lunedì 27 giugno 2011

È NATA DISTRIBUZIONE INDIPENDENTE



Come avrete notato il blog langue da circa una settimana, complice una coppietta di settimane decisamente terribili. Nonostante questo sarebbe imperdonabile non trovare 5 minuti per parlare di Distribuzione Indipendente. Nata dalle menti di quei fighi di Bizzarro Cinema si compone di un circuito di circa 260 schermi in tutta Italia in cui diffondere produzioni cinematografiche realizzate in totale indipendenza. Il progetto sarà presentato il 6 luglio presso la Casa del Cinema di Roma. Allego comunque tutto il comunicato stampa. Inutile dire che l'operazione ha tutto il mio supporto. Dai, che se va tutto bene entro qualche anno raggiungiamo anche noi il livello di civiltà di quei paesi dove il cinema non passa solo dai multisala.


DISTRIBUZIONE INDIPENDENTE
6 Luglio 2011 – ore 20:00
Casa del Cinema
Largo Marcello Mastroianni, 1 (Roma)
Sala Deluxe e Sala Kodak


È nata una rete distributiva libera
per il cinema indipendente e d’autore


Un ponte tra le opere filmiche
e il pubblico nazionale e internazionale


Un progetto fondato sulla sinergia
tra artisti e operatori del settore


È nata DISTRIBUZIONE INDIPENDENTE


Un progetto ideato e gestito da Giovanni Costantino, Alessandra Sciamanna e Daniele Silipo, patrocinato dall’A.G.P.C. (Associazione Giovani Produttori Cinematografici) e sostenuto da C.G.S. (Cinecircoli Giovanili Socioculturali), F.I.C.C. (Federazione Italiana dei Circoli del Cinema), Cinematografo Poverania e Tauma Produzioni.


Mercoledì 6 Luglio 2011 alle ore 20:00 presso la Casa del Cinema di Roma (Largo Marcello Mastroianni, 1 - Villa Borghese), sarà presentato il progetto Distribuzione Indipendente e il suo primo Catalogo.


Le opere raccolte all’interno del Catalogo 2011/2012 – lungometraggi, documentari, cortometraggi, e una rassegna interna tutta dedicata al cinema no budget, per una selezione che tocca i generi più disparati – saranno diffuse e proiettate da Ottobre prossimo su tutto il territorio italiano, grazie ad un sistema di distribuzione alternativo che ad oggi conta più di 260 schermi, tra Circoli, Cineclub, Cinema d’essai e Associazioni culturali.
Interverranno: Giovanni Costantino (membro rappresentante di Distribuzione Indipendente), Martha Capello (presidente A.G.P.C.), Candido Coppetelli (presidente C.G.S.), Marco Asunis (presidente F.I.C.C.), Matteo Sapio (professionista del settore broadcasting/cinema)


Tra gli invitati: Andrés Arce Maldonado, Paolo Sassanelli, Totò Onnis, Ivan Zuccon, Bonifacio Angius, Marco Carniti, Anna Galiena, Dario Grandinetti, Danilo Nigrelli, Marco Foschi, Francesca Faiella, Jun Ichikawa, Carmen Giardina, Lorenzo De Angelis, Jamil Hammoudi, Carolina Salvati, Stefano Bessoni, Edo Tagliavini, Marco Benevento, Francesco Mastrorilli, Monica Citarda, Virgilio Olivari, Francesco Malcom, Paolo Ricci, Alessandro Aulicino, Valentina Del Rio, Elena Ravaioli, Fabio Morichini, Marco Luca Cattaneo, Stefano Fregni, Sara Sartini, Guendalina Zampagni, Alessandro Haber, Pamela Villoresi, Eros Puglielli, Flavio Moretti, Francesco Cordio, Paolo Pagnoncelli, Mimmo Paladino, Peppe Servillo, Lucio Dalla, Luca Merloni, Pietro Mereu, Alessandro Bergonzoni, Dario Fo, Ascanio Celestini, Daniele Silvestri, Michele Pastrello, Dennis Cabella, Marcello Ercole, Fabio Prati, Paolo Gaudio, Giacomo Cimini, Massimo Treggiani, Dario Gorini, Iacopo Zanon, Nicola Piovesan, Gianluca Sodaro, Tak Kuroha, Alfredo Fiorillo, Michele Bernardi, Igor Imhoff, Massimo Niba Barbini, Matteo Giacchella, Donato Sansone, Alice Tambellini, Stefano Tambellini, Virgilio Villoresi, Caterina D’Amico, Francesco Serra di Cassano.


