lunedì 30 novembre 2009

Ridere di (cattivo) gusto: Con tanta benzina in vena di Warren Ellis (Elliot/2009)

Se c’è qualcuno nel mondo del fumetto che merita l’appellativo di furbone quello è Warren Ellis. Genio e cialtrone, iperproduttivo e amante del riciclo, indipendente fino a quando non firma il contratto per qualche major. Capace di (tanti) picchi inimitabili così come di plagi senza pudore (tipo l’episodio di Hellblazer scritto ricalcando il film Man Behind The Sun). Uno di cui aspetti la prossima uscita con l’acquolina alla bocca ma poi finisci per maledirne la grafomania. Come si è detto, un genio. E Con tanta benzina in vena non fa che riconfermarlo.



Un incrocio tra noir, road movie e commedia senza freni. Con un protagonista che non è affatto come ti aspetti. Quando ci si avvicina a un romanzo dove gli eccessi della società ci vengono narrati da un autore noto per la sua poetica estrema e amorale, è naturale aspettarsi personaggi sopra le righe, persi nei meandri della vita (se non totalmente alla deriva). Invece Mike McGill è semplicemente un fallito che finirà per averne le tasche piene ben prima dell’ultima pagina. Un investigatore privato dalla carriera mai decollata, incapace di vivere alla velocità del mondo. Uno che non sopporta la pornografia troppo spinta, non maneggia il suo cellulare come una protesi del proprio corpo e non fa finta di capire tutto quello a cui va incontro. Considerando lo psicopatico disturbato a cui solitamente Warren Ellis si affida siamo già un bel passo avanti. La sua relazione con la selvaggia Trix Holmes ha la freschezza del miglior Kevin Smith. Nessuna traccia di amori malati, sottomissioni o giochetti psicologici. Semplicemente battibecchi da adolescenti in calore.



E qui abbiamo il secondo punto forte del romanzo. Non credete a chi vi parla di immagini forti o di una storia dura e cruda, Con tanta benzina in vena è un libro genuinamente divertente. La prosa del Nostro non gli farà vincere un premio Pulitzer, ma finirete di leggere il suo lavoro prima di aver capito cosa è successo in un capitolo degli ultimi Cormac McCarthy. Breve, veloce, brillante. Sembrerebbe la classica proposta disimpegnata. E invece dentro ci troverete una serie di riflessioni per nulla scontate su argomenti attualissimi. La diffusione delle informazioni via Internet, la possibilità di scegliersi la propria concezione di moralità, la nuova democrazia. Argomenti solitamente riservati ai tomi di luminari come Bauman o Giddens, qui trattati con apparente leggerezza. Warren Ellis si conferma doppiamente intelligente non scendendo direttamente in campo, narrandoci una serie di incontri quantomeno bizzarri senza il minimo paternalismo o tendenza talebana. Scelta di una classe infinita, capace di confermarci la caratura di uno scrittore che non ha mai preteso di insegnare nulla a nessuno. Ma che non si è mai tirato in dietro quando si è trattato di dare ai suoi lettori gli strumenti necessari per decodificare i nostri tempi.



Una gran, gran lettura. Molto più autoriale di tanta roba che pretende di esserlo basandosi unicamente sul peso specifico del proprio linguaggio.

venerdì 27 novembre 2009

Kill: Kodomo Zamurai di Kenta Fukasaku (Jap/2008)


Kenta Fukasaku è l’antitesi di tutta quella pletora di splatter nippostatunitensi che stanno invadendo il mercato occidentale. Tanto quelli sono fintamente pericolosi, nascondendo la loro sterilità dietro un mare di emoglobina gratuito e inoffensivo, tanto ogni lavoro di Kenta (a esclusione di Under the Same Moon) si dimostra una bomba a orologeria mimetizzata da caramella gommosa. Da il via alla sua carriera parlando della società, nascondendo la metafora prima in una delle migliori (anche se finta) trasposizioni videoludiche di sempre (Battle Royale 2) poi in una riproposizione idolcentrica del classico filone nipponico delle scolarette combattenti (Yo Yo Girl Cop). In un secondo tempo, con XX, decide di esplorare i generi, raccontando una vicenda rosa dalle tinte adolescenziali attraverso il linguaggio dell’incubo rurale. Il risultato è una pellicola come mai si era vista prima, dove i toni romantici non sono inframmezzati da segmenti horror (o viceversa) ma fusi nel loro dna profondo. Peccato che a tutta questa irruenza teorica spesso il figlio del Maestro non riesca ad affiancare una competenza tecnica equivalente, andando puntualmente a macchiare le sue opere con facilonerie e cadute di tono (soprattutto quando si parla di ritmo). E con Kodomo Zamurai, secondo episodio dell’antologia Kill (supervisionata da Mamoru Oshii) torna nuovamente sui suoi errori. La solita tonnellata di idee caustiche e dolorosamente divertenti ficcate in un involucro cazzone: ragazzini che combattono il bullismo con katane. Se si è capaci di leggere tra le righe non è difficile percepire il livore che Fukasaku (metto il cognome perché valeva anche per il padre) matura nei confronti della società nipponica. Qui si parla di bambini schiacciati da grosse responsabilità, adulti assenti e di immaginari totalizzanti. Insomma, un bel mucchio di idee e riflessioni schiacciate all’interno di un cortometraggio che a una visione superficiale potrebbe sembrare solo una sciocchezzuola leggera, dove i bambini si aprono il ventre a vicenda con lame affilate come rasoi. Come tutto il resto della sua filmografia anche Kill è un paradosso: troppa pancia nel mettere su pellicola intuizioni da sociologo trattate con linguaggio da teen ager. Pare che la furia iconoclasta del Nostro sia talmente incontenibile da sabotare il suo stesso lavoro. Anche se gli interrogativi a cui ci mette di fronte sono enormi e di una profondità non indifferente, l’impressione è sempre quella di un esercizio di stile futile e privo di peso specifico. In questo modo allontana sempre di più la sua consacrazione a regista di primo livello, andando a compiere un miracolo di mimetizzazione all’interno del magazzino di significati da lui sondato incessantemente. In altre parole: è più pericolosa una bomba con stampato sopra un teschio minaccioso o una mina a forma di giocattolo?




