace di stare nelle righe. Per quanto ci si trovi alle prese con un cinema ultrapopolare è dura consigliare un film simile a chi non è pronto a una pietanza ricchissima di sapori spesso in dissonanza tra loro. Ed è un peccato per loro, perché  The Butcher, The Chef and The Swordsman è (fin dal titolo) il perfetto antidoto a un certo minimalismo mumblecore/arthouse sempre più insidioso nei confronti dei generi puri. Se da una parte si cerca di valorizzare l’intrattenimento con l’utilizzo di ingredienti alti (e spesso ci si riesce, vedi il sorprendente Monsters di Gareth Edwards) qui il valore aggiunto viene dato dalla solidità con cui ci si innesta a una tradizione che rischiava di andare persa fra gli effluvi plastici di Zang Yimou. Wuershan riesce a ripartire dal dittico capolavoro A Chinese Odyssey di Jeffrey Lau. Classe, idiozia, paraculaggine e creatività. Tutto miscelato e servito bollente, fregandosene di oziose divisioni tra buono e cattivo gusto.


Nel culto della leggerezza possiamo trovare la storia di un cinema (e quindi di un popolo) che ha sempre eletto lo svolazzo estetizzante e trasversale a caposaldo irrinunciabile. Alla faccia di chi pensa che camera fissa e fotografia sgranata siano l’unica via per comunicare qualcosa di importante.