Madrina di Distribuzione Indipendente: il premio Oscar Gabriella Cristiani


Distribuzione Indipendente
Organizzazione Generale: Giovanni Costantino
Ricerca e selezione film: Alessandra Sciamanna, Daniele Silipo
distribuzioneindipendente@gmail.com
alessandrasciamanna@gmail.com
d.silipo@gmail.com

mercoledì 22 giugno 2011

Quasi come l'Italia: Tropa de Elite 2 di José Padilha (Br/2010)



Non ho mai nascosto come il primo Tropa De Elite sia uno dei miei film preferiti in assoluto. Non per la sua durezza nel rappresentare la guerriglia urbana delle favelas brasiliane, ne per la sua scrittura solida e ben oliata. Tanto meno per essere un perfetto prodotto di genere costruito su delle basi di realtà che avrebbero potuto spingere come nulla nella direzione del dramma da Festival. No, la cosa migliore di Tropa de Elite era la sua totale amoralità. Nel film di José Padilha gli agenti del Bope erano effettivamente dei fascisti drogati di adrenalina, ottusi e incapaci di qualsiasi strategia se non la violenza e il sopruso. Ma rappresentavano anche l’unica parte della popolazione di Rio esterna al mondo del crimine. Contestati, con tutte le ragioni, da quell’attivismo attento ai diritti dell’uomo e sempre in lotta per il rispetto della dignità individuale. Perfetto, se non fosse per tutti quegli studenti illuminati che con i loro piccoli vizi finivano per alimentare a loro volta il mercato del narcotraffico. Così, prima della fine del film si finiva a fare il tifo per un gruppo di assassini legalizzati. Tropa de Elite riusciva a portare avanti il miglior tipo di provocazione possibile: quella contro tutto e tutti. L’unico modo per sfuggire alle didascalie da compitino politico, sia di destra che di sinistra. Il film dava fastidio a uno schieramento per via della rappresentazione estremamente violenta delle forze dell’ordine, all’altro per l’ipocrisia dei progressisti. Tutti sono colpevoli, ma almeno il Bope ripuliva le favelas dalla criminalità. Seppur con metodi da pulizia etnica. Si usciva dal cinema senza una risposta pre masticata, non ci si azzardava a fare congetture su di un mondo che appariva troppo lontano per poterci ragionare sopra. Semplicemente subivi quasi due ore di sangue, urla e sacchetti di plastica in testa.


A distanza di quattro anni Padilha ci riprova, alzando vertiginosamente la linea di tiro. E, da un certo punto di vista, sbagliando clamorosamente. Tropa de Elite 2 ha una partenza grandiosa e inaspettata: in seguito a una carneficina in un carcere di massima sicurezza (la maniera in cui il Bope intende il concetto di “sedare una rivolta”) il Capitano Roberto Nascimento diventa un eroe popolare. Il fatto di aver eliminato in un colpo solo i 40 criminali più pericolosi di Rio gli apre le porte della politica. Una volta arrivato nella stanza dei bottoni la sua scelta è quella più logica: moltiplicare esponenzialmente la presenza del Bope sul territorio ed eliminare la criminalità nell’unica maniera che conosce. Purtroppo allargare le fila di un organismo che fino al giorno prima traeva la propria forza proprio dalla chiusura e dal senso di cameratismo di chi lo animava (concetto che tornerà ad emergere con prepotenza proprio negli ultimi minuti del film) significa snaturarlo. Con tutto ciò che ne consegue.


