giovedì 29 luglio 2010

Genghis Tron "Endless Teeth"





Se prima mi sembravano una buona band dalle grandi potenzialità (vedi il magnifico Dead Mountain Mouth e l'EP Cloak of Love) adesso non posso che amarli alla follia. Non è uno dei video più belli di sempre?

mercoledì 28 luglio 2010

I cinecomics che vorrei




Manca pochissimo alle ferie e sono fuso, quindi beccatevi questo post estivo a impatto zero: una serie di ipotetici film tratti da fumetti con i rispettivi registi che meglio vedrei al timone.



The Punisher di Nicolas Winding Refn: perché nessuno sa essere nero e privo di speranza come la mente dietro a Pusher. Per un buon film su Frank Castle non occorrono sparatorie, ma un abisso di realtà dove rimanere invischiati.



Seaguy di Guy Maddin: perchè riesce a essere il nuovo Georges Méliés con un budget di 10 euro. Qui sotto una delle dimostrazioni più evidenti (ma è bello più o meno tutto quello che ha fatto):







Madman di Spike Jonze: perché per il costume del protagonista obbligherebbe la produzione a utilizzare una vera calzamaglia. E riuscirebbe comunque a farla apparire figa.



Deadpool di Taylor/Neveldine: perché sono gli unici ad azzardare certe esagerazioni senza farle sembrare bambinate da multisala.



Scalped di John Hillcoat: perchè il west non è mai stato così lercio e crudele. E se ne sono accorti anche quei geni della Rockstar Games.



We3 di Neill Bomkamp: perché ha una poetica costruita attorno a effetti speciali (soprattutto relativi a mecha e tecnologie assortite), ultraviolenza e linguaggi della modernità.



Immortal Iron Fist di Seung-Wan Ryoo: perchè City of Violence sarà anche una cazzata, ma una cazzata piena di stile.



Ghost Rider di Park Chan Wook: perché sarebbe un film a base di peccato, redenzione e moralità. Senza contare un’iconografia che richiede la mano di un maestro per non cadere nel cattivo gusto.



Capitan America di Neil Marshall: perché quest’uomo predica da anni di avere nel cassetto una sceneggiatura che unisce Dove Osano le Aquile a Die Hard. E io per finanziare una cosa simile sarei disposto a cacciarci in mezzo anche Capitan America.



100 Bullets di Pen-Ek Ratanaruang: perché è uno dei pochi capaci di raccontare storie di crimine senza cadere in nessun luogo comune, sottraendo fino al parossismo invece di sbrodolare Tarantinismi e John Woo-ismi da quattro soldi.



Hitman di Johnnie To: perché quando si parla di amicizia, lacrime e piombo rovente nessuno è meglio di To.



X Statix di Ryan Murphy: perché riesce a essere ambiguo, cinico e amaramente divertente. E ama alla follia la cultura pop.



Teenage Mutant Ninja Turtles di Chris Cunningham: perchè dai tempi di Come to Daddy questo genio dona la vita a creature impossibili. E perchè viene dal fumetto underground.



Y the Last Man di Pang Ho Cheung: perché gran parte della sua filmografia si basa sul confronto tra sessi, si muove per metafore senza sconfinare nell’autorialità snob e manipola la commedia nera come pochi altri.

Wolverine di Filipp Yankovsky: perchè l'ha già girato e nessuno se ne è accorto. Ed è un peccato, perchè è veramente un gran film.


lunedì 26 luglio 2010

Agosto hardcore!





Mi spiace ma niente pornografia, solo batterie tu-pa-tu-pa-tu-pa, breakdown a pioggia e tanta attitudine. Se amate il genere preparatevi, perchè questo agosto ci riserva due uscite di primissimo piano in materia.






Dalla Deathwish arrivano i testosteronici Bitter End. Puro NY style: cadenzato, tamarrissimo e con tutti i clichè del caso. Tirate fuori bandane, canotte e tatuaggi a sfondo religioso. Qui la recensione completa






Si prosegue con i canadesi Comeback Kid. Qui più che dalle parti delle gang vocals siamo in zona sing-along anthem (tanto per usare qualche termine inglese in più). Grandi melodie e una carica che non si sentiva dal loro fenomenale Wake the Dead. Un disco fenomenale. Qui la recensione completa.



