domenica 17 marzo 2013

Che l'anima al diavolo l'abbia venduta lui?



La scoperta di un secondo trailer dall'ultimo lavoro di Johnnie To (già visto al Festival del Cinema di Roma ma ancora inedito per il grande pubblico) cade a fagiolo. Dopo aver passato il pomeriggio in compagnia del famigerato Faust di Sokurov (entrato di gran lena nella mia personale classifica dei film sgradevoli irrinunciabili, assieme al Nastro Bianco di Haneke, Holy Motors di Carax e il Totò di Ciprì e Maresco. Tanto per fare il figo con le toppe sui gomiti e farvi credere che non guardo solo b-movie anni '80) qualche sparatoria come solo il Maestro riesce a catturare su pellicola ci voleva proprio. Aggiungiamoci le facce di tutti i fedelissimi del Nostro (potevano mancare Suet Lam e Simon Yam?) e le prime recensioni che indicano il primo film di produzione cinese di To come un manifesto anti-Cina e non posso veramente chiedere di più.

Tanto anche se il film sarà orrendo (impossibile) mi rimarrà comunque questo trailer. Annichilente.

mercoledì 13 marzo 2013

[Oldies but goldies] Primer di Shane Carruth (US/2004)



Pare che Upstream Color, il nuovo film di Shane Carruth, stia piacendo parecchio. A tutte quelle quattro persone che avevano adorato l'esordio Primer. Filmetto dal budget inesistente (ma dal valore innegabile) che qualche anima pia ha pensato bene di caricare su Youtube, con tanto di sottotitoli in italiano. Logico quindi prendere la palla al balzo per spendere due parole su questo gioiello del cinema di fantascienza.

Primer parla di viaggi nel tempo come mai nessuno prima era riuscito a fare: in maniera plausibile, aderendo tanto alla realtà da risultare quasi noioso. Ritmo narcolettico e complicazioni in sceneggiatura a non finire. Ve lo posso assicurare: a circa venti minuti dalla fine del film incomincerete a perdere il bandolo della matassa (Wikipedia segnala qualcosa come nove linee temporali sovrapposte) in maniera talmente clamorosa da lasciarvi spiazzati. Sempre che non l’abbiate smarrito prima, durante una delle lunghissime discussioni tra i due protagonisti. Cinema nerd nel senso più puro del termine. Non ci sono spazi per citazioni o riferimenti, ma solo complicate procedure ripetute con fare ossessivo per non inclinare la simmetria spaziotemporale. Zero camerette piene di fumetti. Solo la desolazione di un ditta di informatica con sede ad Austin. Neon, corridoi vuoti, camicie bianche e cravatte scadenti.

La trama è presto riassunta: due ingegneri cercano in ogni modo di svoltare brevettando ogni cosa gli passi per la testa. A forza di tentativi scoprono, per puro caso, di poter manipolare il tempo. Naturalmente il viaggio non ha nulla a che fare con i soliti cliché del genere. Nessuna lacerazione nello spazio-tempo o persone che compaiono o scompaiono nel nulla. Qui abbiamo due grosse scatole dove aspettare per lunghe ore, con il terrore che qualcosa possa andare storto.

La prima idea dei due protagonisti è - naturalmente - quella di farci più soldi possibile (giocando in borsa sfruttando barbatrucchi incomprensibili a chi, come me, di certe cose non capisce nulla). Ben presto, in maniera abbastanza scontata, istinti più bassi prenderanno il sopravvento. Da qui l’inizio della fine e tutto il successivo ingarbugliarsi degli eventi.

Primer è freddo, lento, ostile e incomprensibile. Uno stile che raramente si è visto applicato al cinema di genere. Eppure funziona alla grande, forse perché aiuta a realizzare come certa narrazione sia sempre e comunque finta nonostante le mille premesse di realismo. Lo squallore della vita di due ingegneri è reso alla perfezione, tra ore e ore in ufficio e altrettanto tempo passato in garage a lavorare sui progetti personali. Diciamo che non si fa fatica a capire il perché di molte delle loro azioni.

Se pensate che Looper sia un ottimo film sull'argomento armatevi di pazienza (e taccuino per gli appunti) e affrontate questo Primer. Visione non certo certo godibile da tutti ma stimolante per chiunque.

giovedì 7 marzo 2013

[Sulla torre] Fare videogames indie in Italia



Se siete addentro un certo tipo di questioni starete leggendo da un sacco di parti di un videogame indipendente tutto sviluppato in Italia, On the Tower. E, aldilà dell’ottimo lavoro di pubbliche relazioni portato avanti dal minuscolo gruppo di ragazzi dietro al progetto, potrebbe essere - udite udite  - la volta buona che si parla tutti della stessa cosa perché questa lo merita veramente. 

