lunedì 30 maggio 2011

Il contenuto/popolo è sovrano (regina in questo caso)

Content is Queen from Sergio Albiac on Vimeo.



Democratizzazione 2.0. Ritratto generativo di un’icona della vecchia autorità realizzato con porzioni di video caricati in rete da utenti qualsiasi. Di Sergio Albiac.

venerdì 27 maggio 2011

Perchè Barcazza e Invincible non sono poi così diversi (e io preferisco il secondo)



Barcazza è un fumetto praticamente privo di trama. In maniera gelida (e un po’ sgradevole) offre al lettore squarci di vita quotidiana, concentrandosi su di un gruppo di villeggianti impegnati a oziare. Tutta l’attrattiva dell’opera sta nella profondità dei personaggi e nei loro rapporti interpersonali. In altre parole Barcazza funziona solo se i suoi attori prendono vita. Se, prima dell’ultima pagina, si finisce per conoscerli un po’ di più. Francesco Cattani infila tra i suoi spazi bianchi una continua tensione erotica, sudaticcia e pruriginosa come ci ricordiamo tutti certe vacanze al mare. Le dinamiche che si vengono a creare lasciano dietro di loro una sensazione di leggero disagio, come se da un momento all’altro i meccanismi di potere sotterrati dalla spessa coltre della routine fossero destinati a essere scoperchiati.


Insomma, un sacco di carne al fuoco. Peccato che non si vada a parare da nessuna parte. I personaggi rimangono sconosciuti, non si ha progressione e alla fine del volume ci si sente come alla prima pagina.


Sono i rischi del racconto minimale.


Dopo tutto anche un maestro come Michael Haneke ha ceduto alla tentazione degli innesti mistery nell’incedere statico del capolavoro Il Nastro Bianco, forse la migliore rappresentazione di sempre sulla nascita del male. Lo scorrere sempre uguale delle giornate in un villaggio tedesco del 1913 viene scosso da alcuni strani fatti (incendi, sevizie,…). Non ci saranno indagini, climax, colpi di scena o conclusioni. Semplicemente lo spettatore sarà sempre più immerso in un’atmosfera malsana e ributtante. La vicenda risulta ferma, è lo spettatore a muoversi tra le righe. Quando le luci in sala si riaccendono nella comunità descritta non è cambiato nulla, abbiamo vissuto con loro solo per 144 minuti. Però il cervello dello spettatore ha subito una serie sufficiente di scossoni (i fatti misteriosi) per mantenersi comunque in movimento. E continuare a farlo anche nei giorni successivi alla visione (effetto Haneke garantito).


La conclusione di questo ragionamento è piuttosto semplice: se in una storia succede qualcosa, anche minima o sullo sfondo, avremo una sovrastruttura su cui basare le nostre valutazioni circa l’emotività dei personaggi. Altrimenti tanto vale andare al bar e sorbirsi qualche ora di chiacchiere stanche e ottuse.


Tracciamo adesso una linea agli antipodi del fumetto alla Barcazza. Ci troverete il supereroismo statunitense. Anche qui regna la stasi, ma ci si arriva dalla direzione opposta. Sceneggiature iper dinamiche che non portano a nulla, psicologie ferme e il bisogno di dare ogni mese qualcosa in pasto alla macchina industriale. Nel suo passare da evento epocale in evento epocale il fumetto di supereroi è costretto in maglie strettissime e inamovibili. Un po’ come correre sul posto.


All’interno di questo scenario (non esattamente esaltante) troviamo uno scrittore come Kirkman, interessato più ai personaggi (e al loro mondo interiore) che ai plot. Robert è capace di scrivere una serie sugli zombie includendo interi cicli narrativi senza che si veda un non-morto. O una di supereroi adolescenti dove terribili minacce per la Terra hanno la stessa importanza narrativa della scelta del college. Si parla naturalmente di Walking Dead e Invincible.


