venerdì 31 dicembre 2010

[Fine anno, fine della benzina. Vai di modalità riciclo] Top 5 (+1) libri d'arte




Trespass. A History of Uncommissioned Urban Art: non solo graffiti e stickers ma anche performance, installazioni e sabotaggi all’arredo urbano. Ogni via per riprendersi la città è raccolta in questo fantastico gigavolume edito da Taschen. Carta lussuosissima, grande formato, copertina realizzata con vero nastro adesivo (bollicine d’aria comprese). Un compendio immancabile.






Yoshitomo Nara – Nobody’s Fool: mentre ormai il suo compare Takashi Murakami è sulla bocca soprattutto di chi non ne capisce, Yoshitomo continua a sfuggire alla sdoganazione di massa. E per fortuna, perché il suo mondo fatto di cagnolini stralunati e bambine imbronciate deve rimanere piccolo e intimo come i ricordi della nostra infanzia. Questo libro extralusso (fantastico lo slip case fatto a finestrelle) finalmente gli rende giustizia raccogliendone praticamente l’opera omnia. Dai flyer per i concerti punk alle sculture esposte nelle gallerie d’arte.







Full Bleed/Supreme: 30 anni di skate newyorkese attraverso una serie di fotografie sbalorditive (tra i contributori c’è gente del calibro di Spike Jonze e Larry Clark). Volume semplicissimo (tutte fotografie stampate full bleed – al vivo) ma fondamentale per capire come una certa cultura di strada abbia veramente rivoluzionato il mondo partendo dal basso. Affiancatelo al volume della Supreme edito da Rizzoli, tanto per capire come un piccolo brand di abbigliamento skate (made in NY) sia arrivato a lavorare con Jeff Koons, Richard Prince, Damien Hirst e George Condo. E a farsi rappresentare da Tera Patrick.






Kaws – S/T: forse l’artista simbolo di questo 2010. Portato a un certo pubblico dai cacciatori di teste di Colette oggi Kaws è praticamente una one-man-factory: stilista, designer, writer e scultore. Questa sua prima monografia ci racconta, attraverso diversi tipi di carta e di stampa, la sua storia. Dai cartelloni di Manhattan al suo personale concept store in quel di Tokyo, passando da abbigliamento street e giocattoli in vinile. Ogni mezzo è lecito per diffonderla propria arte.






Mika Ninagawa – S/T: l’anello mancante tra Takashi Murakami, David LaChapelle e Mariko Mori. In questo volume sono raccolte centinaia di fotografie della giovanissima nipponica. Tra estetica manga, kitsch, erotismo raffinato e improvvisi sprazzi di interiorità. Una gioia per gli occhi e una valida alternativa al poverismo Vice-style ormai dilagante ovunque.




potente di fuoco from Modo infoshop on Vimeo.





Leonardo/Erica il Cane – Potente di Fuoco: è di fine 2009 ma io me ne frego, è talmente bello che ne voglio parlare a ogni costo. Leonardo non è altro che lo stesso Erica in età prescolare, già impegnato a creare universi lontani (ma non troppo). Nel volume troviamogli stessi disegni rivisti a 25 anni di distanza da un artista ormai affermato a livello globale. Cambia l’esposizione pubblica ma non la poesia, e così finisce che ogni doppia pagina racconta storie in cui è bello perdersi.

giovedì 30 dicembre 2010

[Fine anno, fine della benzina. Vai di modalità riciclo] Top 5 (+1) fumetti (pubblicati in Italia nel 2010)




Frankencastle di Moore/Remender: questo è il classico volume schifato da tutti in fase di preview ma che ci siamo gustati leccandoci le dita appena arrivato sugli scaffali delle fumetterie. Il perché è presto spiegato: esiste nel fumetto moderno una coppia più figa di Moore e Remender? Tony alle matite è pop art allo stato puro, l’unico degno erede di Allred. Rick ne è la perfetta controparte testuale. Fumetto frizzante e spigliato (ma con una classe enorme) come se ne dovrebbero fare di più. Poi la trama è talmente campata in aria da sfiorare il capolavoro.






Scalped – Rosicchiare di Aaron/Guéra: IL noir. Un campo dove si gioca sporco, sporchissimo. Nessuna pietà, nessuna cessione alla fantasia. Tutto è assolutamente ancorato al terreno come un pezzo di asfalto nero e appiccicoso. Le figure retoriche non esistono nel mondo di Scalped. Se uno muore significa semplicemente che ha tagliato la strada alla persona sbagliata. Quando poi tutto è accompagnato dalle linee di dialogo di Aaron sai che la perfezione è vicina.






