mercoledì 30 dicembre 2009
martedì 29 dicembre 2009
La scimmia chiede... la baronessa risponde
Se, come me, continuate a reputare Blue Record uno dei dischi dell'anno potrebbe interessarvi una breve intervista ai quattro di Savannah a opera del sottoscritto. Trovate tutto qui.
lunedì 28 dicembre 2009
Benvenuta iGeneration: American Youth di Redux Pictures
Se adorate la fotografia a sfondo antropologico questo è uno dei titoli dell'anno da non lasciarsi sfuggire (magari assieme alla terza ristampa di True Norwegian Black Metal, gigavolume da capogiro concepito da un non metallaro per non metallari). L'agenzia Redux Pictures ci fornisce infatti la prima documentazione attendibile sull'identità della cosidetta gioventù sospesa tra iGeneration (1999-oggi) e Millenial Generation (di cui faccio parte, arrivata subito dopo la famigerata, ma sempre carismatica, Generazione X). Anche se il ritratto è riferito solo al territorio statunitense (pecca quasi assurda, considerando quanto le distanze e le identità nazionali si siano annullate negli ultimi anni) il lavoro di questi giovani reporter è potente, delicato, paterno e privo di giudizi. Si va dal giovane attivista mussulmano alla gang indiana, passando per skater, spogliarelliste, nerd e coppie innamorate. Devastanti le pagine dedicate alle vedove di guerra, quasi insostenibili se si considera che molte di loro non possono ancora bere una birra. Un lavoro ineccepibile e carico di umanità, accessibile a un prezzo per nulla proibitivo.
Menzione speciale per la giovane Erika Larsen, fotoreporter di razza già a 33 anni (sua la foto di copertina).
Menzione speciale per la giovane Erika Larsen, fotoreporter di razza già a 33 anni (sua la foto di copertina).
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La morte che non ti aspetti: Accident di Soi Cheang (HK/2007)
Soi Cheang non è certo un cineasta facile. Amato e odiato in egual misura per il suo frequente debordare nei territori dell’eccesso gratuito e per il suo cinismo impietoso, arriva alle luci della ribalta grazie a due perle di nero straziante come Love Battlefield e Dog Bite Dog. Questo Accident è il suo debutto sotto l’ala protettrice della Milkyway Image, casa produttrice capace di levigarne gli spigoli e di fornirgli uno script degno di questo nome. Il risultato è paradossale: un film che è il più autoriale e contemporaneamente il meno esplicitamente Cheanghiano, un’opera che non potrebbe che essere diretta dal Nostro ma dove la sua mano risulta meno vistosa del solito. In qualsiasi caso un gran lavoro.
La trama verte attorno alle imprese di uno strano gruppo di sicari, specializzati nel simulare incidenti estremamente complessi atti a mascherare in maniera totale il loro operato. Tale modus operandi prevede una disciplina maniacale, tanto ferrea e gelida da arrivare a piegare alla propria volontà il destino (da sempre grande protagonista di casa Milkyway). O almeno così crede Ho Kwok-fai, leader indiscusso dei quattro protagonisti.
Il film è un excursus fulmineo (dura poco più di 80 minuti, ma contiene più roba di tantissimi polpettoni statunitensi da 3 ore) nella paranoia, dove la squadra di sceneggiatori si diverte a mischiare licenze poetiche rischiosissime (siamo sempre sull’orlo della cazzata gigantesca) e durissimi rientri nella sfera del realismo. Se si è abituati a mascherare attentati nella foschia del caso è naturale vedere indizi della propria fine imminente in ogni minima anomalia della quotidianità. Su questo presupposto Soi imbastisce una serie di morti atroci (senza che neppure un colpo di pistola venga esploso), immergendo tutto nelle sue inquadrature imbevute di nero.
Un ritmo vertiginoso, accompagnato da musiche dall’elevato tasso Hitchcockiano, garantisce una tensione costante. Come in Eye in The Sky, ultimo grande debutto in casa Milkyway prima di questo Accident, la narrazione si infila tra le fessure di un costante movimento. Le informazioni sui protagonisti sono ridotte al minimo, l’asciuttezza pare dominare ogni aspetto del lungometraggio. Anche questo costituisce un mezzo per creare un’incertezza costante, chiave di volta di tutto l’apparato narrativo/iconografico e fattore che spingerà lo spettatore a chiedersi che strumento di morte si possa celare in ogni inquadratura.