Bonus: il video di Wake the Dead. Riascoltiamocela per la milionesima volta.




venerdì 23 luglio 2010

Sarà pubblicità ma è meglio del cinema: The Doctrine pt.2 di Erik Brunetti

FUCT "The Doctrine" Pt. 1 from FUCT on Vimeo.





FUCT "The Doctrine" Pt. 2 from FUCT on Vimeo.





E' uscita da pochissimo la seconda parte di The Doctrine, cortometraggio pubblicitario scritto e diretto da Erik Brunetti (mente dietro al marchio Fuct). Sarà anche pubblicità, ma mi pare uno dei migliori noir usciti ultimamente dagli Stati Uniti. Atmosfera tesa, nessun tipo di umorismo, fotografia da urlo e un bel piano sequenza di quelli che ti gonfiano il cuore. E, secondo me, c'è pure un richiamo stilistico all'immenso Jesper Just. Nulla di più facile, visto il passato di artista situazionista di Erik. In qualunque caso il risultato dell'operazione è una bomba: il carattere provocatorio del brand è espresso appieno, così come la vicinanza a un certo tipo di cultura popolare (confrontate con i recenti video promozionali di Prada, Yamamoto,...). A livello qualitativo siamo su livelli stellari e il potenziale del web è sfruttato come si deve. Una lezione di stile in piena regola.

mercoledì 21 luglio 2010

Godo! The Goon Teaser





Non sarà tecnicamente eccelso come i prodotti Pixar, non avrà l'umorismo surreale e raffinato di Cattivissimo Me, in qualche maniera non sarà neppure paragonabile a Rango. Ma qui si parla di The Goon, cazzarola! Come posso chiedere di più? Zombie, scagnozzi, italoamericano zoomorfi, cattivo gusto, splatter, polli di gomma e un botto di altra roba da godersi sul grande schermo. Produce David Fincher che, tra le altre cose, ultimamente mi ha già comprato con i trailer di The Social Network.

lunedì 19 luglio 2010

A Serbian Film di Srdjan Spasojevic (Serbia/2010)




Maledetto il giorno in cui Miike fu sdoganato in occidente. Una data da odiare almeno quanto quella in cui, dalla Francia, ci si mise a decodificare la famigerata scheggia oculare di Fulciana memoria. Eventi che hanno arricchito il panorama culturale di ognuno di noi, ma che dal loro primo minuto di vita hanno permesso a troppa gente di specularci sopra. Prima dell’arrivo del nipponico ex motociclista il non plus ultra della violenza erano certe produzioni amatoriali crucche, le code exploitation del genere italiano (Mattei e Fragasso su tutti, lascerei fuori i vari Fulci e Massacesi perché parte di un discorso molto più complesso), i Guinea Pig e qualche Tromata a buon mercato. Sangue e budello facevano ridere, erano gratuiti e si prestavano solo al connubio amici+birra+pomeriggio estivo. Certe provocazioni alla Cronenberg, Tsukamoto, Verhoeven o Ferrara rimanevano esclusiva di oscuri cineforum, mentre il grottesco di Teruo Ishii, Takashi Ishii e Kôji Wakamatsu (il suo Violated Angels rimane l’inizio di tutto) erano impossibili da raggiungere se non attraverso il tape trading più hardcore (come il Cat.III di HK). Poi arriva la TartanVideo e Miike diventa di dominio pubblico. Uno che gira film di genere ultraviolenti, dove ogni morte ha un significato ben preciso (e qui si torna allo sguardo trafitto di Zombie 2). Quando, su forum e blog, si viene a conoscenza che lo stesso ha rinnegato il suo cammeo in Hostel perché in fase di sceneggiatura le scene cruente venivano indicate con un generico “tortura” piuttosto che con la dovizia di particolari richiesta dal caso, scatta il finimondo. Allora il gore può essere funzionale al messaggio, ci si dice. Fa nulla se il suo film più pregno di concetti non se lo caga nessuno (Izo, che è anche la sua creatura più estrema), così come gli excursus autoriali (dai due Young Thugs a Big Bang Love, Juvenile A). Per tutti Takashi rimarrà quello degli spilloni di Audition, dell’episodio censurato di Masters of Horror (come se il Nostro fosse un semplice regista horror) e delle guance tagliate di Kakihara. E’ da questi malintesi che arrivano tutto il nuovo torture porn e certi episodi come questo A Serbian Film.