In uno dei primi cicli narrativi della seconda serie citata il protagonista si trova a fronteggiare un alieno potentissimo che, di tanto in tanto (a intervalli regolari), attacca il nostro pianeta. A differenza delle solite scazzottate ipertrofiche del 99% delle serie statunitensi i due antagonisti si mettono a parlare. Si scopre che il ciclope è un pacifico professionista. Per lavoro attacca i pianeti che lo ingaggiano, così da testarne le difese. Causa un errore di trascrizione confonde la Terra con un altro mondo. La sua preoccupazione a questo punto è chiedere scusa a Invincible e non perdere l’appalto. Sembra una stupidata, un giochino sterile e puerile (anche se la serie è tutto tranne che infantile, alla luce sopratutto di picchi di ultraviolenza non indifferenti), ma in realtà siamo di fronte alla controparte fumettistica dei cambi di prospettiva dei vari Oldemburg o Christo. Per capire la complessità di una cosa semplice devo stravolgerne il contesto. Poi arriva il colpo di genio di Kirkman: dare un nome umano all’invasore. In un immaginario razzista e qualunquista come quello statunitense, dove l’invasore fa sempre parte di una moltitudine senza volto e senza identità (gli insettoni di Starship Troopers sono la metafora perfetta per anni di Vietcong, Arabi, Russi,..) non è una cosa da poco. Il mostro non si chiama Doomsday o Beta Ray Bill, ma semplicemente Allen. Se non fosse per tutine di lattice, mantelli e pelli squamate (e tutte le sovrastrutture culturali che si portano dietro, da quelle classiche a quelle revisionistiche) avremmo perso un passaggio di un’umanità palpabile e concreta.


Due fumetti diversissimi tra loro chiamati a confrontarsi con la nostra vita quotidiana, dunque. Uno ce la restituisce banale, nonostante il contesto dell’opera alta. Il secondo, anche se parte da pagine prive di profondità, straordinaria in ogni suo piccolo gesto. Tanto per dimostrare, una volta in più, che spesso il pacchetto è decisamente fuorviante.

martedì 24 maggio 2011

Christian goes to Japan



E mentre le due tshirt studiate dalla Passenger Press per 55DSL non sono ancora arrivate nei negozi (dovrete aspettare fino a settembre/ottobre, dopo di che le potrete trovare da New York a Shanghai) il buon Christian si prende lo sfizio di realizzare una grafica in esclusiva per la fichissima catena nipponica di street wear Beams. La trovate solo in Giappone o a questo sito qui.

lunedì 23 maggio 2011

Il peso della mediocrità: Level Up di Gene Luen Yang e Thien Pham (Multiplayer.it Edizioni)



Alla fine dei conti Level Up parla di mediocrità. E lo fa nel modo più difficile possibile: raccontandola senza paternalismo. La questione è semplice: seguire i propri sogni o maturare? Vivere per le aspettative degli altri o per la propria felicità? Sono migliaia le storie scritte su questo argomento, quasi sempre indirizzate verso l’ipotesi dell’autorealizzazione a ogni costo. Gene Luen Yang decide invece di ricordarci cosa significa nascere sul pianeta Terra, nonostante si parli di una storia fatta di angioletti venuti da bigliettini d’auguri e mondi fatti di pixel. Così il suo protagonista la smette con i videogiochi e si iscrive a medicina per fare contento il padre defunto. Poi si rende conto di non aver seguito la sua vera vocazione e manda tutto all’aria per campare di tornei e beta testing. Anche in questo caso la felicità non arriva, allontanata dallo spettro della famiglia, del padre deluso dalla vita e dall’incombere del proprio futuro. E allora cosa fare?