Da questo punto di vista il film si conferma opera completamente aderente alla poetica di Soi Cheang, noto per la totale mancanza di speranza e per l’atmosfera di oppressione. Se in Dog Bite Dog era un certo accumulo di fattori disumani (anche a livello di linguaggio) a rendere claustrofobica l’atmosfera, qui, come già accennato, è esattamente il contrario. Il destino avverso pare insinuarsi in ogni aspetto della nostra vita e, per mancanza di dati certi, ci è impossibile sapere quanto sia frutto di cattiveria umana e quanto del puro caso. Un bel modo per farsi passare la voglia di uscire di casa.
domenica 27 dicembre 2009
Vengeance di Johnnie To: prove tecniche per la consacrazione
Spesso provo a mettermi nella testa di Johnnie To. Cerco di immaginare come possa essere vista dagli occhi dell’ultimo genio cinematografico non riconosciuto l’opportunità di girare un remake del capolavoro tecnico/teorico di un maestro come Melville. So di aver contribuito a ratificare in maniera definitiva il wuxia (The Bare-Footed Kid) e il fantasy cinese (The Heroic Trio). Ma sono anche ben cosciente di aver chiuso un certo capitolo del noir di HK (A Hero Never Dies), di averlo fatto tornare sotto una nuova forma (The Mission) e cambiato ancora (Exiled). Ho girato il piano sequenza del decennio (Breaking News), ho riscritto le regole dell’autorialità (il metodo produttivo Milkyway Image) e sfornato la media di un capolavoro ogni due anni (perché in mezzo ci sono pure i film “medi”). 45 film in 21 anni di carriera (evitiamo di contare gli anni come aiuto regia). Eppure agli occhi del cinefilo occidentale sono ancora un esordiente. Un esordiente che ogni anno partecipa sia a Cannes che a Venezia, con qualche capatina a Berlino(...).
Poi un giorno si palesa la possibilità di girare il remake di I Senza Nome di Melville. Grosso budget, grossi nomi. Produzione francese, il mercato occidentale come target primario. E’ la mia possibilità di essere riconosciuto come uno dei più grandi cineasti di sempre. E’ la mia affermazione, quello che rimarrà del mio lavoro prima delle solite rivalutazioni postume. Mi pare ovvio che davanti a una responsabilità simile mi possa permettere il lusso di un primo colpo di prova, tanto per poter aggiustare il tiro al secondo tentativo. Ecco, Vengeance è quel colpo.
Se non avete mai visto un film di To o un noir di HK (materia che si deve conoscere alla perfezione per poter capire la grandezza di Giovannino) avete trovato un punto di partenza ideale. Dentro ci trovate tutti gli ingredienti che nel corso degli anni hanno contribuito a rendere immancabile questo autore: le lunghe scene a tavola, le sparatorie statiche, le sparatorie coreografate, le pose plastiche, Anthony Wong, Sam Luet, Simon Yam, l’etica del samurai, la notte, il melodramma e il cinismo più spinto. Tutto rivisto in un ottica meno speziata e più cinefila (e commestibile) del solito, come ad accontentare i produttori (al 50% il film è prodotto con soldi francesi) e il pubblico del circolino d’essai. Così To si diverte a citare le stesse ispirazioni di Melville, primo fra tutti Kurosawa (nella scena più visionaria di tutto Vengeance, autentico capolavoro interno a un film dopotutto “normale”), e a renderle 100% cantonesi. Come a chiudere quel cerchio iniziato con Chow Yun Fat vestito come Alain Delon.
Come primo colpo non siamo messi male (a parte la gestione di un attore non orientale, decisamente sottotono rispetto alla consueta prova mostruosa fornita da Anthony Wong) e la voglia di vedere LA scena di rapina in gioielleria gestita da un alieno come To è tanta. Vedremo cosa ne pensano i produttori.
giovedì 24 dicembre 2009
Strenna musicale natalizia: Struck By Lightning + Gaza
Visto e considerato che non sono ancora riuscito a metabolizzare la notizia degli Eyehategod in concerto a Milano (ad aprile, presso il circolo Magnolia) oggi un bel post dobbio a base di dischi ignoranti.
Serpents dei Struck By Lightning (Translation Loss Records/2009): fidatevi, nel prossimo anno gruppi come questo o i Black Tusk (guarda caso freschi di firma Relapse) spopoleranno. Il perchè lo spiego qui .