Rispetto al primo film, dove si spara perché qualcuno dice di sparare, qui l’occhio della telecamera cerca di insinuarsi nella corruzione politica, nel populismo e nei giochi di potere che condizionano la vita di milioni di persone. Allargando il campo visivo il regista non riesce più a concentrarsi su quel dualismo che aveva reso immenso il primo capitolo. Qui l’accusa è molto più schierata, trasparente e diretta. Certo, si punta senza paura il dito contro tutte le cariche di maggior peso politico del Brasile, cosa coraggiosa ed encomiabile. Ma il fatto di avere uno schieramento buono e uno cattivo toglie tutta la reale carica eversiva all’operazione. Tropa de Elite 2 dice un sacco di cose giuste nel modo più burbero e secco possibile. I criminali sono cattive persone? Sì. I politici corrotti e in combutta con il mondo della malavita? Sì. Il popolo che si lascia trascinare dalla televisione e chiede sempre e solo più violenza come soluzione a ogni problema? Altrettanto. Peccato che sono cose che sapevamo già tutti (da qui il titolo del post). José Padilha ce lo ricorda con il suo stile da regista a cinque stelle (perché dal quel punto di vista TdE 2 è un gran film) ma manca quel nichilismo che aveva reso il primo capitolo un gioiello di cattiveria e instabilità.


In qualunque caso da bacio in fronte la scelta di passare da un primo capitolo praticamente action/bellico (con tanto di esercitazione alla Full Metal Jacket) a un sequel ambientato tra i corridoi dei palazzi di potere, con le variazioni di genere che ne conseguono. Alla faccia delle aspettative del pubblico.

PSVita fatti una sega

receipt racer from d_effekt on Vimeo.



La vecchia scuola vince sempre.

lunedì 20 giugno 2011

Trailer ingannevoli ed emotività di plastica



Nel post sotto mettevo subito in chiaro una cosa: Super fa il culo a Kick Ass. Dal trailer però mi fanno capire che si percepiscono somiglianze con Scott Pilgrim... la risposta è NO. Super con i pupazzetti ultracool di Cera non ha nulla a che spartire. Siamo su due pianeti diversi: un capolavoro quello di Gunn, un giocattolo estremamente divertente quello di Wright. E sul divario della portata emozionale siamo messi ancora peggio: arrivate all'ultimo minuto di Super e ditemi cosa vi sembrano dopo le cazzatine adolescenziali del canadese (grazie anche al superlativo Rainn Wilson).

domenica 19 giugno 2011

Mark Millar non ci sarebbe mai arrivato: Super di James Gunn (US/2011)



Super è tutto quello che Kick-Ass (e lo dico da superfan di KA) non è riuscito a essere, ne su carta ne su pellicola. Meno ipertrofico e pop, infinitamente più profondo e stratificato. Eppure la base di partenza è quell'urticante commedia splatter di matrice Tromesca che ha reso famoso il regista James Gunn prima ancora dei trionfi al botteghino US.


Super si presenta con fotografia televisiva e messa in scena di una povertà assoluta. Tre o quattro set in tutto, una manciata di attori (anche se di primo piano), effetti speciali tra il casalingo e il lo-fi d'autore. Lo stile è documentaristico, con una macchina da presa traballante (non epilettica alla Greengrass, proprio traballante) puntata sempre troppo vicino o troppo lontano. Pare di essere tornati negli anni ’90 del cinema indie, quando il digitale e i suoi orrori da baraccone cheap erano ancora una minaccia lontana. Già il precedente Slither era un bel salto nel passato, con la sua sarabanda di mostri di lattice e anatomie deformate, ma qui la percezione è del tutto diversa. La forma si sposa con il contenuto, non siamo dalle parti dell’omaggio affettuoso.