Nonostante sia disegnato con tratto infantile e naif Level Up si rivela, leggendo tra le righe, estremamente duro e disilluso. E forse lo si apprezza per questa sua schiettezza terra terra, di quella utile a ricordarsi che di tanto in tanto è il caso di chiedersi cosa si vuole veramente. Al di la di quello di cui ti vogliono convincere gli altri. L’accettazione di una vita normale pare essere uno degli argomenti proibiti in questi anni all’insegna della super esposizione mediatica, a costo di una spasmodica ricerca dell’eccesso e della particolarità anche repellente. Così quando un protagonista viene costretto a relegare le sue passioni al tempo libero (cosa che, volenti o nolenti, succede al 99,9 % della popolazione mondiale) lo si vede come un perdente. Un sognatore che decide di farsi ingabbiare nelle grigie regole di una vita medio borghese fatta di banalità e lavoro sicuro. Non fa nulla se nel suo schifoso lavoro diventerà il migliore.


Gene Luen Yang ci fa capire che siamo tutti diversi. Impossibile tracciare una parabola in cui riconoscersi tutti. Al mondo, e in Level Up, ci possono essere mediocri videogiocatori che campano scrivendo recensioni (e sono felicissimi di quello che sono) e campioni di Mario impegnati a impiegare il loro talento nel manovrare sondini rettali alla ricerca di tumori (e sono soddisfatti della loro vita almeno quanto i primi). Siamo in tantissimi, con talenti variegati e storie agli antipodi. Che senso ha puntare tutti alla stessa cosa? Se un obbiettivo fa la felicità di molti non significa che lo farà anche per noi.


Level Up ha la sfrontatezza di ricordarci che a qualcuno piace avere una vita normale. Non importa se questo qualcuno sia un inetto o un fenomeno in un qualsiasi campo. Qui si parla di una spinta interiore che non può essere giudicata o valutata, perché troppo intima. Naturalmente tra le pagine del volumetto ci sono anche quelli che il sogno lo inseguono per anni e infine lo raggiungono. Tanto per ricordarci che farsi il culo alla fine paga sempre, basta sapere in che direzione muoversi.


Un fumetto a 8-bit che si pone come perfetta antitesi del cool a tutti i costi di Scott Pilgrim. Se la il protagonista era un perdente che non perdeva mai (curioso, no?) qui abbiamo un protagonista che vince il suo personale podio perdendo di proposito la gara a cui tutti volevano iscriverlo.

domenica 22 maggio 2011

Sentirsi meno stupidi



Leggendo Studio 2 (ultima volta che ne parlo, giuro) apprendo che Matthew Barney, pagatissimo e famosissimo artista concettuale da sempre ascoltatore indefesso di death-metal e grind-core, si è costruito nel suo atelier di New York un altarino celebrativo dedicato a Seth Putnam, mente e voce dei terribili Anal Cunt. Nonostante il buon Matthew non sia tra i miei artisti preferiti la prendo come una buona giustificazione per togliere la polvere a Morbid Florist senza sentirmi troppo in colpa.


Adesso ci manca solo che Bill Viola confessi una passione segreta per gli Iron Monkey e sono a cavallo.


Naturalmente scherzo, gli Iron Monkey sono la miglior band di sempre. Con o (sopratutto) senza benedizioni.

mercoledì 18 maggio 2011

Neoludica: art is a game | 2011-1966



2011: i videogiochi invadono i sacri spazi della Biennale di Venezia. Il merito di questo epocale punto di svolta è tutto dei due pionieristici curatori Matteo Bittanti e Domenico Quaranta. Sinceramente non vedo l'ora di poter visitare personalmente questa mostra (composta unicamente da artisti italiani), che si preannuncia imperdibile almeno quanto lo era stato la scorsa edizione il "vero" padiglione Italia. Aspettatevi un report dettagliatissimo, intanto fatevi un salto sul sito ufficiale.


Piccola nota polemica: ma perché tutti paiono voler valorizzare questa moderna forma di espressione meno gli stessi videogiocatori? Perché un genio come Goichi Suda deve passare di tonfo commerciale in tonfo commerciale mentre le solite, stoppose baggianate fatte con lo stampino vendono milioni di copie?

martedì 17 maggio 2011

Stiamo entrando nell'era dell'invisibilità?