Partendo da un modello di sviluppo condiviso e in linea con il mondo civilizzato (in concomitanza con i progressivi step di avanzamento dei lavori vengono caricate sul sito demo sempre aggiornate. Questo nella speranza di raccogliere feedback in itinere e non soltanto a lavoro ultimato) On the Tower cerca di porsi in ogni suo aspetto come alternativa alle mode imperanti.

Quindi non avremo tra le mani una caramellina dall’estetica pixelosa o low-poly, non sarà un pastone di richiami ai bei tempi andati e neppure uno di quei giochetti additivi basati sul nulla. Perché, già che ci sono, i Nostri non si accontentano di sviluppare un videogioco. Cercano perfino di dirci qualcosa attraverso l’esperienza che deriverà da questo.

Non sono un grande esperto di grafiche, texture o comparti tecnici. Fosse per me le attuali macchine da gioco presenti sul mercato potrebbero andare avanti benissimo per altri dieci anni. E non perché mi accontenti. Semplicemente sono dell’idea che non esista motore più grande per la creatività che le costrizioni. Da buon fanboy Nintendo non posso non citare Mario Galaxy 2, probabilmente una delle esperienza più ricche e sbalorditive che il mondo dell’intrattenimento mi abbia donato, giocato su di una macchina già obsoleta sette anni fa. E forse così straordinario proprio per tutti i limiti imposti da una simile condizione. Perché dico questo? Perché On the Tower non ha la grafica di Crysis 3, anche se un sacco di ragazzini non potranno che fare a gara a chi lo noterà per primo (perché la grafica è il primo indicatore qualitativo di qualsiasi gioco, no?). On the Tower è sviluppato aggratis da sei persone, di cui due compositori (tenete a mente questo particolare). Questo non è un male, perché quando lo spazio di manovra è minimo le scelte sono sempre minuziose. E così sembrerebbe stia andando per i Nostri.

Già il fatto che si parli della morte e non la si glorifichi è un traguardo enorme. Che questo  discorso sia portato avanti con una narrazione completamente legata al gioco, vedi l’atmosfera che non è solo atmosfera (appunto), è ancora meglio. Come ho già detto: abbiamo un team il cui 30% è dedicato a un reparto che molti non considerano neppure come le musiche. Basta questo per far capire un sacco di case.

Il risultato di tutte queste scelte è abbastanza chiaro: nonostante lo stato ancora acerbo dei lavori e il budget inesistente girovagare per il desolato mondo creato dai ragazzi della Gangster Games è già un’esperienza che non lascia indifferenti. Soprattutto se si cerca per bene e si  incappa in qualche sorpresa che di gioioso ha ben poco. Bravissimi. Ora aspettiamo con ansia la prossima release.

Marvel Spaceballs: I Guardiani della Galassia di Abnett & Lanning


Guardiani della Galassia sia una serie che mi è piaciuta un sacco. Mi pare palese. Se cliccate su Conversazioni sul Fumetto vi spiego anche il perché. E magari prossimamente, sempre sulle stesse pagine, cercherò di convincervi su come invece Marvel Now sia una tragedia (ma non penso ci sia bisogno di convincere nessuno).

martedì 5 marzo 2013

Best Worst Entertainment


Sul nuovo Players trovate un mio articoletto. Tema: l'avanzata del brutto nel cinema d'intrattenimento. Niente di trascendentale, chi segue questo blog dovrebbe riconoscerci senza problemi qualche intervento già pubblicato su queste pagine. Quello che conta veramente è una dichiarazione di Zack Carlson (uno dei ragazzi dietro la Drafthouse Films di Austin) sull'essenza del b-movie. Così illuminante nella sua genuinità naif che la diffusione con ogni mezzo mi è sembrata obbligatoria. Buona lettura!