Sullo schermo passano solo perdenti, non c’è traccia della solita grandeur made in Hollywood. E’ il cinema del reietto, del signor nessuno che abita in un posto qualsiasi di uno stato qualsiasi. Abituati a sceneggiature che snocciolano scene grondanti coolness da postare su Youtube, frasi a effetto o personaggi incapaci di esitare risulta straniante trovarsi a che fare con una storia dove tutti sono fuori posto, perdenti per la vita. Anche al di fuori delle esplosioni di violenza Super riesce a essere realmente sgradevole. Non arriva al risultato mettendo davanti alla macchina da presa una bambina ninja di 10 anni, ma semplicemente giocando continuamente al ribasso. Dando sempre più addosso ai suoi personaggi. Siamo dalle parti di Defendor, ma senza tutta la patina buonismo derivante dall’autismo del protagonista. Così si ride della goffaggine del protagonista e della completa follia della sua assistente, della loro incapacità di rapportarsi al mondo reale. Come se la fuga dalla realtà fosse l’unica via per redimersi da vite grigie e banali, proprio come succedeva in Astropia (nerd-movie islandese a base di giochi di ruolo e criminali veri). Basta una tutina attillata e una chiave inglese per vestire i panni di un supereroe, amato e temuto in egual misura.


In Super si ripercorrono tutte le tappe obbligatorie del cinecomics, dai primi tentativi nel vicolo dietro casa fino allo scontro finale con l’antagonista. Compresa inevitabile maturazione e passaggio a livello successivo. Ma quello che fa Gunn a questo punto è grandioso, dimostrandoci che la vita va comunque avanti. Anche quando si vince.


E, se si guarda bene, si scopre che non è che sia così male.


Un finale che nel suo essere sommesso e normale doppia in epicità ogni altra cosa fatta in campo di mantelli e maschere. Un picco di pura autorialità. Gunn raggiunge un compromesso che pareva inarrivabile tra eccessi di scorrettezza e poesia intimista, dimostrando quanto c'è ancora da dire in ogni campo. Un pò come far recitare un testo di Shakespeare in un film della Troma. O scrivere una delle più raffinate operazioni di meta-cinema infarcendola con serial killer ermafroditi e altre follie. Super si pone come autentica pietra di volta del supereroe al cinema (ma lo sarebbe anche nei fumetti), e lo fa spendendo il minimo, affidandosi alle facce giuste e buttando sul banco una sceneggiatura perfetta. Sospesa tra dramma, demenza, ricerca interiore e sberleffo di grana grossissima. Inutile dire che non lo vedrà nessuno.






mercoledì 15 giugno 2011

Intervista ai registi di The Taint



Ricordate il film The Taint, di cui vi ho parlato tanto bene? I ragazzi di Bizzarro Cinema mi hanno chiesto di contattare i due registi e di scambiarci quattro chiacchiere. Trovate recensione e intervista qui.

martedì 14 giugno 2011

Com'è cool essere grim!





Scusate se torno ancora sull'argomento, ma segnalare che l'ultrafighetto e megahype Highsnobiety ha pubblicato un'intervista alle menti dietro a CVLT Nation è d'obbligo. Adesso manca solo Monocle che pubblica uno speciale su Crust Cake e poi siamo a posto. Che ne è stato del mantra Extreme music for extreme people?

lunedì 13 giugno 2011

[Tra orrore e horror c'è una bella differenza] Stria di Gigi Simeoni



Stria ha mille difetti: passaggi frettolosi, situazioni già viste, psicologie spesso non all’altezza. Eppure rimane una lettura a cui non avrei mai rinunciato. Il motivo è semplice: Simeoni è riuscito a creare una storia profondamente e inconfondibilmente italiana. E in senso buono, per una volta.