giovedì 26 novembre 2009

[idee che mi frullano in testa e li rimarranno] 2D videogame mockup

Una delle idee che mi frulla in testa da più tempo è un bel gigalibrone sull'arte videoludica in 2D. Sarebbe un sogno commissionare a un tot di artisti della pixel art un finto livello di uno sparatutto/picchiaduro a scorrimento di loro creazione. Il risultato sarebbero una serie di illustrazioni stampate su pagine pieghevoli a 8 ante (almeno) raccolte in una bella copertina rigida plasticosa. Magari ci si aggiungono qualche pagina della stessa dimensione riempite fitte fitte di personaggi, veicoli e terribili boss di fine livello. In qualsiasi caso il tutto risulterebbe troppo costoso per le mie povere tasche, quindi l'idea di questa uscita rimarrà tale. Una conclusione che non mi vieta comunque di studiare una line up ideale per il volume. Primo nome da contattare il grande Jalonso di Bugpixel, seguito a ruota da Gary J Lucken (come credenziale beccatevi la lista di cover fatte per Edge Magazine). E tra tutti questi esperti di mondi intangibili ci ficcherei, a sopresa, Jon Haddock. Tanto per vedere a che punto siamo con la confusione realtà/finzione.

martedì 24 novembre 2009

Emigre No. 70: la fine dell'inizio

Direttamente dal volume:



"In an underground you don't have the notion of success or failure, you just have the notion of making something. And that's what saves you. It's not how professional it looks. It's because you are doing what you are doing because you belive in it".



"Vignelli, a design institution, has made up his mind and minces no words: Emigre is a national calamity. An aberration of culture".



"The USPS observes that it's an awfully strange creation to be called a magazine. I'm flattered by the compliment".



Emigre nasce nel garage di un giovane designer a metà degli anni '80. E' la prima rivista della storia a dedicare pagine e pagine a saggi su come un'impaginazione possa suggerire idee politiche. Ci trovi analisi critiche sull'arte di disegnare font,
lunghissime interviste ai designer più d'avanguardia. Emigre cambia logo, layout e font a ogni uscita. Allega cd e dvd a titolo gratuito, fa di tutto per non piacere ai suoi stessi lettori. Poi li riconquista dedicandogli un intero numero, costituito unicamente da foto di tutte le pubblicazioni indipendenti ricevute in redazione. Rimescola le carte in tavola come nessuno aveva ancora fatto. Per 63 numeri (su 70 totali) viene finanziata con la vendita di font sviluppati dagli stessi Rudy Vanderlans e da sua moglie. Poi il declino e la chiusura per fallimento. Dopo 20 anni passati a fare da spina nel fianco ai cosidetti professionisti di settore.



A distanza di 4 anni dalla chiusura la grande Gingko Press da finalmente alle stampe il numero 70. Un tomo di 512 pagine battezzato The Look Back Issue, contenente intere sezioni di tutti i 69 precedenti. Porzioni riportate rispettando maniacalmente impaginazione e scelta dei caratteri. Una maratona nella comunicazione degli ultimi 25 anni.



Ora stiamo tutti a sbrodolare su questa nuova uscita. Sulla sua copertina rigida, sul cd allegato, sul minilibricino nascosto in una tasca interna (dove troviamo una selezione delle migliori lettere indirizzate al fondatore). Ma all'epoca Emigre era una fanzina. Troppo storta, strana e fuori dai canoni per essere considerata un vero magazine. Peccato che molti dei volumi pubblicati nel 2009 possano essere tranquillamente essere confusi con le sue uscite di metà anni '90.

sabato 21 novembre 2009

Le classificone di fine anno: parte Decibel Magazine

Ecco la prima classifica di fine anno, compilata dall'autorevole Decibel Magazine:



1. Baroness-The Blue Record
2. Converge-Axe To Fall
3. Coalesce- Ox
4. Napalm Death-Time Waits No Slave
5. Cobalt-Gin
6. Kylesa-Static Tensions
7. Slayer-World Painted Blood
8. Tombs-Winter Hours
9. Marduk-Wormwood
10. Isis-Wavering Radiant
11. Immortal-All Shall Fall
12. Agoraphobic Nosebleed-Agorapocalypse
13. Obscura-Cosmogenesis
14. Magrudergrind-S/T
15. Nile-Those Whom The Gods Detest
16. YOB- The Great Cessation
17. Mastodon-Crack The Skye
18. Paradise Lost-Fath Divides Us,Death Unites Us
19. The Atlas Moth-A Glorified Piece Of Blue Sky
20. Asphyx-Death...The Brutal Way
21. Altar Of Plauges-White Tomb
22. Mournful Congregation-The June Frost
23. Funeral Mist-Maranatha
24. The Gates Of Slumber-Hymns Of Blood And Thunder
25. Burnt By The Sun-Heart Of Darkness
26. City Of Ships-Look What God Did To Us
27. Goatwhore-Carving Out The Eyes Of God
28. Gaza-He Is Never Coming Back
29. Katatonia-Night Is The New Day
30. Keelhaul-Keelhaul's Triumphannt Return To Obscurity
31. The Red Chord-Fed Through The Teeth Machine
32. Brutal Truth-Evolution Through Revolution
33. Krallice-Dimensional Bleedthrough
34. Culted-Below The Thunders Of The Upper Deep
35. Goes Cube-Another Day Has Passed
36. Suffocation-Blood Oath
37. Javelina-Beasts Among Sheep
38. Municipal Waste-Massive Aggressor
39. Millions-Gather Scatter
40. Funebrarum-The Sleep Of Morbid Dreams



Pareri personali (per quanto riguarda i miei generi): Baroness ottimi ma troppo in alto, Coalesce e Converge da invertire, Mastodon sottovalutati da paura, black metal ormai trendy, sorpresona Kylesa, fuori i Keelhaul (delusione) dentro i Cable, ottima la presenza dei Goes Cube, dei Gaza non sapevo neppure fosse uscito il disco nuovo e i Between the Buried and Me passati rapidamente da nuovi messia a band inutile. Nessuna traccia di deathcore.

giovedì 19 novembre 2009

Ma in questo film non succede niente! Nymph di Pen-Ek Ratanaruang (Tha/2009)

Al posto della locandina una foto della protagonista. Penso non ci rimanga male nessuno.



Tanto per fare chiarezza: Nymph è un film dove non succede nulla. Quello che vedrete nei suoi 100 minuti un qualsiasi altro regista lo avrebbe compresso nei primi 5, tanto per procurarsi uno spunto stimolante su cui imbastire il resto della vicenda. La trama è riassumibile più o meno così: una coppia in crisi va a fare delle foto in una giungla, lui trova un albero misterioso, sparisce, ricompare più affettuoso di prima, sparisce nuovamente. Fine. La ninfa del titolo compare per tre micro sequenze di pochi secondi l’una, ma quando arrivano si incomincia a capire qualcosa del vero valore dell’opera.



Tanto per cominciare il regista si chiama Pen-Ek Ratanaruang, l’uomo dietro a quella perla di Last Life in the Universe. Noir contemplativo dal cast stellare (Tadanobu Asano, Takashi Miike, quelle gran fighe delle sorelle Boonyasak), elegantissimo nei movimenti di macchina così come nella fotografia (a opera di Christopher “CV che mette imbarazzo” Doyle) e nella sceneggiatura (contiene il colpo di scena meno urlato della storia, una chiave di volta per la vicenda che molta gente non coglierà neppure). Nymph non è certo all’altezza di questa uscita, ma le sue pretese di horror esistenzialista dal forte tasso artistico riescono comunque ad affascinare come non ci si aspetterebbe. In primis per l’estrema cura con cui è girato. Il piano sequenza che apre il lungometraggio, camera a mano che diventa dolly che diventa gru, potrebbe essere visto come noioso (e in effetti la sua natura di virtuosismo è schiacciata e tenuta nascosta il più possibile) ma rappresenta una delle migliori prospettive spiritiche dai tempi del primo Raimi. In secondo luogo per il ritmo con cui avanza la vicenda. Le inquadrature indugiano su particolari apparentemente insignificanti e i tempi sono dilatati all’inverosimile (anche nei dialoghi) con una tale precisione che è impossibile non pensare che il film sia stato concepito già in fase di preproduzione in tale modo. Un immobilismo che trova la sua spiegazione proprio nel nodo centrale della sceneggiatura. Dopotutto il punto di svolta lo si ha quando il protagonista trova un albero secolare, non esattamente un simbolo di dinamismo e velocità.



Nymph è un po’ una risposta thai all’Anticristo di Von Trier. Stesso piglio da video arte e un po’ troppa consapevolezza autoriale. La grossa differenza la fanno la delicatezza con cui Pen-Ek Ratanaruang tratta sentimenti e rapporti umani, uno dei punti fissi del suo cinema rarefatto. L’elemento sovrannaturale si confonde con gli scherzi della psiche. Di certo rimangono solo gli affetti da sanare.




mercoledì 18 novembre 2009

23 marzo 2010: fuori il nuovo Dillinger Escape Plan





Il video sopra è vecchio ma fa sempre figo. Qui invece il teaser site (con sample inediti) del prossimo lavoro della band più avanti dell'universo. La prima a fare un album solo per iTune (quello con la cover di Justin Timberlake rifatta identica), a sfruttare Mike Patton per suonare un pezzo di Aphex Twin, a dire di no alla Sony per gestirsi da soli (dalla stampa delle magliette al prezzo dei biglietti per gli show), a suonare mathgrindcore in una galleria d'arte, a mettere un singolo in falsetto in un disco che ti spacca il cervello e tante altre cose fighe.