Chew di Layman/Gullory: divertente, dissacrante, legato all’attualità. In più c’è una storia d’amore che meno ortodossa non potrebbe essere e tante robette disgustose. Il buon cattivo gusto è materia che va misurata con il bilancino per il fumo, tanto si rischia di fare il passo più lungo della gamba. Per fortuna Layman e Gullory sembrano fatti apposta per questo mestiere.






I Kill Giants di Kelly/Niimura: la malattia vista attraverso gli occhi dell’infanzia. Toccante senza sconfinare nel pietismo, scosso da una forza interiore dalla potenza incontenibile. Temi d’autore incontrano il fumetto più nerdcentrico e dimostrano che una convivenza è possibile. Adesso sta ai diretti interessati capire che non è obbligatorio andare avanti a maxisaghe autoreferenziali o racconti minimal ombelicali.






Portami Via di Nate Powell: anche qui si parla di temi delicatissimi come l’emarginazione giovanile e la malattia mentale. La sensibilità underground di Nate Powell permette di filtrare questi argomenti importanti attraverso un’ottica (quasi) originale, quella di un mondo rovesciato: non siamo noi a guardare i presunti pazzi come alterità, ma viceversa. E adesso chi è l’emarginato, loro o noi nella nostra placida normalità? Tanto per ricordarsi che a volte è giusto rimettere le cose in discussione.






Sangue Amaro di Abel/Soria/Pleece : l’unico modo di farmi piacere i vampiri. Una visione sui principi delle tenebre molto più realistica di tutto l’armamentario proto dark che ci sta intossicando ultimamente (e non parlo solo di Twilight, mi riferisco soprattutto a quelle che vorrebbero esserne le risposte serie). Più che temuti i vampiri di Los Angeles sono emarginati sociali, adatti solo al turno di notte in qualche minimarket aperto 24 ore su 24. Uno spasso venato di amarezza.






Miglior raccolta



The Losers Omnibus di Diggle/Jock: uno dei migliori action a fumetti di sempre. Esagerato, ironico, arricchito dalle funamboliche tavole di Jock. Sarà anche intrattenimento fine a se stesso, ma è una gioia come se ne vedono di rado. Il ritmo è esagerato, la scelta delle inquadrature mai banale, i dialoghi sono una concatenazione di smargiassate tanto spavalda da sfociare spesso e volentieri nell’auto parodia (volontaria). Diciamo che non basta essere onesti artigiani per arrivare a questi risultati. La Planeta raccoglie tutto questo bengodi in un volumone cartonato bello ciccioso, avvolto in una copertina sfavillante (e in un fascetta ancora più figa) che è un piacere vedere in libreria. Godo come un ricco.

lunedì 27 dicembre 2010

[Fine anno, fine della benzina. Vai di modalità riciclo] Top 5 (+1) cinema




Animal Kingdom di David Michôd : c'è chi non riesce a girare un film senza urlare o ammiccare e chi gira il noir più devastante dell'anno senza uscire una volta dalle righe. Elegante, sottotono, minimale. Luminosissimo nonostante le tenebre che lo pervadono.






Kick-Ass di Matthew Vaughn: gemello/nemesi dello Scott Pilgrim che ha fatto sbavare tutti. Più pacato a livello di regia, totalmente fuori controllo come contenuti. Volgare, violento, fine a se stesso. Privo di ogni forma di epicità. Lo specchio dei nostri anni. E in questo supera di gran lunga il suo fratellone a 8 bit, rivisitazione emo dei bei tempi andati. Se da un parte l’eroe è un musicista che vuole conquistarsi la ragazza dei sogni, qui è un tizio che finisce su YouTube mentre viene massacrato di botte. Chiaro, no?





Exit Through the Gift Shop di Banksy: commedia? Documentario? Presa per il culo? In qualsiasi caso l‘esordio di Banksy dietro la ma
cchina da presa rimarrà impresso per carica caustica, lucidità e totale avversione al culto della personalità. Si ride sputacchiando veleno. Per quello che mi riguarda, è tutto quello di cui ho bisogno.







Dream Home di Pang Ho Cheung: come ho già detto, l’unica vera attualizzazione possibile degli anni d’oro dell’horror. Un tema attualissimo su cui speculare, violenza gratuita, sesso a profusione e qualche frecciatina politica per far contenti quelli che devono trovare il messaggio in tutto. Peccato che dietro a tutto il baraccone ci sia quella macchina concettuale di Pang Ho Cheung. Uno che non riesce prendere nulla sul serio. Neanche il suo cinema.