domenica 3 marzo 2013

Dance Dance Revolution o morte!: The FP di Jason & Brandon Trost





The FP appartiene in pieno a quella particolare categoria di film di cui non riesci a formulare un giudizio ben definito. Perché se l’idea di fondo e gran parte dello svolgimento sono ben più che gradevoli, rimane qualcosa che non ti soddisfa fino in fondo. La scelta di basare tutti i meccanismi comici della pellicola proprio sulla sua mancanza di umorismo è una scelta coraggiosa, ma spesso paga uno strisciante senso di incompiutezza. Come se da un momento all’altro ci si aspettasse la svolta grottesca, che invece non arriva mai. L’integrità "ideologica" con cui i fratelli Trost portano avanti il loro progetto ha finito per danneggiarli. Per capire meglio cosa voglio dire basta sintetizzare per punti la trama:

- Nella piccola cittadina rurale di Frazier Park (nessun riferimento al post-atomico come riporta imdb, in realtà pare solo un acrocchio di baracche in puro stile white trash sui monti Appalachi) due band rivali si contendo il territorio a suon di partite a uno di quei dance-game che riempivano le sale giochi fino a dieci anni fa.
- Durante la finale il rappresentante dei ”buoni” ci lascia le penne. Per via dell’eccessivo livello di sfida danzereccia a cui si è arrivati, non certo per un proiettile vagante.
- Suo fratello minore – promessa dorata del cosidetto beat-beat – assiste impotente. Giura di non prendere più parte a nessuna sfida a base di pedane luminose. Inquadratura dall’alto e urlo liberatorio.
- Un anno dopo lo ritroviamo a lavorare come taglialegna.
- I suoi amici lo ricontattano. Gli spiegano che da quando se n'è andato la banda rivale ha cominciato a spadroneggiare. Sono talmente cattivi che ora Frazier Park è un paese senza anatre (giuro che ci arrivano seguendo un ragionamento logico. Non è una semplice battuta surreale).
- Per curiosità e/o sfinimento il protagonista decide di tornare in città, ma ci crede ancora poco.
- Viene umiliato e incomincia a crederci un po’ di più
- La ragazza di cui è sempre stato innamorato è la pupa del boss rivale. Che naturalmente la tratta malissimo perché ha messo il padre di Lei in una situazione tale da incastrarla.
- Il nostro eroe si carica del tutto.
- Salta fuori un presunto maestro di beat-beat.
- Allenamento.
- Sfida finale.
- Vittoria dei buoni.
- Colpo di coda del cattivo che non vuole accettare la sconfitta.
- Vittoria dei buoni.
- Frasi da macho dette a mezza voce con i compagni di banda.
- Bacio (…vedrete) con la bella, finalmente libera dal giogo del cattivone.

Direi che se vi lamentante di come vi abbia anticipato il finale probabilmente non avete mai visto un film giovanilista di taglio sportivo prodotto tra il 1980 e il 1989. La cosa interessante è che tutti questi luoghi comuni vengono portati avanti in maniera assolutamente seria. La gag chiaramente comiche si contano sulle dita di una mano. Per fare un parallelo cinematografico siamo dalle parti di Kalamari Wrestler di Minoru Kawasaki, uno dei massimi esponenti dell’anti-umorismo moderno. Immaginatevi un rifacimento di Rocky con un enorme calamaro antropomorfo come protagonista. Senza che questa peculiare variazione vada a cambiare tono e impostazione della pellicola. 

Tornando a The FP la scelta più comoda sarebbe stata quella di allinearsi a un tipico stile di umorismo statunitense. Quel surrealismo da idiota sapiente alla Will Ferrell che troviamo ben distribuito in un sacco di lavori della Apatow family, oltre che in un buon numero di prodotti interpretati da comici usciti dal SNL. Penso prima di tutto ai The Lonely Island. Qui il trucco sarebbe stato tutto nel chiudere ogni sequenza con una gag esplicitamente messa lì a ricordare che tutta l’operazione è una farsa, a riequilibrare l'andamento comico dell'insieme. Peccato che il nostro film sia stato prodotto dai ragazzi della Drafthouse Films, non esattamente noti per le loro scelte facili. Vedi Kim Ki Duk distribuito nello stesso circuito di Miami Connection. Quindi pochissime vie di fuga: avanti dritti per l'idea iniziale. Poco importa se lo capiranno in quattro.