He Is Never Coming Back dei Gaza (Blackmarket Activities/2009): se dovessi compilare un elenco dei dischi che considero veramente oscuri e pericolosi non saprei come escludere dalla lista il debutto dei Gaza. I Don’t Care Where I Go When I Die rappresentava all’epoca il meglio del peggio della scena estrema. Annichilente fin dal titolo e dalla cover, sparava in faccia all’ascoltatore un magma indistinto di postcore, crust, powerviolence e semplice intransigenza fine a se stessa. Un disco che non portava a nulla, trovando la sua unica ragione d’essere nella demolizione di ogni sortita anche vagamente avvicinabile al concetto di musica. Ora la band di Salt Lake City se ne esce con un nuovo disco, He Is Never Coming Back (ma quanto sono bravi a scegliersi i titoli?), e cerca di rimescolare le carte in tavola. Nonostante sia percepibile la volontà di rendere maggiormente ragionati e riflessivi i brani la vena di ignoranza e ostilità che ha reso famosa la band non riesce a rimanere comunque repressa. Gli stacchi grind, la produzione rovinosa, l’aprirsi sempre più spesso alle lusinghe di uno sludge paludoso e putrescente. Tutto sembra riconfermare quanto sentito nel debutto, eppure pare che questa volta qualcuno si sia dimenticato il freno a mano tirato. Un peccato, soprattutto immaginandosi quanto in basso si sarebbe potuti sprofondare. In qualsiasi caso i Nostri si riconfermano una realtà solida come una roccia, dotata di un impianto di significati espressi con cura certosina. Artwork, testi, titolazione dei brani. Tutto è studiato per essere più estremo del dovuto. Peccato che qui non ci sia traccia dell’umorismo postmoderno che, negli scorsi anni, ha reso cool troppe band inutili. Sarà per quello che vedo in giro più magliette dei Bring Me The Horizon che dei Gaza.
martedì 22 dicembre 2009
[teaser] Zebraman 2: Zebra City no Gyakushu di Takashi Miike (Jap/2010)
Il primo era un gioiellino e ne avevo già parlato qui. Adesso arriva il teaser del seguito e, prima che il lettore abbia concluso di caricare il filmato, sorge un dubbio: non è che Miike era meglio prima della beatificazione? Quando in un anno girava 5/6 film e non aveva tempo di pensarci su?
Errata Corrige
Nella recensione qui sotto ho scambiato, da coglionazzo totale, Medda con Serra. Non avete idea di quanto sia irritato dalla cosa. Spero non si sia offeso nessuno, nel caso me ne scuso molto. Mille grazie al sempre attento Adriano Barone.
lunedì 21 dicembre 2009
X-Campus (di Medda, Artibani, Medri e un botto di altri disegnatori fighi): adolescenza?
Evitiamo tutte le possibili polemiche sul fatto che X-Campus, fumetto 100% italiano, è finalmente fruibile da noi italioti solo in forma di allegato a un quotidiano. Tentare di decifrare le politiche editoriali del nostro paese è qualcosa di molto più complesso che l’analisi della miniserie in se. Opera ambiziosa tra l’altro, che prevede le narrazione di vicende legate ai mutanti di casa Marvel in chiave adolescenziale.
Graficamente il livello è stellare, oltre che perfetto ai fini della narrazione. Sospeso tra suggestioni street, classe europea e influenze nippostatunitensi travolge con un’identità fresca e travolgente. I colori brillanti si sposano alla perfezione con tratti decisi e ben marcati. Pensare a un character design migliore di quello proposto è molto, molto difficile, impossibile se si pensa a come sono stati resi Henry McCoy, Ororo Munroe, Magneto ed Emma Frost. Cool è l’unica parola che si può utilizzare per descrivere le tavole di questo volume. Confrontando poi il risultato con la stasi di certi altri prodotti di casa nostra lo stupore lascia spazio alla desolazione.
La sceneggiatura risulta fruibile su due diversi livelli, uno buono e uno indiscutibilmente insufficiente. Se si considera la narrazione come successione di eventi concatenati tra loro, allora si tratta di un prodotto solido e ben fatto. Le singole uscite sono avvincenti, scritte con esperienza e mestiere. Si tratta, a conti fatti, di vicende adatte a un qualsiasi numero della serie regolare con la X in copertina. E qui arrivano le note dolenti: X-Campus di adolescenziale non ha nulla. Si tratta unicamente di un cambio di set e di una diversa caratterizzazione grafica dei personaggi.