Valhalla Rising di Nicolas Winding Refn: tecnicamente è del 2009, ma il grande pubblico ne ha potuto godere solo dal 2010. In qualunque caso il capolavoro di Refn. Doloroso, ostico, immobile. Il drone fatto cinema. Se la vita dei vichinghi poteva essere rappresentata in qualche modo il danese c’è riuscito perfettamente. Gli ultimi capitoli sono orrore e angoscia a livelli insostenibili.






Best Worst Movie di Michael Paul Stephenson: anche questo è del 2009, ma ce lo siamo potuti gustare solo pochi mesi fa (grazie alla release US del DVD). Puro amore per il cinema e per quella insana passione che ti spinge a celebrare filmacci incomprensibili ai più. A tratti tenero, molto spesso spietato e amaro. Nessuna rivalutazione o celebrazione fuori tempo massimo. Solo la vita che rimette tutto a posto e il tempo a celebrare i superstiti del suo passaggio.

venerdì 24 dicembre 2010

[Fine anno, fine della benzina. Vai di modalità riciclo] Top 5 (+1) musica





Torche - Songs for Singles: i Torche continuano a essere un mistero. Ultramelodici eppure ostili, potenzialmente per tutti ma relegati al culto di nicchia. Poco importa, alla loro terza uscita lunga ci regalano un nuovo capolavoro in miniatura (dura 20 minuti in tutto). Naturalmente fuori per la solita Hydra Head, sempre più al vertice della produzione musicale moderna (a breve esce anche il prossimo Gridlink, tanto per dire).







Nails - Unsilent Death: dopo la sbornia di post death-core dello scorso anno ci voleva proprio una bella scarica di pura e semplice ignoranza. Grind + powerviolence + HC + crust. Dura essere più bestiali. Dentro ci trovate pure gente dei Terror, gentaccia da L.A. malata per il suono di Boston.







The Secret - Solve Et Coagula: uno dei dischi più oscuri usciti dalla nostra nazione e in assoluto uno dei picchi di malvagità dell'anno. I The Secret sono un tesoro nazionale di cui andare fieri.







Ghost - Opus Eponymous: come fai a non adorare una band che fa rock satanico nel 2010? Una roba così non la si sentiva dai tempi degli Jacula. Da applausi il make up del cantante in sede live. La Svezia rimane una delle incubatrici di rock classico più vitali a livello mondiale. Sarà per via di tutte quelle muscle car anni '70 che sfrecciano ancora oggi sulle loro strade (viste con i miei occhi, a Stoccolma circola un numero esorbitante di Mustang).







High On Fire - Snakes for the Devine: perchè Matt Pike è il rock. Eccessivo, ignorante, strafatto, decadente. Eppure non sbaglia un disco neanche a pagarlo. Prima con gli Sleep, ora con gli High On Fire. Una vera rockstar, outsider per la vita. E raffinatissimo collezionista di amplificatori (guardatevi sulla sua pagina Wiki con che attrezzatura gira).







Mike Patton - Mondo Cane: era parecchio che non ascoltavo un disco in maniera così ossessiva. Adesso conosco a memoria canzoni di cui prima non mi sarebbe importato nulla. A dimostrazione che quando uno ha classe e si sceglie bene i compagni di viaggio può riuscire in praticamente tutto.

mercoledì 22 dicembre 2010

Non ci sono più le famiglie di una volta: Animal Kingdom di David Michod (Australia/2010)




Uno degli errori più comuni in cui si può cadere parlando di cinema (o di qualsiasi altra forma di espressione creativa) è la frammentazione del discorso critico. Si analizza la sceneggiatura, poi la regia, magari si spende qualche parola su montaggio o colonna sonora e infine si passa agli attori. La figura dell’autore totalizzante è sempre più rara (anche perché si spendono sempre più parole a difendere innocui shooter privi di spessore) e quindi è naturale che ogni comparto della filiera cinema sia analizzato in separata sede. Fortuna che ogni tanto vengono a galla opere come questo Animal Kingdom, dove tutto è basato sulla coesione di linguaggi.