Sotto un altro pezzo del puzzle abbandonato per Youtube...




Passenger 2 in linea per voi

Qui ve lo leggete aggratis! Cosa volete di più?

Ci sono vampiri e vampiri: Thirst di Park Chan Wook (Kor/2009)

Il problema più grosso di Thirst è che dentro c’è troppa, troppa roba. A conti fatti basterebbe uno spezzone di dieci minuti a caso del nuovo lavoro del sommo Park Chan Wook per fare tabula rasa dell’indigestione vampirica degli ultimi anni, fatta eccezione per il magnifico Lasciami Entrare (perfetta e cinica rappresentazione del vampiro come parassita). Il sud coreano ci porta un film meno visivamente sontuoso della commedia romantica I'm a Cyborg, But That's OK (straordinario fin dai titoli di testa) e lontano dalle efferatezze di Sympathy for Lady Vengeance (a oggi il suo capolavoro), eppure incomparabile come libertà e aderenza alle proprie ossessioni personali. Tematiche e intuizioni si affastellano lungo i 135 minuti della pellicola, appesantendola per una sorta di eccesso di scene madri. La cosa sorprende ancora di più pensando al fatto che, mai come in questo caso, Park Chan Wook procede per sottrazione, asciugando l’impossibile e sfruttando l’elisse narrativa al limite del comprensibile. Se vorrete capire qualcosa in Thirst dovrete accendere il cervello e cercare di capire cosa stiano pensando i personaggi, visto che di spiegoni e linee di dialogo chiarificatrici non ne vedrete neppure l’ombra. Esemplificativo di questa tendenza il magnifico finale, dove tutte le fila del racconto vengono tirate senza dire una sola parola (e dura tipo 20 minuti!). Una fetta larghissima del metraggio viene dedicato alle scene di sesso, umide e grottesche, mentre l’emoglobina finisce per scorrere, tanto, quando meno te lo aspetti. Tutto il contrario di quello a cui ci hanno abituati anni di nostalgia, postmodernismo, splatter gratuito e miopia da nerd. Dopo averci narrato il vero orrore, quello che non ha bisogno di allegorie e metafore, con i due Sympathy adesso è il momento di parlare di Autorialità partendo da materiale di genere. A conti fatti Thirst sembra fatto per non piacere a nessuno, a chi ricercava denti cavati con il martello, sontuosi dolly su carte da parati improponibili (anche se di movimenti impossibili ne è pieno), nevicate purificatrici o corridoi della paura color pastello. Unici fattori a riconfermare al 100% che la mano dietro la macchina da presa la conosciamo già sono le consuete riflessioni sulla moralità e i picchi di humor nero. Che non si traducono in schizzi di sangue o battute smargiasse, ma in colpi diretti alla bocca dello stomaco (se li si sa cogliere). Come di consueto gli umori e i registri si avvicendano senza il minimo stridore, portandoci anche perle di romanticismo assoluto (la già mitologica scena delle scarpe, dieci-secondi-dieci, è la cosa più dolce che vedrete quest’anno) o spiragli di pura potenza visionaria (le balene sul finale, i balletti amorosi sui tetti). Le genialità del Nostro è sempre più consapevole e si adagia sullo sfondo, perdendosi nei particolari. Il linguaggio segreto dei due protagonisti o l’organizzazione del loro appartamento sono aspetti talmente sottili e raffinati che un normale cineasta ci avrebbe costruito l’intero film. Park Chan Wook no, non li mette neppure in evidenza. Li tratta come se fossero spezzoni di banalità, sfaccettature di quotidiano a fare da fondamenta per un mosaico più grande. Cinema astratto, lontano da tutto quello che già si conosceva. L’uomo dietro alla trilogia della vendetta è la punta di diamante di una nuova generazione di registi (dentro ci mettiamo anche il nostro Sorrentino, il Pang Ho Cheung più autoriale, Pen-Ek Ratanaruang, Bong Joon-ho e, se Valhalla Rising riconfermerà il suo nuovo corso avviato in Bronson, Nicolas Winding Refn) capaci di dare nuova linfa alla narrazione partendo proprio dall’essenza prettamente visiva del cinema. Non più opere teatrali su grande schermo, ma inquadrature, montaggio e fotografia.