I punti di partenza non potrebbero essere migliori. Il senso di morte che si prova a nascere e crescere in una delle nazioni più disastrate degli ultimi 50 anni (basti ricordare i fatti di Srebrenica), il bisogno di una vittima da parte di chi è dall’altra parte della linea, il corpo flagellato come territorio ultimo del reale. Riflessioni attuali come non mai, bruciate dalla voglia di andare dove nessun altro è mai giunto. Per la precisione sono due le scene che fanno crollare il castello. Provare a caricare di significati una scena di stupro è come puntare tutto al tavolo verde. Magari fai centro e affondi il banco, ma molto più probabilmente te ne tornerai a casa con la coda fra le gambe. La didascalia, il banale, il paternalismo sono lì che ti alitano sul collo. Pronti a rovinarti la festa. Proprio come succede a Srdjan Spasojevic, troppo impegnato ad alzare l’asticella del filmabile per rendersi conto di aver sconfinato nel cialtronesco. Aldilà di queste due allegorie da sagra dello spiegone non rimangono che un pugno di provocazioni tra lo splatter e l’incesto di gruppo. Peccato, perché ci sono veramente tantissime idee valide in questo A Serbian Film. A partire dal continuo richiamo alla sua nazionalità, intuizione capace di unire (nelle intenzioni) pornografia e politica internazionale.



Prendendo l’opera per quello che è, la cosa più scioccante rimane la facilità con cui i picchi di cattiveria (e sarà dura avere idee più malate di quelle che troverete qui dentro) ci scivolano addosso come se nulla fosse. Quando la voglia di mandare avanti veloce è data dalla noia più che dal disgusto ci si rende conto che forse l’estremo non è più così accattivante. Guarda caso il profeta di tutto questo, il Miike di cui si parlava sopra, è passato a fare tutt’altro. E il film più disturbante di questo anno appena passato rimane quel The Horseman che di grafico non ha proprio nulla.

mercoledì 14 luglio 2010

Scott Pilgrim e l'arte di piacere a tutti




Bryan Lee O'Malley è un gran, gran furbone. Leggi i primi volumi del suo Scott Pilgrim e non puoi pensare altrimenti. Un fumetto dal peso specifico nullo, di cui non rimarrà niente, eppure perfetto per vendere tonnellate di copie (come è effettivamente successo). Il perché è molto più semplice di quello che si possa pensare: tutti ci possono trovare qualcosa di loro gusto.



I lettori più giovani ci vedranno un manga occidentalizzato, struttura tipicamente shonen con un approccio al personaggio da teen serial statunitense. Come se Naruto incontrasse O.C..



I lettori di fascia media si perdono nel disegno a metà tra finto underground urban vinyl e kawaii nipponico, godono per i dialoghi da commedia giovanilistica (infatti chi interpreta Scott nell'imminente lungometraggio live action?) e si compiacciono per tutta l’ironia postmoderna dei combattimenti in stile picchiaduro. I riferimenti al retrogaming sono una chicca che manderà in visibilio tutta quella categoria di consumatori trendy innamorati di occhialoni nerd, pixel e riferimenti agli ’80 (vedi cover in apertura al post).



I lettori più grandicelli invece non potranno che respirare gli anni della loro adolescenza. Perché l’ambientazione di questa serie sarà anche Toronto, ma tra band alt-rock, noia esistenziale e nessuna voglia di pensare al futuro pare di trovarsi in un incrocio tra il Singles di Cameron Crowe e la serie Daria di Mtv. La tshirt Zero di Scott sa più di Smashing Pumpkins che della marca di skate a cui (penso) sia riferita. A questo punto le monetine riscosse dopo aver sconfitto l’ex di turno e i power up sospesi a mezz’aria sono autentiche boccate di nostalgia.