Con un titolo così ti aspetti la solita corsa all’eccesso, l’ormai classico effetto domino che porta a conseguenze sempre peggiori. Ti immagini una gabbia dei leoni tratteggiata con pennellate grezze e qualunquiste, dove il rapporto di azione-reazione porta sempre e comunque a scene madri fatte di testosterone/smargiassate/esasperazione. E invece abbiamo un Pusher in chiave australiana, dove non esiste carisma o climax gasante. L’unica differenza con la trilogia di Refn è l’estrema eleganza scelta da David Michod. Se il danese si affida alla camera a mano e a una fotografia squallida, in Animal Kingdom abbiamo languide carrellate, un montaggio invisibile e una paletta dai colori tenui (non desaturati).



Più che di affresco criminale si dovrebbe parlare di dramma familiare, genere di cui prende anche il ritmo intimista e privo di colpi di scena. Muore parecchia gente, in maniera anche brutale, come se tutto fosse naturale e scontato. Assistiamo a una faida tra la polizia e una famiglia di malavitosi, eppure siamo più concentrati sui rapporti tra fratelli e zii. Sono in molti a cadere, ma la cosa che ci fa più male è la sgradevolezza di certi personaggi e l’inutilità di altri. Lo stesso protagonista (interpretato in maniera straordinaria da James Frecheville) spesso infastidisce per l’ inadeguatezza e la mancanza di carattere. Si lascia trascinare, fino al dovuto colpo di coda finale.



Tutto in Animal Kingdom è sottotono. Non esistono picchi. La colonna sonora si manifesta in maniera minimale, andando a fare da cornice a momenti rallentati in fase di montaggio (unico espediente stilistico veramente visibile e carico di forza emozionale). Pochissime parole, ancora meno fatti. La parola chiave è rarefatto . Straordinaria in questo senso è la scena del primo arresto dello zio Pope. Il protagonista si alza dal divano e lascia il soggiorno, sullo sfondo vediamo le forze speciali già in casa e pronte a intervenire. Parte il tema musicale, i fotogrammi al secondo si moltiplicano regalandoci un rallenty straordinario. Una delle scene più importanti del lungometraggio guadagna un minimo di importanza solo in virtù di questa trovata, altrimenti si sarebbe conclusa in pochi istanti.



Uno dei film dell’anno, proprio in virtù della sua capacità di compattare ogni aspetto della messa in scena. Tutto è allineato, donando all’insieme la coesione necessaria a reggere un’atmosfera così gelida e distante. Sarebbe bastato un colpo di scena in più, un monologo troppo sopra le righe, uno scivolone nel gratuito e il castello di carte sarebbe crollato in un soffio. Fortunatamente David Michod l'ha capito prima di noi.



domenica 19 dicembre 2010

Love Is In Control (Finger On the Trigger)





Quanto è incazzosa la scimmia della nuova testata? Merito del buon Christian, deciso ad anticipare il Natale con un omaggio più che gradito. Una bella occasione anche per dare il via a una bella rinfrescata al blog (che proseguirà appena scoprirò come eliminare ancora più roba) e per mettere in condivisione Love Is In Control, volumetto scritto da me e disegnato magnificamente dal solito Chris. Dentro ci trovate un pò di tutto: John Woo (il suo finale più bello), Damien Hirst, Will & Grace, Seurat, Donna Summer,... e tanta altra roba. Una cazzatella piuttosto divertente da scrivere, spero altrettanto da leggere. Cover del nostro amico losangelino Apricot Mantle.

giovedì 16 dicembre 2010

Le scale nel mondo dell'arte





Mentre il MOCA censura il nuovo lavoro di Blu (da loro commissionato e approvato) il video Fire in My Belly di David Wojnarowicz torna visibile in pubblico (e nel frattempo Susan Philipsz vince il Turner Prize). Senza dimenticare un dissonantissimo Morricone sempre più a suo agio nel mondo della videoarte (qui finalmente la sua nuova collaborazione).



A Fire in My Belly from ppow_gallery on Vimeo.

lunedì 13 dicembre 2010

Exploitation oggi (e, per una volta, in senso buono): Dream Home di Pang Ho Cheung (Hk/2010)




Visto che questo film ormai l’hanno visto praticamente tutti ci dedico solo due righe rapide, tanto per riflettere sulla straordinaria operazione cinefila portata avanti da Pang.



C’era una volta il b-movie, filone dai mille tentacoli mossi da un’unica forza motrice: lo stomaco. Nell’epoca d’oro del cinema bis schiere di registi e produttori capirono che, per sopperire alla povertà di mezzi, si doveva puntare alle viscere dello spettatore. Fargli staccare il cervello e dargli esattamente quello che voleva. Spazio a sangue, frattaglie e carnazza al vento. E quando questo non bastava ecco che si presentava l’instant movie. In poche parole: si prendeva l’argomento caldo del periodo e ci si costruiva sopra una trama raffazzonata. La si rafforzava con qualche provocazione gratuita e il gioco era fatto.