Si parla di un horror che non sta a metafora di nulla (se non dell’ineluttabilità del male stesso) ambientato in una porzione della provincia italiana poco sfruttata dai generi. Se il profondo sud non poteva essere rappresentato meglio che da Lucio Fulci nel suo Non si sevizia un paperino, la Bassa padana ha avuto la sua consacrazione con le pellicole del Maestro Avati. Qui invece abbiamo le montagne e le vallate del Nord, un set dalla fisionomia ambientale e dalla fauna umana che hanno ben poco da invidiare a un Deliverance Boormaniano (fidatevi, ci vivo). Le distese di boschi, la chiusura dei centri abitati e la presenza severa delle cime montuose contribuiscono da sempre a creare un humus perfetto per leggende e miti strettamente legati alla morte e al terrore di ciò che non si conosce. Gigi Simeoni pare averlo capito benissimo e ce lo urla in faccia fin dalla fantastica cover (a metà tra Calvaire e Resident Evil 4, non a caso due capisaldi della cultura horror moderna) di questo suo ultimo lavoro.


Fino a poche pagine dalla conclusione Stria è un fumetto solido, superiore alla media della produzione italiota, ma nulla per cui ululare al miracolo (escludendo alcune tavole clamorose e la già citata cover, che andrebbe esposta in una galleria d’arte). Poi ci si avvia verso il finale e si realizza la vera portata dell'opera. Non stiamo leggendo un fumetto horror, con le esagerazioni del caso e tutte le sospensioni dell’incredulità richieste da una vicenda apparentemente soprannaturale. Stiamo leggendo un fumetto dell’orrore. Proprio come succedeva nel Paperino Fulciano o ne La Casa dalle finestre che ridono di Avati. Oltre all’ambientazione ecco un’altra sfaccettatura prettamente legata alla nostra nazione e alla sua cultura.


Nella produzione italica il cinismo non è certo roba da post-moderno: abbiamo esaltato i criminali nei fumetti neri, demolito l’ultimo mito moderno nello spaghetti western, amplificato la portata exploitativa di ogni genere portandolo al limite e abbandonandolo solo dopo averlo ridotto a brandelli (il poliziesco, il thriller,…). Pare che ogni forma di narrazione popolare sviluppata in Italia debba giocare al ribasso, incapace di concedersi il lusso della fantasia sfrenata e dei suoi picchi visionari (si parla di genere, non mi si tiri fuori Fellini). Un male? Vedendo come all’estero viene celebrato il nostro immaginario degli anni d’oro, quasi sempre accompagnato e impreziosito da aggettivi riconducibili a un campo semantico fatto di ruvidezza e sporcizia, direi di no. Abbiamo a che fare con un’altra immagine del Paese del Sole. Si parla di pistoleri che si trascinano sulle spalle una bara da morto, di pattuglie di vigilanti più violenti degli stessi criminali, di incesti necrofili e lager dove si torturano ragazze nude senza scopi apparenti. Tanto per fare qualche esempio a caso.


Stria gioca per tutto il tempo all’ennesima variazione del soprannaturale privo di spiegazioni logiche. Poi si ricorda da dove viene e ci riempie la bocca di fango, sbattendoci faccia a terra. Sarà sicuramente meno originale ed evocativo, meno ricco di letture e stratificazioni. Ma colpisce alla bocca dello stomaco come nessuna metafora d’autore saprebbe fare.

domenica 12 giugno 2011

mercoledì 8 giugno 2011

Ricetta per l'italico rinascimento

IGDA Italia & Global Game Jam 2011 from paolo pedercini on Vimeo.





Dal blog del sempre attento Matteo Bittanti una videocartolina di Molleindustria. Nonostante tutto il video sia estremamente interessante la vera ricetta per un rinascimento della cultura italiana la si trova a 6:14 (si parla di videogiochi, ma il messaggio dovrebbe essere chiaro lo stesso). Era ora che in un paese dove tutti si millantano professionisti (in un industria dell'intrattenimento che praticamente non esiste) arrivasse qualcuno a dire una cosa simile (non vi dico cosa, così vi guardate il video. Starà poi a voi traslare il concetto nel campo che preferite).