Vuoi vedere che ha sempre avuto ragione il buon Snake Plissken? Alla fine del delirante 2013: Fuga da Los Angeles ci lasciava soli, al buio. Dandoci il benvenuto nel regno della razza umana. Oggi, ormai a metà 2011, mi guardo in giro e scopro che quell’obbiettivo non è troppo lontano.


Partiamo da quel formidabile indicatore di trend sociali che è il suono estremo. Sembrerà una forzatura o una provocazione a basso costo, eppure vi assicuro che dove arrivano le falangi più estremiste di questo genere (quelle che passano per tutte quelle case discografiche così minuscole e specializzate da guadagnarsi un minimo di esposizione solo nel momento in cui esplode il filone di cui si occupano) tutti gli altri ci arrivano almeno un paio di anni dopo. Prendiamo, a esempio, il fenomeno dei social-network.


Scegliersi un prodotto commerciale e pomparlo tramite i Facebook vari può richiedere impegno ma non certo un QI da fenomeni. Quando invece una schiera di 16enni riesce a far diventare il death-metal (seppur in chiave –core) un fenomeno di costume (ovunque tranne che in Italia, e per fenomeno di costume non intendo far esplodere una o due band. Intendo proprio cambiare il gusto comune) significa avere, nel bene e nel male, un bel po’ di talento. E se lo si fa quando certi meccanismi sono ancora sconosciuti ai colossi dell’industria l’impresa acquista un che di epico. Al di la dei gusti personali abbiamo quindi una vittoria su tutta la linea.


Anche da un punto di vista meno sociologicamente profondo i nostri metallari arrivano sempre prima di noi. Va di moda il look da skater inizio anni '90? Loro ci sono arrivati prima. Dobbiamo sembrare tutti dei boscaioli venuti dal Canada? Loro ci sono arrivati prima. Il disco deve andare in download gratuito e il formato fisico deve essere lussuosissimo? Loro ci sono arrivati prima. Non ho idea di come funzioni questa cosa, però ormai è qualche anno che ci bado e tutto mi torna sempre.


Cosa ci azzecca questo con Snake?


Ci azzecca perché nel giro di sei mesi siamo passati dalle band post-ironiche meta testuali (che per almeno 2 anni hanno rappresentato la parte più vitale e orgogliosamente esposta del metal, andando a raccogliere il timone perso per eccessiva serietà dai vari Hatebreed e Shadows Fall) a una situazione dove la cosa più simpatica che ho ascoltato nelle ultime settimane è una band chiamata Rot in Hell. Fino a un anno fa si faceva a gara a chi aveva l’artwork più colorato e divertente possibile (con tanto di mostri, scritte che colavano e colori fluo) mentre adesso uno come Justin Bartlett è l’illustratore più conteso dalle band di mezzo mondo (e ci mancherebbe, visto quanto è figo). Un salto pindarico dalle copertine patinate dedicate a teen-emo-deathsters tipo Carnifex, realtà magari musicalmente poco dotate ma con una capacità infinita di plasmare i media a loro uso e consumo, al rincorrere oscure band che sembra facciano di tutto per non essere trovate. Twitter inesistenti, profili Myspace fermi da mesi, uscite discografiche distribuite con il contagocce e per etichette impossibili (e infatti le varie Southern Lord e Relapse corrono ai ripari rilasciando ristampe o EP d’emergenza). Sfogliate i booklet dei lavori più importanti degli ultimi mesi. Simboli esoterici, roba astratta, fotografie di monti e/o boschi e/o ghiacciai (altra mania, ormai dilagata ovunque, partita da questi lidi musicali un bel po’ di tempo fa). Un fottuto medioevo. Di essere social non frega più niente a nessuno. Siamo tutti soli, illuminati da un misero fiammifero. O, ancora meglio, siamo divisi in gruppi minuscoli che si distinguono gli uni dagli altri per tratti distintivi di cui andiamo estremamente orgogliosi.