Manco a dirlo una delle cinematografie più avvezze a queste meccaniche produttive era la bulimica Hong Kong, dove nel ventennio d’oro si producevano centinaia di film all’anno. Sui cartelloni delle sale svettavano, per ignoranza e capacità di speculazione, i famigerati CAT. III. Lavori privi di tatto e ipocrisia, dove si affastellavano bassa macelleria, richiami all’attualità e il solito umorismo pecoreccio tipico della commedia cantonese. Un concentrato di pura exploitation. A esempio di tutto questo si recuperi la versione Tai Seng del celebre The Untold Story, forse l’esempio più celebre di questo sub genere (e pugno allo stomaco con ancora pochi pari).



Anno 2010. Dobbiamo ancora riprenderci dalla sbornia di pellicole rovinate in digitale, dagli ammiccamenti agli anni ‘70/’80, dal mimetismo e dalle meta trovate che hanno smesso di far ridere nel 1997. Ci sorprendiamo a sbavare su cagatine senza peso quando Pang Ho Cheung se ne esce con Dream Home e realizza la miglior attualizzazione che si potesse fare dell’horror da videoteca dei bei tempi andati. La ricetta è semplice: prende un argomento d’attualità (la crisi dei mutui) e ci costruisce attorno una vicenda dall’alto tasso di cafonaggine splatter. Tra morti con un bong conficcato in testa (una cosa che pensavo possibile solo nei video dei Cannabis Corpse) e doppi sensi da caserma si capisce che non siamo proprio dalle parti della raffinata riflessione cinefila.



A questo si accompagna una messa in scena accattivante (in un digitale cristallino) e una sceneggiatura tutta basata su salti temporali. Il nucleo sarà anche ben radicato nella tradizione della serie B, ma il guscio invece si conferma moderno come pochi. Se il cinema di genere da saletta off non fosse morto oggi sarebbe proprio così. Per arrivarci occorreva un cineasta come Pang, acuto osservatore dei nostri tempi e colto cinefilo amante del basso. Il giovane regista non ci consegna comunque un capolavoro (quello rimane Exodus) ma una dimostrazione di forza intellettuale non indifferente.



A mettere in fila due zoomate spinte ci riescono tutti, meno facile è entrare nei meccanismi di certo cinema e svuotarli da tutti gli orpelli di forma per poterli rimodellare alle nostre nuove esigenze. Quando poi lo si fa portando avanti un discorso autoriale ben definito (Pang continua a esplorare il mondo femminile a modo suo) e girando in contemporanea una commedia romantica allora significa che qualcosa da dire lo si ha. Dura dimostrare il contrario.

venerdì 10 dicembre 2010

I belive the hype




Seth Rogen, Elijah Wood e Danny McBride (ormai lanciatissimo, guardatevi il trailer di Your Highness) nei panni dei Beastie Boys. Nel cast anche Jack Black, Will Ferrell e John C. Reilly. Che i Public Enemy si mettano il cuore in pace

mercoledì 8 dicembre 2010

La vita, il sesso, le droghe: Enter the Void di Gaspar Noé (2009)




Prendetevi un bel respiro profondo e rassegnatevi: sarà un giro in giostra lungo e faticoso. Ma ne varrà la pena. Non perché vi aspetta il miglior ottovolante del mondo, e neppure quello più terrificante. Semplicemente perché questo genere di montagne russe non lo avete mai visto (o lo vedete ininterrottamente dal giorno che siete sbucati dall’utero di vostra madre). Cosa è Enter the Void? Due ore e trentacinque minuti di visuale in soggettiva attraverso gli occhi di uno spacciatore di droghe sintetiche in una Tokyo tanto satura da sembrare finta. A renderlo ancora più folle il fatto che il nostro protagonista decida di farsi sparare dalla polizia poco dopo l’inizio del film. Alla sinossi sostituite quindi “spacciatore di droghe” con “fantasma di spacciatore di droghe”.



Il terzo lungometraggio di Gaspar Noé rappresenta un tour de force visivo con ben pochi precedenti. La telecamera svolazza sopra i tetti della capitale nipponica, li scoperchia e ce li mostra come un’enorme distesa di case delle bambole. Poi si tuffa tra le fiamme di un fornello a gas, passa attraverso un trip da MDMA e sbuca dal foro di un proiettile. Non si fa mancare neppure una prospettiva dall’interno di una vagina (durante un amplesso). Movimenti morbidi e sinuosi (e infiniti) accompagnati da una colonna sonora distante e ovattata. Pura pornografia dell’immagine.