Qui la scena delle scarpe.

martedì 17 novembre 2009

Converge - Axe to Fall (Epitaph/2009)


Tra il 1998 e il 2002 l’esplosione del post core parse spazzare via tutto quello chi si sapeva precedentemente sulla musica. Un’ondata di band ultratecniche, oscure, cervellotiche eppure legate a un underground fatto di concerti in buchi dispersi chissà dove e dischi stampati in tirature ridicole. Oggi come oggi di quei pionieri non è rimasto molto, chi si è sciolto (Botch, Breach), chi ha cambiato genere (Cave In, Isis), chi preferisce interessarsi di tutt’altro (Dillinger Escape Plan). Solo una band pare essersi presa il fardello di portare avanti una poetica fatta di distorsioni al limite, stridori, urla e furia indecifrabile: i Converge. E lo fanno con quello che probabilmente è il loro miglior disco dai tempi di Jane Doe, opus magnus che difficilmente verrà superato dai suoi stessi fautori. Axe to Fall è la summa tra l’energia da bomba termonucleare del capolavoro appena citato e l’asciuttezza di You Fail Me. Lo strepitoso lavoro di Kurt Ballou, sia in veste di chitarrista che di produttore (il giorno che i Gridlink si faranno produrre da Kurt e masterizzare da Scott Hull avremmo una nuova definizione per distruzione di massa), garantisce abrasività, aggressione e varietà in quantità da overdose. Tutto unito a una sezione ritmica tra il claustrofobico e il tarantolato e alle visioni apocalittiche di un Jacob Bannon mai così versatile. Axe to Fall è sghembo, febbrile, intriso di sangue rappreso, lacrime e sudore. Un crocevia in cui si scontrano grindcore, southern, HC privo di compromessi e il noise più spietato. I Converge ci ricordano ancora una volta cosa significhi suonare musica realmente pericolosa, al di là di tutte le menate legate a ciuffi, death metal, magliette di una taglia in meno e seghe da progster. Assieme ai Coalesce uscita HC (e derivati) dell’anno.



Bonus: trailer del disco!

lunedì 16 novembre 2009

Incognito vs Wanted: le diverse facce del male

Pare che Brubaker si presti piuttosto bene alle comparazioni. Così, dopo 100 Bullets vs Criminal, ecco Incognito vs Wanted. Esattamente come nella miniserie di Millar anche in questo caso i protagonisti sono i cattivi e il set ha pretese di realismo, con la gente comune tenuta all’oscuro della presenza di super esseri. Viene riconfermato il senso di superiorità di questi sull’uomo medio, ma per il resto i due autori scelgono un approccio agli antipodi.



La differenza più grande fra le due proposte è la stessa che passa tra Funny Games e Arancia Meccanica. Il primo ci nausea in virtù del suo essere gratuito e privo di profondità o giustificazione, il secondo arriva più sottile e ci fa capire come si possa continuare a far le stesse identiche cose semplicemente cambiandone la definizione. In entrambi i casi i protagonisti cercano di sfuggire a una vita fatta di mediocrità passando attraverso la violenza e il sopruso, costretti nei panni troppo stretti del tipico impiegato tutto cubicolo/camicia bianca/trasgressioni da 4 soldi. Una ricerca di un senso di vitalità perduto o mai provato che si conclude con, e qui sta tutta la portata destabilizzante dei due titoli, la soddisfazione di tale desiderio. In Wanted si arriverà al risultato preposto passando per un allenamento disumanizzante (per poi esplodere come un fiume in piena) mentre in Incognito sarà un rapporto sessuale sporco a dare il via a una reazione a catena fatta di trasgressioni sempre più grandi (ma sempre dotate di un alibi o giustificazione). Entrambi gli scrittori sfruttano al meglio la loro poetica, con un Millar sboccato fino al paradosso (soprattutto nella versione originale, quasi offensiva nel suo essere ridondante), tutto splash page, frasi a effetto e ritmi vorticosi. Brubaker invece continua la sua personale maratona attraverso gli stilemi del noir, riconfermando tavole frammentatissime, didascalie a fare le veci della voce off (tipica di questa cinematografia) e un maggiore approfondimento psicologico a sfavore dell’azione più pura. Anche la scelta dei disegnatori risulta perfetta per il perseguimento di due ottiche completamente differenti, con Millar a propendere per un disegnatore che da li a poco sarebbe divento una superstar come copertinista (spettacolarità a ogni costo per catturare l’acquirente) e Brubaker ad appellarsi nuovamente alle matite cupe e spigolose di Sean Philipps (già dietro a Sleeper e Criminal).



Fino a questo punto l’approccio di Incognito pare più moralista, meno libero nel tratteggiare con selvaggia libertà il piacere del non avere limiti. Dopotutto Zack si fa domande, ha crisi esistenziali e si trova seriamente sperduto tra futuro, presente e passato (tutto il contrario di Wesley, che liquida ogni dubbio nel gira un paio di tavole). Per dirla tutta sembra quasi che il Nostro criminale sotto protezione si sia quasi deciso a cambiar schieramento, pronto a combattere il crimine con i metodi appresi stando dall’altra parte della barricata. In poche parole continuando a fare quello che faceva prima, ma cambiando i bersagli dei propri colpi mortali. Se era la violenza e la superiorità esibita sul prossimo a farlo sentire vivo, non importa se sotto i suoi pugni finiscano criminali o innocenti. Quello che conta è la carne dilaniata. La società stessa premia o punisce lo stesso comportamento in base a quello che ci ha spinto verso tali conclusioni, proprio come succedeva per Alex e i suoi drughi (a questo proposito consiglio la lettura di Come un'onda che sale di William T. Vollmann, magnifico saggio sulla moralità relativa della violenza reale). Millar invece continua a preferire lo sbeffeggio pornografico e offensivo, portando a pieno compimento il tratteggio di personaggi bestiali e che non pensano neppure lontanamente di giustificarsi ai nostri occhi. In questo senso Wanted non potrebbe essere meglio di così, una lunga cavalcata dell’eccesso come ci si aspettava fosse la vita di un supercattivo (e in Wanted i cattivi lo sono veramente).