Tutto a un tratto si è smesso di ridere e ci si è chiusi in un guscio nero come la pece. Poi, mentre ascolto Lichtlærm/Minus.Mensch degli Alpinist e l’ultimo dei Weekend Nachos, mi rendo conto che anche nelle gallerie d’arte la tendenza è quella. Si è passati dall’arte di vendersi (tipo l'esplosione della street-art negli ultimi anni) all’arte di non farsi trovare. Ne ho parlato solo qui e qui sotto, eppure gli esempi si sprecherebbero. Poi non possiamo non parlare della nuova esplosione delle micro-fanzine. Fotocopiate in 50 copie, criptiche, non distribuite se non attraverso il web (vedi lo specialista Giorgio Di Salvo). Il successo non passa attraverso quanta gente parla della tua roba, ma da quanto si considerano fortunati i pochi che ne possono fruire. Siamo al passo successivo rispetto al meccanismo della tiratura limitata, ormai vicinissimi al concetto di pezzo unico. Come se io scrivessi un libro, lo inviassi a 1o persone e gli chiedessi di di bruciarlo una volta conclusa la lettura. Vi viene in mente un calcio nel culo più deciso e intransigente alla produzione di massa? La fruizione di cultura diventa atto mistico, oscuro nella sua ottusa incapacità di reiterarsi.


La via sembra segnata: sempre più radicali, sempre più chiusi. Dove si arriverà non ne ho la minima idea, però per adesso ha portato un sacco di roba davvero, davvero interessante. Godiamocela fino alla prossima onda.

domenica 15 maggio 2011

Un tributo come si deve



Il minimo per ringraziare l' uomo che ha donato all' umanità quel disco seminale di Walk Among Us è renderlo un'unità di misura universale. Trovate il pratico convertitore qui. Sotto invece il classico dei classici.



venerdì 13 maggio 2011

How To Disappear Completely











Alec Soth, la mente dietro a Lonely Boy Mag, dedica il suo nuovo progetto Broken Manual a une delle categorie umane che ammiro di più: quei meravigliosi pazzi visionari che decidono di scomparire del tutto. Che non significa stare chiusi nella propria stanzetta e passare le ore su Facebook. Qui si parla di gente che molla tutto e se ne va a vivere nella classica capanna in mezzo alla foresta. Concept meraviglioso, packaging geniale ma prezzo inaccessibile: 950 $ (qui). Tra l'altro esce anche il documentario sul making of.


mercoledì 11 maggio 2011

Sarò anche un nostalgico allo stadio terminale ma...



...vedere la prima produzione in VHS di quei matti della Mondo andare esaurita in meno di 24 ore (ripeto, meno di 24 ore) dalla messa in vendita è un sollazzo con ben pochi pari (e se dentro ci mettevano un film bello era ancora meglio. Vedremo cosa combinano con le prossime uscite, ormai certe).



martedì 10 maggio 2011

Un articolo interessante



Comincia qui e si conclude domani. Un ottimo pezzo che parte da un ulteriore ottimo pezzo di Tim Small. E mi riconferma Rivista Studio come uno degli esperimenti più riusciti del mercato editoriale italiano (recuperate al volo il numero 1, una bomba su tutta la linea. Dai contenuti alla forma).

lunedì 9 maggio 2011

[Pyunologia pt.5] Slinger (aka Cyborg Director's Cut) di Albert Pyun (US/1989-2011)



Perché la storia (anche quella del cinema) non è fatta solo da chi sta in cima. Anzi, spesso è proprio dal basso che arrivano gli scossoni più interessanti. Basta saperli sentire. Partendo da questo presupposto ho maturato la decisione di recuperare l’opera omnia di uno dei registi più (ingiustamente) vituperati di sempre: Albert Pyun. Parte così Pyunologia, percorso in una poetica da VHS.