Perchè amo il Nord Europa



(sopportate il terribile spot videoludico, poi parte il trailer vero)


Perché solo da un popolo superiore poteva arrivare una commedia romantica che parla di fan di Takashi Miike, piena di umorismo metalinguistico che riesce ancora a fare ridere (tirandosi addosso un bel pò di merda) e con una combo drago di cartapesta/sangue finto/tette al vento già inserita nel trailer.


Il minimo che ci tocca fare per ringraziare questo grande popolo è comprarci una di queste (se non capite la gag non siete true & grim).

lunedì 6 giugno 2011

[Pyunologia pt.6] Alien from L.A. di Albert Pyun (US/1988)



Perché la storia (anche quella del cinema) non è fatta solo da chi sta in cima. Anzi, spesso è proprio dal basso che arrivano gli scossoni più interessanti. Basta saperli sentire. Partendo da questo presupposto ho maturato la decisione di recuperare l’opera omnia di uno dei registi più (ingiustamente) vituperati di sempre: Albert Pyun. Parte così Pyunologia, percorso in una poetica da VHS.


Indiana Jones + Blade Runner + Mad Max + teen movie avventuroso anni ’80 = Alien from L.A.


L’ennesima sortita nel (meravigliosamente) sconclusionato fantastico di Albert Pyun riesce ancora una volta, nonostante attori/sceneggiatura/budget ben sotto il livello di guardia, a regalarci qualche frangente di pura delizia visionaria.


Los Angeles. Wanda Saknussemm è una ragazza petulante e logorroica. Nello stessa giornata nera viene lasciata dal fidanzato per mancanza di senso dell’avventura e riceve una lettera dall’Africa. La missiva la informa della scomparsa del padre, un illustre archeologo. Priva di motivi per restare a Malibu e desiderosa di dare una scossa alla propria vita decide di lasciare gli Stati Uniti e indagare di persona sull’accaduto. Una volta arrivata al campo allestito dal padre finisce tempo zero in un pozzo, facendo un volo di decine di metri. Atterrata sulla nuda roccia si rialza come se nulla fosse e si avvia verso la sua avventura nel mondo del sottosuolo. Il piano è semplice: raggiungere la città di Atlantide, ritrovare il padre scomparso e tornare alle assolate spiagge della California.


L’unico vero motivo di interesse della pellicola è la città sotterranea. Folle incesto tra la Los Angeles di Blade Runner e un impianto minerario in decadimento. Vapori, fiumane di gente vestita in maniera bizzarra, megaschermi e mezzi di trasporto realizzati saldando assieme qualche pezzo di lamiera arrugginita. Albert Pyun sfrutta i quattro soldi messi a disposizione della produzione in maniera miracolosa, arricchisce la civiltà di Atlantide con le solite abitudini astruse e lavora parecchio sui costumi. Partendo unicamente da materiali di seconda mano il regista hawaiano riesce a generare un mondo fresco e affascinante, dimostrandoci ancora una volta la sua capacità di plasmare l’immaginario di una generazione a suo piacimento.


L’impressione è sempre quella, sospesa tra banalità da microproduzione STV e pura energia visionaria. Summa di tutto quello che si era già visto al cinema e di tutto quello impossibile da vedere fuori da una pellicola dell’uomo dietro cult come Cyborg e La Spada a Tre Lame.


A livello di scrittura siamo alle prese con un potpourri fuori controllo di tutti i personaggi tipici del teen-movie d’avventura anni ’80: la protagonista bruttina e outsider (che durante l’avventura tornerà a credere in se stessa, diventando automaticamente anche bella e ambita), l’aiutante burbero ma dal cuore tenero, lo scavezzacollo impavido e passionale, lo scienziato reietto che finalmente riuscirà a dare un senso alle ricerche di una vita, il genitore assente (ma solo per il bene della figlia). E naturalmente i soliti antagonisti paranoici, capaci di vedere nella povera Wanda una spia aliena.