Come già detto il risultato è altalenante. O vi fa sorridere il fatto che qualcuno abbia scritto e diretto un film su Dance Dance Revolution o vi annoierete a morte. Personalmente me la sono goduta. L’idiozia di tutto il progetto è un blocco di granito così inscalfibile che ogni aspetto della direzione creativa ne è stato influenzato. L’idea di utilizzare come colonna sonora una sorta di pastone tra synth-pop anni ’80 e la peggio dance anni ’90 (quella da Acquafan) potrebbe essere visto come un suicidio artistico. In realtà tutto quello a cui stiamo assistendo è così stupido da meritarsi un simile commento sonoro. Chiudono il cerchio una regia non certo funambolica, budget inesistente e delle grandi – davvero – interpretazioni.

Finito! E ora possiamo riprendere da dove eravamo arrivati.


Passato questo periodo di super-lavoro dovrei riuscire a tornare ad aggiornare con un minimo di decenza & regolarità. Partiamo da domani, con la recensione di The FP.

martedì 8 gennaio 2013

Demonstrating My Style: Mark of the Ninja



Grazie ai sempre graditi sconti di Steam sono finalmente riuscito a recuperare qualche perla videoludica persa durante l’anno. Naturalmente la mia attenzione è stata catturata più dalla presunta scena indie (presunta perché del romanticismo da titolo sviluppato in 3 persone è rimasto pochissimo) che dell’ennesima produzione tripla A uguale a tutte le altre. Risulta quindi piuttosto ironico come il titolo di cui voglio parlare – Mark of the Ninja- voglia (e riesca) a confrontarsi senza problemi – per stile di gioco e aggressività - con questi colossi da decine di milioni di dollari (sapete quanto è costato Max Payne 3? 95 milioni di dollari. Facevano prima a farci il film, e magari ci perdevano meno). 

Mark of the Ninja non ha la carica lisergica di un Hotline Miami, l’amore nostalgico e incondizionato per i vecchi tempi di Retro City Rampage e neppure l’atmosfera sognante di un Sword & Sworcery EP. Anzi, si pone proprio all’antitesi del piccolo capolavoro di Superbrothers.

S&S è un gioco che punta talmente tanto sul suo lato artistico da riuscire a mettere in vendita la colonna sonora in vinile. Un’avventura grafica dai ritmi sognanti, basata sulla sinergia perfetta di musiche (eccelse) e grafica pixelosa. Il classico titolo per cui si tira in ballo il termine “poesia”, e per una volta in maniera appropriata. A partire dall’ambientazione, una sorta di Hyrule + Terra di Ooo + il giardinetto dietro casa, fino alle meccaniche costantemente anti-spettacolari. Se volete odiarlo chiamatelo videogioco d’arte, se non avete il cuore arido come una pietra pensatelo come una favola interattiva.

Mark of the Ninja invece è puro stile. Arrogantissimo e ignorantissimo stile, asciugato all’estremo. Visto che ultimamente si fanno un sacco di paragoni tra cinema e videogiochi (tirando sempre e comunque in ballo solo blockbuster e noir) per una volta possiamo parla di cinema d’autore (vedi sopra) e genere puro. Quello senza fronzoli. Quello dove la stessa frase scolpita nella roccia te la rivedi mille volte senza mai stancarti. Quello che riusciva a prenderti a calci nel culo per tutti i suoi novanta minuti senza spendere un soldo in più del necessario (leggi come: pochi).

Il gioco dei Klei Entertainment funziona esattamente alla stessa maniera. Ti da quello che chiedi, senza neppure prendersi la briga di impacchettarti il tutto in packaging sfavillanti. Ti mette nei panni di un guerriero letale e silenzioso all’interno di livelli studiati per essere rigiocati un sacco di volte. E non per vincere qualche stupido trofeo virtuale, ma per essere un ninja migliore. Nonostante sia un gioco piuttosto difficile si ha voglia di rigiocarlo solo per poter uccidere quella guardia sfruttando una strategia ancora più figa. Ti cali dall’alto, ti nascondo nell’ombra, sbuchi dalle fogne. Spacchi una a una luci terrorizzando i tuoi nemici. Sei un ninja. E per immergerti così tanto nel personaggio non occorrono grafiche stratosferiche, musiche orchestrali o mondi virtuali estesi come una provincia. Basta ricordarsi che il videogame narra attraverso l’azione, non grazie alle cut scene. Come un film scorre bene se la sceneggiatura è un orologio perfettamente adagiato alla superficie che deve raccontare alla stessa maniera nel mondo videoludico deve fare il gameplay. Posso chiamare lo sceneggiatore più in voga a Hollywood a scrivere la mia storia, ma se il gioco avrà meccaniche lontane da quello che deve raccontare sarà tutto inutile. Mark of the Ninja è lo stile con cui lo si gioca. Le emozioni derivano dall’uccisione perfetta, non dall’esplosione scriptata. La narrazione deriva dal gesto perché il medium videoludico deriva dall’azione. 