Da una serie che parla di teenager cerco altro. Cerco sbalzi ormonali, scazzo adolescenziale, ribellione, continui riferimenti al sesso (perché ogni 15enne medio pensa solo e comunque a quello), paura per il futuro e sbruffoneria da sbarbatello. Invece i nostri protagonisti sono perfetti, pronti a rischiare la vita per ideali più grandi di loro. Non ho idea delle direttive arrivate agli autori da mamma Marvel, quindi non sto a sindacare il fatto che tutto sia estremamente edulcorato. Qui abbiamo un gruppo di adolescenti che parlano come dei chierichetti, non si vede un brandello di carne al vento neanche a pagarlo e l’idea di trasgredire è una chimera irraggiungibile. Però anche il veto su questi punti non avrebbe impedito di puntare meno alla narrativa di genere per concentrarsi maggiormente sul lato umano dei personaggi.
Si pensi ai numeri che Morrison, durante la sua celebre run, dedica alla vita all’interno dell’istituto Xavier. Abbiamo l’outsider, semplicemente dotato del potere di essere brutto, il tipo composto da gas e quindi invisibile agli altri, il gruppetto di amiche perfide e inseparabili, lo spocchioso superdotato, lo strano e il bullo. In qualunque anno voi abbiate frequentato un liceo qualsiasi non potete non riconoscere in quel pugno di numeri un’istantanea del corridoio che portava alla vostra aula. Di tutte le trame tessute dal visionario scozzese questo è il suo vero capolavoro mutante, perché nulla si adatta meglio all’idea del diverso di una scuola superiore traboccante frenesia e irruenza giovanile.
X-Campus ha una sceneggiatura che funziona come un orologio svizzero, tutto torna e ogni regolina è stata seguita alla perfezione. Proprio come non riesco a ricordare i miei 16 anni (e non che io sia stato un ribelle di quelli HC, sia ben chiaro).
giovedì 17 dicembre 2009
Viaggi nel tempo e premonizioni apocalittiche
Nonostante il periodo un tantinello pieno ieri ho trovato il tempo di andare a vedere il trio Toxic Holocaust + Skeletonwitch + Goatwhore. Recensione: di concerti ne ho visti a tonnellate, ma uno metallaro come quello di ieri sera mai. Giuro.
Persone inguainate nella mitologica combo Reebok bianche+jeans attillati+cartuccera+gilet-in-denim-con-toppa-dei-Venom: 25 su un totale di 50 presenze.
Temi trattati dalle tre band: 4. In ordine di apparizione abbiamo: erba, alcool, satanismo, guerra (sopratutto nell'accezione di olocausto nucleare).
Cantanti ossigenanti muniti di fascia per capelli: 1
Merchandising di cattivo gusto: a vagonate.
Frontman impegnati in mosse da poser: 3 su 3.
Banconi bar in mezzo alla pista: 1. Cosa c'entra questo con tutto il resto? Nulla. Ma vorrei far sapere al proprietario che a marzo il suo locale ospiterà i 5 animali qui sotto.
La miglior live band che possiate trovare. Io me li sono visti in più occasioni (tipo al Neurotic Deathfest 2008 in quel di Tilburg) e ogni volta il mio standard di annichilimento subiva uno scossone verso l'alto. Ecco, in quella serata io il bancone lo sposterei.
martedì 15 dicembre 2009
Giusto in tempo per Natale: Ghosts of Shopping Past by Brian Ulrich
Nuova serie di scatti dal noto fotografo Brian Ulrich, questa volta impegnato a immortalare mall abbandonati. Una desolante (o fiduciosa?) metafora del nostro immediato futuro. Trovate la galleria completa qui.
lunedì 14 dicembre 2009
La dura realtà e il mondo dei sogni. Rough Cut di Jang Hoon (Kor/2008)
L’avvio potrebbe essere una partenza eccellenze per la più tipica delle commedie meta testuali: un vero boss viene scritturato per la parte dell’antagonista malavitoso nel nuovo film della star capricciosa di turno. Roba da vederci bene un DeNiro ormai allo sbando. E invece no, perché fortunatamente questo è il debutto alla regia di Hun Jang, che con Joon Hwan Jang e Nong Jin Na rappresentano il futuro del cinema coreano (non per nulla è uno degli ex allievi prediletti di Kim Ki Duk, che produce anche il film).