Finalmente, dopo 22 anni, ci siamo. Mettere le mani sul mitologico Slinger è qualcosa di favoloso. Mentre si è ancora in attesa del post-atomico definitivo, annunciato anni fa dal nostro Hawaiano preferito e in perenne pre-produzione, niente di meglio che fare chiarezza sul suo primo (e unico) successo al botteghino. Perché, per chi non lo avesse ancora capito, Slinger non è altro che Cyborg (quello con Van Damme) nella sua versione director’s cut. A leggere in giro e sbizzarrendosi fra tutte le supposizioni venutesi a creare nel corso degli anni (storica le leggenda per cui Slinger doveva essere originariamente un film muto) l’acquolina in bocca era ormai ben oltre il limite di guardia. Ecco quindi spiegato tutto il polverone sollevato attorno alla notizia dello storico ritrovamento.


Rispetto al suo gemello buono Slinger è un film estremamente cupo e violento. Stilisticamente al limite dell’astrazione. Ironicamente Albert Pyun deve ringraziare che il film sia venuto fuori solo adesso e non all’epoca. La beffa starebbe proprio nel fatto che, per quanto lui sia ostile ad ammetterlo, tutto il successo guadagnato da Cyborg è dovuto proprio ai tanto odiati rimaneggiamenti dei produttori di casa Cannon. Interessati più a fare soldi sfruttando gli scarti di altri film (perché tutto – costumi, scenografie, … - in Cyborg è recuperato da altri set) rispetto a mettere in luce il valore artistico dell’opera. Se non fosse stato per questo fattore determinante gli incassi record (rispetto al costo reale) della pellicola originale non sarebbero stati che un miraggio evanescente.


Ma torniamo alla ricca abbuffata garantita dalla miracolosa riscoperta. Come portata principale abbiamo una deliziosa metafora cristologica, praticamente assente nella versione uscita nei cinema. A differenza dell’altra grande Passione del cinema sci-fi anni ‘80, il Robocop (sempre versione director’s cut) di Verhoeven, qui non siamo dalle parti della feroce satira anti-Reaganiana. Van Damme non è altro che un Messia venuto a salvare il genere umano. Inutile a dirsi che per arrivarci dovrà passare attraverso ogni sorta di martirio. Largo all’eroe come ricettacolo di dolore quindi, passaggio obbligato per l’immortalità. I riferimenti religiosi sono presenti in ogni scena, dai più crassi e banali (l’orecchino a croce rovesciata del cattivo, visibile solo nei flashback) fino alla raffinata presenza delle tre co-protagoniste femminili (che come le 3 Marie seguiranno il nostro Gesù belga anche dopo la crocifissione). Nella versione DC appaiono anche visioni ben più esplicite (un uomo nudo, circondato da teste impalate, abbandonato sul terreno nella tipica posa del Crocefisso), particolari sullo sfondo (graffiti a tema sulle rovine abbandonate) e una funerea voce off a ricordarci ogni tre per due della fede e del destino della razza umana. Ogni traccia di goffa ironia presente in Cyborg scompare. L’atmosfera è plumbea, tanto gratuita (praticamente non esiste storia al di fuori dei silenzi, degli scontri fisici e dei crudelissimi flashback) da sfiorare il metafisico.


A questo punto si unisce una gestione del montaggio frammentata e claustrofobia, spesso tanto rozza da farci sospettare che qualche giornata in più in cabina di regia non sarebbe stata male. Nei momenti più inspirati, tra inserti subliminali, tagli netti, scenari desertici e maestosi rallenty (questi gestiti in maniera divina, una roba a metà tra Walter Hill e Tsui Hark) pare invece di essere quasi (quasi, eh) dalle parti di un Ashes of Time di Wong Kar-wai. La speculazione del cinema d’azione e del post-atomico tanto agognata (e ottenuta) dalla Cannon non era neppure contemplata dal giovane Albert Pyun, qui autore più che mai. Inutile meravigliarsi quindi del suo allontanamento forzato dalla cabina di regia.