A dispetto delle differenze di portata concettuale entrambe le opere trovano la loro dimensione perfetta nella miniserie, giusto spazio per sviluppare idee sospese tre intuizione profonda e divertisement. Al lettore la scelta tra vedere il mondo dagli occhi del tizio a cui piace esagerare sempre (tutti conoscono un tipo così!) o dal finto bravo ragazzo.

giovedì 12 novembre 2009

Politicamente scorretto, socialmente utile







E noi invece ci becchiamo ancora il solito "vip" di turno che parla serio serio su una musichetta triste a fare da tappeto sonoro...

Isis: "20 Minutes/40 Years"





La canzone non mi piace e il video non è tra i miei preferiti. Eppure voglio pubblicare questo 20 Minutes/40 Years per due motivi:



- la mente dietro agli Isis continua a essere Aaron Turner, uno dei migliori grafici/art director musicali a livello mondiale e padrone della HydraHead. Se non la conoscete sappiate che si tratta di una delle etichette più importanti di sempre, con un livello qualitativo medio che il 99% delle sue concorrenti si sogna la notte. E' un tantinello snob ed elitaria, ma ogni tanto concedersi il lusso della puzza sotto il naso non fa male. Fa male invece pensare che Aaron l'abbia fondata a 17 anni (nel 1994).



- il video è diretto da Matthew Santoro, apparentemente un inutile tecnico FX che "vanta" nel suo curriculum capolavori come Alien vs Predator 2 e il sequel dei Fantastici 4. Dico apparentemente inutile perchè pare che il soggetto in questione sia anche il responsabile del prossimo progetto video dei Tool. Per farvi capire l'importanza della cosa sappiate che nella band in questione milita Adam Jones. Al suo attivo gli effetti speciali di Jurassic Park e Terminator 2 più una serie infinita di premi vinti per i video musicali (della sua stessa band). A questo punto mi viene da dire che inutile sia un tantino fuori posto e prevenuto, ma sarà il tempo a darmi ragione o meno.

martedì 10 novembre 2009

Buone nuove da Hong Kong!


Ecco le prime foto dal nuovo film del Maestro Tsui Hark, Detective Dee, sorta di Sherlock Holmes (ma basato su un personaggio realmente esistito) in chiave cantonese. Coreografie di Sammo Hung (nel suo carniere The Valiant Ones e Ashes of Time, non esattamente due titoli da poco) e Andy Lau a vestire i panni del protagonista. Speriamo solo Tsui sia in vena.



Altra bella notizia è che oggi esce questo. Prima uscita di Soi Cheang sotto l'ala materna di Giovannino To e la sua Milkyway Image. Se non avete l'acquolina in bocca probabilmente non avete idea di cosa si stia parlando. L'unico film più atteso di questo potrebbe essere lo slasher splattone (ma sarà molto di più, conoscendo il regista) Dream Home, diretto da Pang Ho Cheung. Che, senza neanche averlo concluso, è già al lavoro su di un nuovo progetto: una commedia romantica (zuccherosa da far schifo, a giudicare dalla trama).

lunedì 9 novembre 2009

Nuova avanguardia: Nemico Pubblico di Michael Mann (2009)

Una storia vera, raccontata attraverso una sceneggiatura esplicitamente romanzata trasposta su grande schermo grazie a uno stile di regia fortemente debitore del linguaggio documentaristico. Con un protagonista (vero ma finito, o viceversa) che, proprio sul finale, identifica se stesso con il personaggio di un film. Ancora una volta Michael Mann trascura il contenuto per uno studio sulla forma. Dopo l’analisi del noir in Collateral, il cinema come essere in divenire di Miami Vice è il momento dello scontro finzione-realtà. Si parte dal genere per concludere nella teoria più pura, e il blockbuster finisce nuovamente per essere sabotato dall’interno. Nemico Pubblico ha grandi nomi, una durata importante (i 149 minuti pesano non poco), messa in scena certosina e la giusta dose di emozioni forti. Peccato che Mann tiri al limite il suo amore per il digitale, scegliendo di alternare le sue consuete camere ad alta definizione con altre opzioni, decisamente più casalinghe e amatoriali. A questo si devono aggiungere set bui, luci dure, soggetti troppo vicini alla camera e riprese traballanti. Paradossalmente qualsiasi uscita della generazione camera a mano (Cloverfield, Diary,..) appare più bella e professionale rispetto al nuovo esperimento del regista di Chicago. I film che dovrebbero apparire veri risultano finti (esclusa la soggettiva in prima persona) mentre Mann ribalta il paradigma. A dimostrazione di questo l’ulteriore approfondimento della sua poetica dello scontro a fuoco. Quanto iniziato in Miami Vice (dal montaggio al sonoro) viene ora elevato al quadrato, anche grazie alla traslazione nel tempo. La sparatoria centrale (con ambientazione notturna) risulta essere quasi incomprensibile, vuoi per la bassa illuminazione che per le nubi di polvere sollevate. Non c’è spazio per inquadrature spettacolari o coreografie, siamo piuttosto dalle parti del reportage di guerra. Antiestetico, privo di spettacolarizzazione, capace di prenderti allo stomaco per immersione diretta. Forse la grandezza del precedente, sottovalutatissimo, opus del regista verrà rivalutato solo ora, alla luce di una serie di elementi che in sole due sortite hanno finito per divenire parti integranti di un' inconfondibile sguardo sul cinema: le interminabili riprese sulle cromature delle auto, i personaggi che si perdono nei loro pensieri (tagliando fuori lo spettatore), i temporali in lontananza, i dialoghi che pescano in pieno dall’hard boiled. Una sorta di cool crepuscolare d’avanguardia, per quanto sia arduo immaginarselo. Difficile sentirsi pienamente soddisfatti appena usciti da una proiezione con il nome del Nostro in cartellone, le sue sono visioni destinate a crescere nelle settimane e nei mesi seguenti. Come solo i grandi riescono a fare.