Se la gestione dei flashback è eccezionale (sia come regia che come scrittura) spesso l’indugiare su certe soluzioni avvicina pericolosamente lo spettro del tedio. Non gioca a favore di questo aspetto la durata fiume dell’opera e il fatto che si navighi nelle acque incerte della provocazione gratuita. Perché Enter the Void non ci prova neppure per un secondo a nascondere la sua natura compiaciuta e terribilmente auto indulgente. Aspetti che, se non fosse per l’enorme volume dei testicoli di Gaspar Noé, in un nulla farebbero sprofondare questo oggetto non identificato nel limbo delle visioni da festival. Diciamolo chiaro e netto: al di là del risultato ottenuto, per pensare, girare, far finanziare un simile mostro ci vogliono veramente le palle quadrate.



Al centro di Enter the Void c’è il ciclo inarrestabile di vita-morte-vita-… e, proprio come il suo soggetto, il film procedete dritto come un treno. Che a te piaccia o meno. Impossibile da riassumere in un semplice bello/brutto. Bisogna rassegnarsi, rimboccarsi le maniche e tuffarcisi a pesce. Se non te la senti ti risparmi una bella fatica, ma anche un bel po’ di roba che vale la pena raccontare.



I continui richiami a Taxi Driver e Arancia Meccanica ci ricordano di essere davanti a un film, quando invece quello che vediamo propende più per la videoarte. Dopotutto non c’è una grossa storia da raccontare, le meccaniche della narrazione tradizionale vengono scansate con estrema nonchalance. Chi cerca semplicemente un bel film è fuori strada. Se siete tra quelli che entrano in una sala cinematografica con il bilancino per misurare quanti buchi ci sono in sceneggiatura, quante incongruenze, quanto rispetto dei tre atti,... allora lasciate stare. Meglio per voi. Se invece cercate coraggio, sfrontatezza e incoscienza allora mettetevi comodi e aspettate che si abbassi la sbarra.




lunedì 6 dicembre 2010

Sfiancato





Enter the Void mi ha sconfitto. Dopo un'ora e mezza (su due ore e quaranta totali) cedo e mi riprometto di finirlo il prima possibile. O almeno prima che si raffreddi. Siamo dalle parti della cagata totale o del capolavoro senza mezzi termini. In qualsiasi caso Gaspar Noé l'ha fatta veramente grossa. Una cosa così non l'avete mai vista prima.

domenica 5 dicembre 2010

Seul come Manhattan: I Saw the Devil di Jo Woon Kim (Kr/2010)




Jo Woon Kim è il miglior mestierante del mondo. Uno che ha spiattellato tutto quello che c’era da dire in due film e ora può dedicarsi alla forma come solo un vero autore farebbe. Confusi? Andiamo per gradi. Kim viene dal teatro ma vuole fare cinema. Il ponte è The Quiet Family, farsa esagerata e nerissima. Il pregio maggiore del film è quello di fornire a Miike materiale per un remake straordinario (The Happiness of the Katakuris), mentre per il resto è mero esercizio. Pratica necessaria per passare al prossimo The Foul King, commedia amara a base di wrestling e perdenti (una sorta di The Wrestler ancora più pessimista, forse perché completamente rassegnato). Alla seconda prova dietro la macchina da presa JWK dimostra che ci troviamo di fronte a un grande artista, dotato di sguardo lucido e poetica potente. Chiarito questa cosa il Nostro decide di mollare ogni discorso interiore per dedicarsi all’esplorazione dei generi. A oggi la sua è un’opera estetizzante, capace di svuotare il cinema di ogni significato per lasciarne solo uno sfavillante (e riconoscibilissimo) involucro esterno. E proprio qui sta la sua forza. Per spiegarlo tiriamo in ballo l’artista statunitense Kaws.