Ma oggi, a distanza di quasi un quarto di secolo, cosa ci rimane? Un abbozzo di capolavoro (perché i germi di qualcosa di enorme ci sono, eccome se ci sono), troppo povero e limitato dai paletti di ottuse eminenze grigie per spiccare realmente il volo. Magari è meglio così. Potersi perdere nelle ipotesi di cosa ci avrebbe potuto portare Pyun se adeguatamente supportato (e non intendo con completa libertà creativa e 200 mln. di dollari da buttare come meglio credeva, sarebbe bastato qualcosa di più del budget necessario al catering della troupe) è un gioco a cui non saprei rinunciare. E adesso rimaniamo in attesa delle renegade cut di Captain America e Ticker.


Come comprarmi in 121 secondi: prima clip da Drive di Nicolas Winding Refn (US/2011)





Refn (quello di Valhalla Rising) è un genio. Guardatevi la clip qui sopra. Narrazione, tensione, personaggi. Tutto in due minuti. E senza una sola parola da parte del protagonista. In più la solita messa in scena gelida e sommessa che contraddistingue il danese dai tempi di Pusher. Che, 24 anni dopo Verhoeven, Hollywood abbia trovato il suo nuovo guastatore nord-europeo?

domenica 8 maggio 2011

La sacra arte delo split: Despise You / Agoraphobic Nosebleed - And On & On



Ripartiamo con il piede giusto: dopo una settimana di inattività nulla di meglio di un post che potrà interessare si e no a quattro persone (per essere ottimisti).


Dio benedica gli split. Passano gli anni ma questa gloriosa pratica, diffusa soprattutto negli ambienti asfittici e acquitrinosi del suono estremo, riuscirà sempre e comunque a regalarci sorprese grassocce e succulente come uno stinco di porco (basta che non siano coinvolti quei polemici dei Cattle Decapitation). Si prenda a esempio questa bomba fuori per una sempre più rinvigorita Relapse. Ad aprire le danze di And On & On sono i californiani Despise You, di ritorno dopo dieci anni di latitanza. Onestamente, se la rentree è di questo livello gli si può perdonare ogni cosa. Un letale pastone di grind-core, power violence, HC e sludge/stoner. Velocissimi, ignoranti al cubo, occasionalmente perfino ai limiti della melodia. Con in più dei cori Melt Bananeschi capaci di rendere le 18 tracce (in 17 minuti) ancora più astruse e fuori controllo. Una prova da dieci e lode, rafforzata da una serie di scelte perfette in fase di produzione. Scarna, aggressiva, fisica come un calcio sotto la cintola. E siamo solo a metà strada. Quando entrano in ballo i pesi massimi Agoraphobic Nosebleed le cose non vanno di certo meglio. Si riparte dai ritmi rallentati con cui i DY si congedano e nel giro di tre minuti si finisce nuovamente in quel tritacarne che era Agorapocalypse. Per essere onesti J. Randall e Scott Hull si presentano alla sbarra con nulla di nuovo, eppure il loro thrash/grind sintetico sotto speed rimane una maglio da due tonnellate che ti colpisce tra capo e collo. Follia, violenza e tanta, tanta droga. I soliti ingredienti dei loro precedenti capolavori. Poche sperimentazioni noise e un sacco di riff pesanti come un treno merci riempiono con foga bestiale le tracce a loro disposizione. Da leccarsi le dita (con la speranza che il buon Scott si rimetta a lavorare anche con i Pig Destroyer). Se non lo avete ancora capito And On & On è un’uscita da non perdere, orgogliosamente arroccata alle radici concettuali della vecchia scuola (leggi come: meno seghe, più mazzate). Quando, a forza di farlo girare ossessivamente nel vostro lettore, avrete finito di consumare questo cd riponetelo pure accanto a Insect Warfare, Rotten Sound e Wormrot.

domenica 1 maggio 2011

Un week-end di bestemmie




Metto temporaneamente il blog in pausa, causa morte improvvisa del mio pc in data sabato 30 aprile. Domani vado dal mio smanettone preferito e vedo se riesco a salvare il salvabile, altrimenti si ricomincerà tutto da capo (e si tratta di parecchia roba). In qualunque caso penso di tornare online entro sabato. Ci si legge!