Partendo da un’idea quasi banale, il giovane cineasta costruisce ben tre storie, ognuna dotata di una conclusione ben definita e dolorosamente differente. Tutta l’opera si basa su di un semplice presupposto: per quanto tu possa pensare di essere tormentato, per quanto possa essere piacevole crogiolarsi nel fatto che le tue opere siano vere e sentite, aderenti al personaggio irrequieto che ti sei costruito addosso, la realtà sarà sempre molto, molto, molto più dura. E Su-Ta, divo violento e trasgressivo, ci si scontrerà direttamente.
Una rivelazione che determinerà la partenza di una trama interna al film, un bildungsroman in cui l’attore (nel senso di personaggio-attore) maturerà acquistando serietà e dedizione, lasciando in disparte la sua nota superficialità. Tutto con l’obbiettivo di dimostrare al rivale Gang-pae di essere in grado di fronteggiarlo in un vero scontro fisico, lontano dalle coreografie del set. Questo sub plot e quello relativo al meta film culmineranno nello stesso finale. Melodrammatico, riconciliante, gonfio di certa retorica facile e scontata. Il buono vince sul cattivo, tutti gli sforzi vengono ripagati, l’antipatia lascia spazio al rispetto e all’amicizia virile. Peccato che il film vero non sia ancora finito.
La vicenda personale di Gang-pae si distanzia molto dalle due precedenti. Gangster reale, incapace di fare a meno della violenza e di distinguerla dalla finzione. Fattore che porterà a risultati testosteronici quando si tratta di simulare una scazzottata sul set, ma anche a conclusioni molto più sgradevoli nel caso si debba simulare uno stupro. Durante le quasi due ore di Rough Cut il suo personaggio non maturerà, non progredirà. Sarà solamente immerso in un mondo che non può che farti sprofondare sempre più nei suo meandri bui. Nessun tipo di redenzione o di amicizia leale. Solo opportunismo e morti reali. Da qui si arriva al vero finale, speculare a quello interno alla finzione.
Rough Cut è un film complesso e stratificato, nonostante una messa in scena dimessa e minimale. I silenzi sono rotti da estemporanee incursioni nella commedia, cinicamente incluse solo per creare empatia con i personaggi. Inutile dire che gran parte dell’attenzione è messa nella sceneggiatura e nella profondità dei personaggi. Caratteristica questa resa con maestria, gettandoci in pasto a un cast di personaggi a tratti stupidamente stoici nelle loro convinzioni, cosi come umorali e scostanti. Persone vere, alla ricerca della loro reale dimensione interpretando ruoli di finzione all’interno di un film. Prima di scontrarsi con il duro muro costituito dal reale.
domenica 13 dicembre 2009
Nuove strategie di comunicazione: il viral che sembra finto invece è vero
Spero a Cannes faccia razzia di premi!
sabato 12 dicembre 2009
Fuori il dvd di Vengeance!
Finalmente in dvd l'ultimo parto di Giovannino To. Anche se, per dovere di cronaca, devo segnalare che chi ha già visto il film parla di puro mestiere. Poco male, l'ultima volta che mi hanno sconsigliato un' opera del Maestro cantonese si trattava di quella bomba di Sparrow. Il dvd lo potete trovare qui.
Il Passeggero vola a Taiwan
Qui un bel post sul P.A.L.E. da parte dei nostri grandissimi amici Wen ed Enzo, una coppia di graphic designer con base operativa a Taiwan. Che, detto per inciso, assieme a Singapore e Malesia è una delle future capitali di questa disciplina (basta farsi un giro su qualche social network del settore per farsi un'idea). Qui trovate il loro e-shop personale. Tra le tante leccornie anche lo strepitoso urban toy in apertura al post.
venerdì 11 dicembre 2009
Every Time I Die - New Junk Aesthetic (Epitaph/2009)
Detto tra noi... gli Every Time I Die sono diventati grandi. E infatti deludono tutti. Qui la recensione, sotto un paio di video belli cazzari in ricordo dei vecchi tempi.
giovedì 10 dicembre 2009
Politicamente scorretto, socialmente utile (Pt. 2)
Seguito di questo post. Da sbattere in faccia a chi pensa ancora che l'eutanasia (o l'aborto) sia paragonabile a un delitto.
mercoledì 9 dicembre 2009
I brand non sono più quelli di una volta
"Tipologie di un amore fantasma" di Adriano Barone e Mauro Cao
Tipologie di un amore fantasma non è certo un fumetto facile. Ostile, pesante, stipato di roba fino a esplodere. Da questo punto di vista abbiamo un’aderenza perfetta ai temi trattati, non proprio esempi di leggerezza e disimpegno. Eppure Adriano Barone ci deve credere fino in fondo, visto che oltre a mettere il nome in copertina è pure finito per prestare le proprie sembianze al protagonista della storia. Che, tanto per rendere le cose ancora più difficili, di narrativo ha ben poco.