Il soggetto in questione è diventato famoso ridisegnando i Simpson, SpongeBob e altri personaggi di fantasia in maniera identica agli originali (copiando proprio i fotogrammi), se non sostituendone il volto con il suo logo. Sono personaggi autentici in due sensi: Homer è veramente Homer (creazione di Matt Groening), ma è anche un qualcosa riconducibile esclusivamente al writer di NY. Proprio come i generi modificati da Kim: il suo Bittersweet Life è un noir melodrammatico come tanti ma che solo lui poteva fare, Two Sisters è un k-horror banalissimo ma inconfondibile, e così via. Sono OriginalFake, per usare un’espressione dello stesso Kaws. Che, guarda caso, chiama proprio così il suo negozio di Tokyo. Dove, tanto per rincarare la dose, vende la sua linea di abbigliamento e i suoi giocattoli definendoli estensioni del proprio percorso artistico. Sono Original perché disegnati da lui, Fake perché riprodotti in serie. Ron English diventa famoso sabotando cartelloni pubblicitari in maniera clandestina, Kaws assurge a celebrità perché in quel di Manhattan invece li abbellisce (sempre in maniera illegale). La gente comincia a rubare le affissioni, mentre i grandi fotografi lo lasciano accedere agli scatti originali. Kaws vuole essere la cultura visiva che ci circonda, non sovvertila. Proprio come la mente dietro a I Saw the Devil.



Jo Woon Kim può contare sul suo bagaglio tecnico impressionante per portare a nuova vita sceneggiature già viste mille volte. Un meccanismo perfetto se applicato al blockbuster (vedi il suo precedente The Good, the Bad, the Weird) perché cinema di superficie, ma che lascia qualche riserva se fatto aderire all’exploitation pù di pancia (come il rape’n’revenge). I Saw the Devil punta al basso ventre ma è troppo bello in senso classico per poterci riuscire. Si è concentrati a perdersi nella fotografia maniacale e nei movimenti di macchina impossibili (c’è un combattimento in macchina che vi farà cercare la mascella sotto il divano) per provare veramente orrore e raccapriccio. Anche lo scaltro Bong ci era arrivato, affidando a una messa in scena (solo apparentemente) sommessa e minimale il suo capolavoro Mother.



Peccato, perché la sceneggiatura era di quanto più volgare e dritto in faccia si potesse cercare. In poche parole: un serial killer uccide la fidanzata di un poliziotto, questo si mette a indagare sul colpevole. Lo trova prima che sul display del lettore dvd scatti la mezz’ora. Il film dura due ore e venti.
Se si conosce la tipica variazione sud coreana al genere cosa succede nei restanti 110 minuti è abbastanza intuibile. Di splatter e torture ce ne sono in abbondanza, ma sono filmate in maniera troppo elegante per fare veramente male. Tanto per capirci un film come The Chaser, bello senza essere nulla di trascendentale, colpiva in maniera molto più efficace (nonostante una scrittura meno immediata e furba).



Una delusione, quindi? No. No perché Jo Woon Kim gira veramente da paura, gli attori sono straordinari, tutto ha una classe insuperabile e ci sono un pugno di scene che riconciliano con il linguaggio cinema. Però l’amaro in bocca rimane comunque.



Brutta storia essere viziati…




sabato 4 dicembre 2010

We've Got A Damned Situation Here





Every Time I Die + Anthrax + Fall Out Boy = The Damned Things. Una nuova super band di cui tutti avevano bisogno. La voce balorda di Keith Buckley finalmente trova la giusta dimensione in un progetto dichiaratamente leggero e disimpegnato. Loro si dicono pronti a salvare l'industria discografica, per ora mi accontento di un gran bel pezzo e della conferma che Scott Ian è un idolo assoluto (oltre a essere una delle macchine da riff più sconsiderate di tutti i tempi).

venerdì 3 dicembre 2010

Ari il grande




La Rizzoli NY sale sempre più in alto nella mia personalissima classifica delle meglio case editrici. Tra gli ultimi volumi pubblicati non posso non segnalare la monografia dedicata alla fotografa nipponica Mika Ninagawa (350 patinatissime pagine racchiuse in box cartonato con scintillante stampa a caldo), il volume su Kaws (sovracopertina trasparente con stampa a contrasto, logo in rilievo, pagine dedicate ai lavori street stampate su carta grezza, sezione sulle esposizioni in galleria d'arte su carta lucida) e questo, che non possiedo esclusivamente per motivi economici. Eppure il meglio deve ancora venire.