Tutto questo inserito in un contesto più o meno realistico, dove con la fidanzata di turno non ci si tiene solo per mano. Senza mostrare nulla (altrimenti il range di lettori si restringerebbe drasticamente) tra le pagine di O’Malley il sesso è sempre presente, sia etero che gay, dando l’impressione di avere a che fare con personaggi reali (nella loro assurdità), incapaci di vivere le loro pulsioni sentimentali in maniera platonica o troppo esagerata (evitando così il rischio di infantilismo coatto). Le linee di dialogo sono fresche, furbescamente piene di riferimenti allo slang attuale ma prive di turpiloquio (anche qui vale la regola del sesso). Come direbbe un sedicenne le didascalie che accompagnano ogni personaggio sono super lollose (sic).



Il vero pregio di Bryan Lee O'Malley non è quello di avere uno storytelling straordinario, di saper sceneggiare orditure complesse o di avere la padronanza assoluta del disegno. Il canadese semplicemente parla la lingua dei nostri giorni, nella maniera più leggera e spendibile possibile. Così facendo ha creato forse il miglior fumetto possibile per chi i fumetti non li legge proprio, perché ne conferma tutti i luoghi comuni considerati divertenti e spazza sotto lo zerbino quelli che fanno da sbarramento al lettore occasionale. Ogni riferimento settoriale è studiato in modo da apparire stilosamente nerd, i combattimenti sono solo un contorno colorito alle avventure sentimentali del protagonista, le parentesi surreali sono perfette nel rendere il tutto pazzerello quanto basta. Siamo onesti, nei panni del ragazzo qualsiasi che non ha mai letto una pagina di Uomo Ragno (o Tex, Bleach, o quello che volete voi) non potrei chiedere di meglio. Che tutto questo sia un bene o meno sta alla sensibilità di ognuno.

domenica 11 luglio 2010

Andate tutti a fanculo: Black Tusk - Taste the Sin (Relapse/2010)




Quest’anno Natale arriva due volte. La prima in corrispondenza dell’uscita di Snake for the Divine degli High on Fire. Album metal puro e duro, di quelli che dentro ci trovi gli ultimi trent’anni di musica. Masticati, sminuzzati e metabolizzati da tre cafoni con la passione sfrenata per volumi assurdi e suoni analogici. Poi arriva anche il nuovo disco dei Black Tusk e ci si ritrova ancora una volta a festeggiare per la troppa grazia. Si parte benissimo quando scopri che la band stessa si autodefinisce swamp metal. Chi deve capire capisce al volo, sentendosi già sotto il naso il tanfo dolciastro e nauseabondo dell’umida atmosfera palustre. Un pastone di valvole, thrash metal, stoner e derive tossiche. Come i Baroness, ma senza il loro straordinario gusto. Come i già citati High on Fire, ma allargando lo spettro di influenze. Come gli Rwake, ma con meno droga e più alcool distillato clandestinamente. Zero fumo, tutto arrosto. Fatto rosolare su di un bbq nel retro di qualche roulotte, come la più scontata tradizione white trash pare richiedere. Le derive sludge sono al minimo storico, preferendo puntare su impatto e abrasione. Il risultato ricorda il grandioso The Ultimate Destroyer dei Lair of the Minotaur, ultimo lavoro del combo di Chicago prima del collasso creativo. Lavori capaci di restituirci a una concezione di musica estrema realmente selvaggia e incontenibile. Chiusa in un guscio di ignoranza e menefreghismo che fa di tutto per allontanare ascoltatori occasionali. I Black Tusk non sono rockstar, non necessitano dell’attenzione di nessuno. Un dito medio in faccia a eccessi patinati, ricerche d’immagine e pagliacciate per adolescenti. Barbe da clochard, sudore e Mesa Boogie a 11. Ecco cosa sono i Black Tusk.