Alien from L.A. è l’ennesimo tassello di un immaginario bambinesco e totalmente libero. Spesso imperfetto, pieno di riferimenti ad altre opere eppure pregno di una visione profondamente personale e sentita da parte del regista. Il vero capolavoro di Albert Pyun è la sua filmografia in toto, quello che rappresenta in un contesto produttivo come quello cinematografico. Inutile chiedersi se il film in questione sia un titolo da recuperare a ogni costo. Il vero Pyunologo ha già la risposta in testa.


venerdì 3 giugno 2011

[Defenders of the hate] Anal Cunt - Fuckin'A (2011/Patac Records)



Le ha prese (letteralmente) dai Six Feet Under, dagli Hatebreed e dai roadies degli Hatebreed. Ha inciso un disco di 5643 canzoni. E’ stato etichettato come omofobo, razzista, antisemita e violento nei confronti delle donne. Ha scritto canzoni in cui prendeva per il culo le persone in coma. Poi in coma ci è finito lui, per un overdose di crack, alcol e sonniferi. Dopo essersi ripreso ha tenuto concerti in stato semivegetale (legato a una sedia) e ha continuato comunque a cantare simpatiche canzoni come “You are in coma” (appunto). Il tutore ortopedico della sua riabilitazione fisica è stato acquistato da Matthew Barney. Ha prestato la sua voce ai dischi di Pantera, Brutal Truth e Eyehategod. Ha dato vita a una delle peggiori band della storia, censurata fin dal logo (una vagina e un ano). Ha inciso dischi di black metal acustico (in cui suonava anche la batteria, battendosi i pugni sul petto) ed è riuscito a trovare una distribuzione mondiale alla tonnellata di rumore inciso negli anni (dopo tutto gli Anal Cunt erano sotto l’egida della Earache degli anni d’oro), coltivando costantemente l’hobby di inviare i promo dei suoi lavori a magazine che l’avrebbero sicuramente stroncato.


Dite quello che volete ma è innegabile che Seth Putnam sia ormai assorto allo status di icona pop.


Troppo caricaturale e sguaiato per essere realmente pericoloso, lo si può considerare senza problemi come la versione cartoonesca di GG Allin. Da qui tutta la curiosità venutasi a creare attorno alla sua trionfale rentrée sul palcoscenico mondiale, questo “Fuckin'A”.


Urticante presa per il culo del più becero cock-rock si stampo statunitense, si conferma il primo disco degli A.C. con una parvenza (seppur spastica) di musicalità. Tecnicamente elementare, registrato come un demo su cassetta, privo di qualsiasi forma di riff originali o perlomeno non telefonati. A parte uno squallido “I'm gonna give you AIDS” anche i testi paiono concentrarsi più sui cliché del rock’n’roll che sulla consueta misantropia. Allora perché parlarne? Perché è un lavoro degli Anal Cunt.


NESSUNO lo comprerà ma chiunque abbia in casa un qualsiasi disco più peso dei Metallica finirà per scaricarselo e farlo sentire agli amici. Ridendo a denti stretti della totale mancanza di talento di un personaggio che è riuscito a entrare nella storia (vedi la lista a inizio post) proprio perché forte (e certo) di questo.


Seth Putnam è il pagliaccio offensivo che abbiamo avuto tutti in classe almeno una volta. Quello che alle feste finisce sempre per esagerare. La mina vagante che prima o poi finisce per far male a chiunque. Non si può dire che gli vuoi bene, però alle sue trovate da mongoloide ci ripensi sempre volentieri. Tanto basta.

giovedì 2 giugno 2011

A proposito del ritorno all'ostilità...







...di cui parlavo qui, ecco a voi i simpaticissimi e gradevolissimi lavori di Jérome Zonder. Tutta roba che quella fucina di malvagità dei fratelli Chapman ha già partorito (e, nel suo piccolo, anche Jakob Johnsen). Lo sappiamo tutti. Però fa sempre piacere vedere un pò di pura e irresponsabile cattiveria esposta sui muri di una galleria d'arte.