Siamo più dalle parti di un monologo illustrato, un flusso di coscienza che piega a proprio piacimento le regole della meta narrativa. In un mare di riferimenti (anche espliciti) Adriano finisce per parlarci del suo rapporto con l’amore, in maniera a volte spietatamente sincera a volte sottilmente compiaciuta. Come si sarà già capito, non siamo dalle parti della commedia romantica. I rapporti interpersonali vengono indagati con uno sguardo tra il metaforico e il criptico, spesso andandoci a mostrare aspetti di questi che forse era meglio non conoscere.
Attraverso una serie di strumenti ritrovabili solo nel fumetto (colorazione, character design, sovrapposizione tra didascalie e narrazione illustrata) si cerca di fare un ritratto a quello che parrebbe indescrivibile, sopratutto partendo da un linguaggio che ancora soffre di un forte complesso d’inferiorità rispetto a medium più radicati. E proprio qui sta il potenziale maggiore dell’opera: nonostante la contaminazione esplicita con altri media (dalle citazioni ai set) Tipologie procede sfruttando unicamente i mezzi propri del mondo a cui appartiene. Spesso con passaggi perfettamente riusciti, a volte in maniera un po’ farraginosa (anche se questo punto è preso di mira proprio dal narratore interno).
Se dovessi trovare un corrispettivo letterario a questo Tipologie indicherei senza dubbio Il Sopravvissuto di Antonio Scurati. Stesso pessimismo cosmico, stessa apparente impenetrabilità, stessa densità di contenuti (e di citazioni) e stessa vicinanza tra autore e protagonista. Due prove non facili, che si gongolano di questo loro aspetto. Senza valutazioni di sorta, pare di trovarsi agli antipodi di certa quotidianità minimale di scuola Coconino dove tutto sembra sempre facile e romantico (nel senso meno tragico del termine).
Più che un prodotto concluso, l’avvio di un percorso autoriale ancora tutto in divenire.
Siamo più dalle parti di un monologo illustrato, un flusso di coscienza che piega a proprio piacimento le regole della meta narrativa. In un mare di riferimenti (anche espliciti) Adriano finisce per parlarci del suo rapporto con l’amore, in maniera a volte spietatamente sincera a volte sottilmente compiaciuta. Come si sarà già capito, non siamo dalle parti della commedia romantica. I rapporti interpersonali vengono indagati con uno sguardo tra il metaforico e il criptico, spesso andandoci a mostrare aspetti di questi che forse era meglio non conoscere.
Attraverso una serie di strumenti ritrovabili solo nel fumetto (colorazione, character design, sovrapposizione tra didascalie e narrazione illustrata) si cerca di fare un ritratto a quello che parrebbe indescrivibile, sopratutto partendo da un linguaggio che ancora soffre di un forte complesso d’inferiorità rispetto a medium più radicati. E proprio qui sta il potenziale maggiore dell’opera: nonostante la contaminazione esplicita con altri media (dalle citazioni ai set) Tipologie procede sfruttando unicamente i mezzi propri del mondo a cui appartiene. Spesso con passaggi perfettamente riusciti, a volte in maniera un po’ farraginosa (anche se questo punto è preso di mira proprio dal narratore interno).
Se dovessi trovare un corrispettivo letterario a questo Tipologie indicherei senza dubbio Il Sopravvissuto di Antonio Scurati. Stesso pessimismo cosmico, stessa apparente impenetrabilità, stessa densità di contenuti (e di citazioni) e stessa vicinanza tra autore e protagonista. Due prove non facili, che si gongolano di questo loro aspetto. Senza valutazioni di sorta, pare di trovarsi agli antipodi di certa quotidianità minimale di scuola Coconino dove tutto sembra sempre facile e romantico (nel senso meno tragico del termine).