Scion A/V Video: Black Tusk - Red Eyes, Black Skies from Scion A/V on Vimeo.


venerdì 9 luglio 2010

Lo sguardo esploso: Gamer di Neveldine/Taylor (Us/2009)




Non ci avrei mai creduto (e il ritardo con cui ho recuperato questa pellicola ne è testimonianza), ma pare proprio che Neveldine e Taylor siano indirizzati verso la strada dei grandi. Se il disastro di Crank2 faceva pensare a un precoce esaurimento della poetica del duo, questo Gamer ne è invece sviluppo e approfondimento (della superficie). Un piccolo passo indietro: qualche anno fa la nota rivista Cineforum si riferiva all’inglese Paul W.S. Anderson con l’espressione “autorialità da Playstation”, formula perfetta per indicare un cinema ipercinetico e totalmente illusorio. Uscita dopo uscita il regista di Mortal Kombat si dimostrava però incapace di portare a fondo questo presupposto, chiudendosi in un guscio fatto di faciloneria e tendenza all’eccesso più innocuo. Con Speed Racer ci provarono anche i fratelli Wachowski, limitati da grandi aspettative e un budget a nove cifre. Tutti esperimenti interessanti, ma nessuno fino a ora era riuscito a rendere in maniera soddisfacente il senso di velocità e la privazione dell’attesa tipici dei nostri tempi. Anni in cui il fatturato dell’industria del videogioco supera la somma di quelli di cinema e musica, facendoci riflettere su come questo medium sia qualcosa di più di semplice intrattenimento. In questo senso, se si considera l’essere nel tempo come indicatore di profondità, Gamer è qualcosa di straordinario. Nel suo accumulo furioso di raccordi, inquadrature e stacchi abbiamo un’istantanea perfetta delle nostre vite.



A Neveldine/Taylor non interessa raccontare storie, ne creare mondi. Le parole d’ordine della loro concezione di cinema sono due: velocità e movimento. In Gamer (come in Crank) non ci può fermare a pensare, il dopo non esiste. Tutto è subito. Le parti narrative soccombono sotto l’ingombro delle sequenze action, guadagnandosi l’attenzione solo in virtù di cambi di fotografia o di figure retoriche al limite del subliminale (tipo i flashback). Le provocazioni disseminate sono talmente grevi e sopra le righe da non richiedere decodifica. Proprio come nel post moderno il linguaggio diventa fulcro su cui ruota ogni aspetto creativo, sebbene con risultati agli antipodi. Non più pornografia della finzione ma immersione totale nell’iperreale. Si segue l’esempio di District9. Lo sguardo non è più sufficiente, così si frammenta. Documentario, videogioco, camera a mano ed effetti speciali di ultima generazione. Il mondo descritto in queste due opere non è così diverso dal nostro, è come ci viene restituito a trasmetterci il senso di avveniristico.



Scompare la pellicola, ci si vota all’alta definizione del digitale. In senso tradizionale il film non esiste. Non ha peso, sono solo dati. Come l’abitante medio del nuovo millennio. Privo di radici e di programmi a lungo termine, incapace di bloccarsi con i piedi per terra. Essere fluido in costante evoluzione, impossibile da inquadrare e definire. E allora ci si vota alla superficie frastornante, abbandonandosi alle magnifiche coreografie tessute dai due registi. Motocross in fiamme, teste che esplodono, decine di persone impegnate a spararsi addosso, veicoli in moto perpetuo. Il cinema è un videoclip espanso dove non esiste più nessuna costruzione del climax e la stessa intuizione non può essere utilizzata due volte di seguito (ecco dove andava a morire Crank 2). La fruizione multitasking di ogni aspetto della nostra giornata ci ha reso più rapidi e reattivi, consentendoci di capire cosa succede in sequenze sminuzzate in micro inquadrature di pochi decimi. Pensate a uno spettatore di 50 anni fa messo di fronte a Gamer. Quanto di quello che passa sullo schermo riuscirebbe a cogliere?

martedì 6 luglio 2010

Glory to the real thing: Machete Maidens Unleashed





Adoro le vecchie VHS. L'audio che si trascina, le righe intermittenti ai bordi dello schermo, l'immagine che salta. Accanto al televisore ho ancora Alien degli Abissi di Margheriti e Star Crash di Luigi Cozzi. Orgogliosamente ex nolo. Adoro tutti quei produttori cialtroni che aspettavano il nuovo fenomeno cinematografico dagli USA solo per poterlo localizzare in tempo zero. Adoro l'autentica follia di certo cinema di serie Z. Carnazza al vento, fucili a pompa, lesbiche, mostri di gomma e colonne sonore rubate. Adoro poter dire di aver comprato il dvd statunitense di Zombie 3 solo perchè dentro c'è l'intro ultragore girata negli anni '80 per il mercato jappo. Adoro poter dire di aver speso una fetta imbarazzante del mio viaggio a HK nello scartavellare in loschi negozietti di vcd alla ricerca del più terribile Cat. III. Mio malgrado adoro essere ancora incazzato per essermi perso il superbootleg di Jungle Killer. A un film formalmente perfetto preferisco (quasi) sempre una cavalcata selvaggia per le pericolanti lande del guizzo di genio.