venerdì 6 novembre 2009

No-trend: Weekend Nachos - Unforgivable

Mio personale disco anti-trend dell'anno. Qui la recensione. Sfoderare la versione LP in pubblico è veramente un piacere impagabile (già sperimentato con Almost Human e Misantropo a Senso Unico dei Cripple Bastards).

giovedì 5 novembre 2009

WK e l'arte di farsi esplodere all'alba dell'apocalisse



WK, oltre a essere un grandissimo street artist, è uno dei provocatori più efficaci della scena artistica contemporanea. Nella sua ultima mostra, How to Blow Yourself Up, ci porta a riflettere sulla presunta apocalisse del 2012. Evento super partes per eccellenza, in cui tutti dovremmo perdere la vita per forza di cose. E se invece fossimo noi a decidere, ogni giorno, di morire? Da questa idea una serie di oggetti quotidiani diventano strumenti di morte, con una certa predilezione per le bombe tubo. L'onda d'urto e il movimento brusco sono da sempre leitmotiv all'interno della poetica del nostro (guardatevi i suoi quadri e i suoi graffiti, a oggi le sue cose migliori), ma questa è la prima volta che dalla conseguenza ci si sposta alla causa. E se prima l'individuo subiva, ora da il via al tutto.

mercoledì 4 novembre 2009

Onetwothreefour: The Amazing Joy Buzzards di Smith & Hipp

Esiste qualcuno più fortunato di Mark Andrew Smith? Almeno per quello che riguarda il mondo del fumetto penso proprio di no. Perché ritrovarsi a scrivere una serie disegnata da Dan Hipp significa più o meno avere il culo parato, qualsiasi svarione di sceneggiatura si possa prendere. Il tratto del pallanuotista è infatti talmente leggero e sciocchino che a questi The Amazing Joy Buzzards si perdona praticamente tutto. Mark Smith però, oltre a essere fortunato, è anche un furbacchione consapevole di esserlo e su questo fattore ci marcia con una spavalderia da applausi. Personaggi eccessivi e stereotipati, trame lasciate a metà, voli pindarici e peso specifico prossimo allo zero. Tutto questo ficcato in un fumetto che parla di una pop/punk band (a metà tra Green Day e Alkaline Trio) impegnata a combattere complotti malvagi, con un contorno fatto di amori adolescenziali, lottatori messicani e agenti segreti della CIA. Diciamoci la verità: basterebbe la metà di quello appena detto per dedicare a questo volume un posto privilegiato sotto la gamba bassa del tavolo. Eppure Dan fa il miracolo e rende tutto credibile, creando il primo fumetto della storia capace di portare avanti una storia sfruttando solo pin up e illustrazioni promozionali. Le tavole funzionali alla narrazione le tiriamo fuori dal faldone la prossima volta.



A dire il vero qualche trovata veramente geniale c’è, tipo i riferimenti alla continuity fittizia della testata (ci sono una marea di richiami a presunti episodi passati, con tanto di titolo del numero in questione). Un buon motivo per perdere qualche minuto a immaginarsi storie come Amazing Joy Buzzards e lo sfintere del pirata superfluo. Menzione speciale per il personaggio di Stevo, in assoluto uno dei più carismatici del fumetto recente. Bassista della band, muto, campione di automobilismo ed esperto di arti marziali. Immancabile lo sconvolgente segreto dietro le sue origini, destinato a venire a galla prima della fine del volume. Un vero figo!