E in questa prospettiva un gioco asciutto, e a modo suo minimalista, come quello di cui stiamo parlando è perfetto. Basta una grafica 2d, gusto eccelso e classe. Il resto avanza. Una cosa che mi ritrovo dire sempre più spesso in un sacco di campi dell'intrattenimento (grafica 2d esclusa).

mercoledì 2 gennaio 2013

[Brutti, sporchi e... ] Beasts of the Southern Wild di Benh Zeitlin (2012)



Beasts of the Southern Wild pare uno dei quei film fatti apposta per essere odiati da certo pubblico. Storia minimale, nessuna cessione al genere puro, pellicola in 16mm, tappeto inarrestabile di chitarrine acustiche e campanelli. Senza contare lo sfregio più ingiustificabile di tutti: la coccarda di miglior film drammatico vinta al Sundance Film Festival (ma se andate a vedervi la pagina di Wiki rimarrete sorpresi dalla quantità imbarazzante di premi vinti da questo minuscolo lungometraggio). Chiamatela pure ruffianata hipster, o bazzecola artsy-fartsy se volete. E invece no, perché nei novanta minuti di questa favola c’è un sacco di roba veramente destabilizzante. Solo che a vederla dall’altra parte della barricata, e qui la più grande novità, tutto cambia faccia.

Il film è ambientato in un catino idrico venutosi a creare successivamente alla costruzione di una megadiga in Louisiana. In questo ambiente paludoso vive, secondo regole e abitudini più vicine a quelle di una popolazione primitiva che a quelle del mondo civilizzato, una piccola comunità di reietti. Le condizioni igieniche sono spaventose e la regia analogica e traballante rende il tutto ancora più sporco e putrescente.

Qui arriva la prima sorpresa. I nostri selvaggi sono… felici. Passano il tempo a festeggiare, ad aiutarsi a vicenda e a deridere tutti quelli fuori dalla diga. Quelli che vanno in vacanza una sola volta all’anno e lavorano tutti i giorni. “Vietato piangere” è la prima regola del Bathtub. Ma come? I burini del sud non erano che lerci subumani pronti a sfogare tutta la loro frustrazione sui colti e agiati turisti provenienti dalle grandi metropoli? Vuoi vedere che forse c’è gente a cui non interessa far parte della nostra società?

Il più fiero sostenitore di questa filosofia è Wink, padre della protagonista Hushpuppy. Uno che non vuole fuggire dalla sua baracca neppure all’annuncio di un terribile uragano. “Solo i vigliacchi abbandonano la propria casa” dice alla sua bambina, allevata con metodi discutibili eppure pregni di un affetto e di un rispetto abbaglianti. Ma come? I burini del sud non erano che lerci subumani pronti ad approfittarsi delle loro figlie mentre si ubriacano? Violenti e privi di empatia?

Beasts of the Southern Wild si prende gioco di noi, della nostra percezione del mondo viziata da anni di pulizia e di incasellamenti. E sia ben chiaro, nel piccolo universo fangoso e puzzolente di Hushpuppy non tutto va per il verso giusto. Anzi. La più grave delle disgrazie è dietro l’angolo, rappresentata metaforicamente dal disgelo al Polo di quattro enormi facoceri preistorici. La conseguenza di una brutta scenata da parte della protagonista, convinta così di aver inclinato l’equilibrio naturale del mondo. Le bestie travolgeranno tutto quello che incontreranno sul loro cammino fino allo scontro finale, dove solo chi è in grado di reggersi sulle proprie gambe ne uscirà vincitore. 

L’esordio di Benh Zeitlin è un’opera che commuove (la scena dell’alligatore fritto è un tuffo al cuore) sovvertendo anni di cliché e propaganda. Non rinuncia ai colpi allo stomaco ma li affronta con piglio deciso e risolutivo. Parte dagli stessi presupposi de L’Albero della Vita – i temi sono esattamente gli stessi - e li porta avanti con una schiettezza e una sincerità anni luce più funzionali delle divisioni manichee di Malick.

Travolti dalla durezza della vita? Per una volta non chiedete consiglio a un raffinato filosofo, provate a fidarvi di questi rozzi e lerci primitivi.