Alla luce di tutto questo posso dire con orgoglio che il mio è vero amore. Ci potrei scommettere la mia collezione di dvd Fortune Star (e se capisci a cosa mi riferisco, allora anche il tuo è vero amore).



Per quelli della mia risma le parole Filippine e Indonesia sono richiami irresistibili. Sinonimo di visioni negate, ricerche impossibili e film vissuti solo nella nostra testa. Con voi è inutile che spreco parole, ci siamo già capiti. Tutti gli altri non potranno mai neppure realizzare lontanamente cosa significhi per noi il trailer qui sopra. E' puro divertimento, non risata. Curiosità, non morbosità. Empatia, non paternalismo.
E se aspettate un documentario (documentario, non omaggio girato con un digitale da terzo mondo o le spuntinature in HD) sull'exploitation filippina solo per poterlo guardare come si guardano le scimmie in gabbia, allora avete sbagliato posto.

lunedì 5 luglio 2010

[trailer] Tropa de Elite 2 di José Padilha (Br/2010)





Mi è arrivato tra capo e collo. Sapevo che il seguito del capolavoro Tropa de Elite era in lavorazione, ma non avrei mai sperato che i tempi sarebbero stati così brevi. Il più Verhoeveniano tra i film mai girati da Verhoeven, manca solo il sesso queer (ma l'amicizia supervirile c'è). Per il resto TdE è da recuperare a ogni costo per la sua totale mancanza di retorica, pietà e supponenza. Josè Padilha non fa neppure finta di avere la verità in tasca. Sarebbe troppo facile. Meglio sbatterci in faccia il problema.

Frutti d'autunno...

Piccolo memorandum per le uscite cartacee del prossimo autunno.



21 settembre 2010



Partenza bomba con il monografico di Kaws fuori per la Rizzoli (Us). Forte di una serie di uscite incredibili (Takashi Murakami, Ryan McGinness, Supreme) la casa editrice statunitense promette di deliziarci ancora una volta con questo bel tomo dedicato allo street artist di NY. Un pezzo di contemporaneità, per capire come come le barriere tra i vari linguaggi stiano ormai scomparendo. Dai muri allo streetwear nipponico (vedi Original Fake), passando per gallerie alternative, musei di caratura internazionale e giocattoli in vinile.



5 ottobre 2010






Eccessivo, kitsch, inconfondibilmente giapponese. Mika Ninagawa è senza dubbio uno dei più grandi fotografi di sempre. Basta uno sguardo a uno qualsiasi dei suoi scatti per capirlo. La solita Rizzoli provvede alla sua prima monografia (per il mercato occidentale, sperando che poi si passi a Miwa Yanagi).



2 novembre





Sasha Grey – neu sex




Doveva uscire per la powerHouse Books, poi la palla è andata alla Vice Books. Considerando il rischio speculazione del soggetto in questione (quanto è di moda mettere Sasha in copertina?) un paio di ragionamenti sono leciti. La powerHouse Books è una delle case editrici a livello qualitativo più alto in assoluto. Diffondono una cover provvisoria (più bella di quella definitiva), mettono il libro in preorder, poi decidono che questa mano è il caso di passarla. Vice è uno dei magazine più brutti e inutili della faccia della Terra, ma hanno fatto uscire True Norwegian Black Metal. Uno dei miei libri fotografici preferiti. Detto questo provo a pensare al nudo fotografico più in voga: abbiamo il talentuoso Ryan McGinley, il super esposto Terry Richardson, qualcosa del Turner Prize Wolfgang Tillmans e le ragazzacce dal barrio di Estevan Oriol (che non sono nude ma provocano come se lo fossero). Verso chi propenderà Sasha? Avrà le capacità richieste o darà alle stampe la più classica delle scoreggine artsy?