Per l'anno prossimo è fissata l'uscita del nuovo volume di Ari Marcopoulos: 1200 pagine per altrettante fotografie. Per chi non lo sapesse Ari è l'uomo che ha portato lo stile da fanzina nel mainstream. Prima che Vice Magazine sputtanasse tutto. Foto crude, legate alla cultura di strada, spesso pubblicate proprio su riviste autoprodotte. Uno stile apparentemente povero che, forse proprio per questo, ha finito per espandersi come una chiazza d'olio (o un tumore). Grazie alla Rizzoli sarà possibile ristabilire il giusto ordine delle cose, dividendo tra prime movers (Ari) e cialtroni populisti (Terry, ti fischiano le orecchie?).

giovedì 2 dicembre 2010

[kick-ass movie] Men from the gutter di Nam Nai Choi (HK/1983)





Nam Nai Choi lo si conosce per capisaldi come The Story of Ricky, The Cat, Seventh Curse, Erotic Ghost Story e Peacock King. Autentici simboli di un cinema che si costruisce per accumulo e per compressione, dove ai pochi mezzi si sopperisce con una quantità di idee esagerata e ingestibile. Opere di genere fantastico, la cui natura stessa spinge alla ricerca dell’effetto speciale e della trovata a sorpresa a ogni costo (anche per distrarre dai limiti della produzione). Mostri in lattice, combattimenti impossibili, corpi dilaniati e ogni sorta di fantasia visiva possa essere inserita in un copione cinematografico. Un universo barocco e, forse, un poco indigeribile per chiunque non sia più che avvezzo ai sapori speziati della serie B. Ma, tra una risata postmoderna e l’altra, in pochi sanno che Nam Nai Choi è realmente un grande regista. Non narratore, regista. Capace di un montaggio furioso e di movimenti di macchina impetuosi, pronto a regalarci sempre e comunque spettacolarità e sense of wonder (nonostante le condizioni in cui si sia sempre trovato a lavorare). Basta una porzione qualsiasi del capolavoro Seventh Curse per strappare più oooh meravigliati di tutti i milioni di dollari dietro Narnie o Pirati caraibici vari. Che dopo questa meraviglia sia o meno di nostro gradimento è tutto un altro discorso. A riprova di queste sue capacità espressive (alla faccia di tutti quelli che vedono la serie B come sinonimo di incapacità) bisogna rispolverare questo Men from the gutter, action poliziesco del 1983 prodotto dagli studi Shaw Brothers. Un titolo misconosciuto, privo di ogni forma di bizzarria gratuita, dove il Nostro ha la possibilità di esprimersi senza l’obbligo di eccedere nel suo solito helzapoppin’ di fantasie deviate.



Il risultato è travolgente.



Men from the gutter potrebbe essere definito con due sole parole: fast & brutal. Protagonisti su protagonisti buttati lì solo per farli morire nel modo più drammatico possibile, una sceneggiatura composta unicamente da buchi, una marea di scene d’azione dove succede di tutto, protagonisti tagliati con l’accetta, fucilate in pieno petto come se piovesse e la solita miriade di trovate disseminate da Nam Nai per tutta la durata del film. Non ha importanza che si tratti di uno stacco di montaggio, di un movimento di macchina o di una coreografia. Tutto è fatto per arrivare allo spettatore nel modo più diretto possibile. Non c’è retorica, profondità o grazia. E’ azione per il gusto dell’azione. Non siamo nei territori dell’esagerazione di Wonder Seven, Tiger on the Beat o The Black Panther Warriors (tre esempi di action cantonese estremo fino al parossismo): Men from the gutter è prima di tutto un’opera piccola e sporca, priva di quella gioia ludica evidente nelle pellicole di (rispettivamente) Siu Tung Ching, Lau Kar Leung e Clarence Fok.



E tutto questo senza urlare. La classe di Nam è tale da non sfociare mai nella pagliacciata, scegliendo piuttosto la via del taglio selvaggio. La colluttazione media non dura mai più di qualche secondo, terminando sempre nella maniera meno gloriosa possibile. Ginocchiate, colonne vertebrali che si spezzano, fucilate. Una tendenza alla compressione che permette di leggere il cartello The End poco dopo lo scoccare degli 82 minuti. Men from the gutter è semplicemente un film cazzuto, dove un pugno lo si tira per far male. Non per far spettacolo o per puntare a chissà quale figura retorica. Cinque nocche in volto non hanno bisogno di sovrastrutture per essere capite e metabolizzate dal pubblico. Il bagaglio tecnico da Maestro Minore del Nostro fa il resto, facendo viaggiare il tutto alla velocità di un treno merci fuori controllo. A un certo punto c’è un dolly che segue l’irruzione di una squadra speciale e termina sulla posa plastica di uno dei protagonisti. In 3-4 secondi. Altra gente ci avrebbe costruito una sequenza tronfia e carica di quell’adrenalina sintetica che ha soffocato il cinema moderno. Nam invece stava già pensando a come filmare il prossimo calcio volante con scarica di fucile a pompa annessa.