Più che una buona lettura, un’ottima visione (e complimenti a quelli della Renoir che hanno capito questa cosa e hanno tirato fuori una grafica da urlo) capace di garantirvi una parentesi di pura evasione, godibile e soddisfacente nella sua amabilissima inconsistenza. Quando qualcuno avrà la geniale idea di affidare a Hipp una sceneggiatura di Kevin Smith (così magari lo teniamo lontano dalla macchina da presa e lo costringiamo a occuparsi solo dei dialoghi), Joe Kelly o Keith Giffen probabilmente avremmo un nuovo X Statix tra le mani. Mica male!

martedì 3 novembre 2009

MechaBrillo: L'Era dei Titani di Adriano Barone e Massimo Dall'Oglio

Parliamo ancora una volta di postmoderno, ma questa volta evitiamo tutto il discorso su citazioni e Tarantinate varie per fare un passo indietro. Tipo fino ai tempi del decostruzionismo di Heidegger, ovvero il tentativo del filosofo di mostrare un qualsiasi fenomeno come esso appare in realtà, andando a intaccare direttamente i vari piani ontologici. Il tedesco cercava di applicare questi concetti al linguaggio della metafisica, Adriano Barone e Massimo Dall’Oglio invece agli anime dove enormi robot si prendono a mazzate. Tradotto in linguaggio corrente sta più o meno a significare che L’Era dei Titani è uno studio filologicamente perfetto del genere in questione (nella sua accezione più moderna). Tanto chirurgico e perfetto da dimostrare la propria consapevolezza con l’adesione maniacale al modello originale, piuttosto che incappando nella trappola dello spiegone e della battuta metanarrativa.



Sfogliando il primo volume di L’EdT si ha l’impressione di assistere a una puntata di un anime. Ancora meglio, del succo di tutti gli anime prodotti negli ultimi 20 anni. Abbiamo un segmento di subplot a lunghissimo termine sovrapposto a una narrazione di tipo verticale (destinata cioè a nascere e morire nell’arco della puntata) con cui condivide toni e tematiche. La puntata si apre con un evento che introduce narrativamente (getta le basi per il dipanarsi della sceneggiatura) e concettualmente (tra le righe ci puoi leggere il tema dell’episodio) a quello che verrà, abbiamo la parte centrale dove vengono sviluppate le due trame e la conclusione con il più classico degli scontri finali. Che, naturalmente, avviene sia a livello fisico (mazzate) che a livello di crescita interiore del personaggio (scelte difficili da prendere, traumi da superare,…). Tutto questo rispettando ogni tipo di punto fisso di serie come Evangelion e compagnia varia: la prima apparizione del robottone (a effetto ma non tamarra, con tanto di didascalia apparentemente relativa al mecha ma che in realtà parla di chi c’è dentro), introduzione di una nuova arma (cresce il personaggio quindi anche il suo avatar meccanico), spalla simpatica, il dottore austero e disumano che comanda tutto, amori, tradimenti, diversi piani di lettura sul significato dei cattivi,… Tutto come da copione? Assolutamente sì. E per una volta è puro sollazzo.



In questi casi non si dovrebbe parlare di postmoderno puro, manca la componente di sberleffo e di prospettivismo, ma la forte carica pop del soggetto di studio non può fare a meno di distanziarci da modelli troppo alti per finire nell'apprezzamento dell’oggetto industriale (riproducibile) di per sé. Non voglio dire che L’Era dei Titani è il detersivo Brillo dei fumetti di robot giganti, ma più o meno il concetto è quello. Da questa prospettiva verrebbe quasi voglia di cancellare quel paio di ottime trovate autoriali che arricchiscono l’albo (come per esempio l’omertà che circonda l’infezione, probabilmente il punto più umanamente alto dell’opera).



Un esempio di narrazione talmente tipicizzata da risultare appetibile soprattutto a chi di tali prodotti ne ha consumate tonnellate. Come si diceva, postmoderno.

lunedì 2 novembre 2009

Lucca 2009: il pubblico c'è


A dispetto di tutti i luoghi comuni possibili e immaginabili il pubblico c'è. Non nel senso di numeri, ma di testoline pensanti. Che cominciano a capire che le cose le si cambia insieme. Ne sono la prova le centinaia di persone che sono passate al nostro stand, sfogliato i nostri volumi, dato conferme (tantissime, oltre che clamorose), sonore stroncature, consigli e opinioni. Dobbiamo un grazie enorme a tutti quelli che hanno investito tempo e denaro nei nostri prodotti, nel lavoro di tutti i ragazzi che li hanno scritti e illustrati. Siamo ben coscienti di essere ancora lontani dalla perfezione (succede, quando ci si avventura in strade poco battute), ma vedere che tanta gente crede in quello che facciamo ed è disposta a rinunciare ad altri acquisti per privilegiare i nostri libri è veramente qualcosa che ti ripaga di tutti i mesi passati a sgobbare, delle migliaia di euro investiti e delle ore strappate a fidanzate/amici/birrette/film di Liu Chia Liang/...



Quando il buon Christian mi coinvolse nella Passenger Press non avevamo idea che saremmo arrivati a pubblicare storie scritte da registi porno gay, art book di esordenti cinesi e libri oggetto (tra le altre cose). Mai avremmo pensato di avere la fortuna di poter far arrivare al pubblico i lavori di debuttanti affiancandoli a mostri sacri come Risso o Giardino.
Per questo un grazie enorme a tutti. Se un giorno riusciremo veramente a cambiare qualcosa un sacco di gente dovrà stringere la mano a tutti quelli che hanno nella loro libreria una pubblicazione Passenger Press.



Siete stati tutti fenomenali, se fossi ricco noleggerei la coppia Greg & Red per un paio d'anni e ve la invierei a casa per il vostro compleanno. Per ora accontentatevi.