Più che un prodotto concluso, l’avvio di un percorso autoriale ancora tutto in divenire.
martedì 8 dicembre 2009
Film dell'anno: Mother di Bong Joon-ho (Sud Corea/2009)
I want to make the saddest yet most beautiful crime drama ever.
Poco da dire, Bong c'è riuscito.
Mother è la perfezione in campo cinematografico. Sceneggiatura blindata, attori perfetti, regia e fotografia a livello stellare. Ci trovate perfino un paio di colpi di genio nella regolazione dei volumi. Non mi dilungherò molto di più, il capolavoro di Bong Joon-ho va affrontato senza sapere a cosa si va incontro.
Un noir in senso classico, dove il fulcro della vicenda è la lunga scalinata verso il buio più soffocante. Cinema estremo senza mostrare una goccia di sangue (quasi), sesso gratuito o cattiverie da luna park dell’eccesso. Una lezione di cinema e scrittura, la fusione totale tra autorialità e cinema di genere.
Se amate il cinema siete obbligati a recuperarlo, pena l’esclusione da una delle esperienze più straordinarie dell’anno che sta per finire. Allego la trama tratta dalla press release di Cannes e il trailer, fateveli bastare. Evitate ogni tipo di recensione prima della visione.
Widowed for a long time, a mother lives alone with her only son. He is 28 years old, a shy and quiet young man. One day there is a terrible murder, and the woman's hopeless, helpless son becomes the prime suspect. There is no real evidence against him, but the police groundlessly suspect him almost instantly. The trouble is that there is no way he can prove his innocence. Eager to close the case, the police are happy with their cursory investigation and they arrest the boy. His defense attorney turns out to be incompetent and unreliable and a conviction seems inevitable. So, faced with no other choice, his mother gets involved, determined to prove her son's innocence.
lunedì 7 dicembre 2009
Il Natale di Passenger Press
Prima di tutto cliccate qui per il nostro nuovo temporary shop. Il sito ufficiale ci sta mettendo un pò a vedere la luce, lo sappiamo, ma sono cose che succedono quando il tuo web designer è un fattone floridense (scegliere qualcuno di più vicino era troppo facile, che ci volete fare?). Sulla paginetta Big Cartel ci trovate tutte le nostre pubblicazioni, così non avete più scuse e per un anno potete fare regali veramente fighi.
La Passenger non riserva doni e balocchi solo a voi, li porta pure a me. Il mio regalo è un documento di testo che mi sono ritrovato stamattina nella casella mail. Una sceneggiatura inedita di Pang Ho Cheung, uno dei registi che sta realmente cambiando il corso del cinema e che pare destinato a diventare uno dei grandissimi di quest'arte. Se non fosse per la Passenger Press (un suo fumetto è compreso tra le pagine del Passenger Mag N.2) e per la qualità dei suoi prodotti dubito che sarei arrivato a stringere un rapporto così stretto con un nome di tale levatura. Dopotutto stiamo parlando di uno dei miei registi preferiti in assoluto.
Per la cronaca, la storia è un folle guazzabuglio ambientato nella Cina degli anni '30. Totalmente e inequivocabilmente anti cinese. Un sollazzo, mi spiace per voi che non la leggerete mai.
Per completare l'atmosfera ora manca solo un pò si sottofondo musicale. Cliccate qui e scaricatevi il disco natalizio definitivo.
La Passenger non riserva doni e balocchi solo a voi, li porta pure a me. Il mio regalo è un documento di testo che mi sono ritrovato stamattina nella casella mail. Una sceneggiatura inedita di Pang Ho Cheung, uno dei registi che sta realmente cambiando il corso del cinema e che pare destinato a diventare uno dei grandissimi di quest'arte. Se non fosse per la Passenger Press (un suo fumetto è compreso tra le pagine del Passenger Mag N.2) e per la qualità dei suoi prodotti dubito che sarei arrivato a stringere un rapporto così stretto con un nome di tale levatura. Dopotutto stiamo parlando di uno dei miei registi preferiti in assoluto.
Per la cronaca, la storia è un folle guazzabuglio ambientato nella Cina degli anni '30. Totalmente e inequivocabilmente anti cinese. Un sollazzo, mi spiace per voi che non la leggerete mai.
Per completare l'atmosfera ora manca solo un pò si sottofondo musicale. Cliccate qui e scaricatevi il disco natalizio definitivo.
giovedì 3 dicembre 2009
The House of the Devil di Ti West (US/2009): ciao ciao horror, benvenuto...
Per l’appassionato di cinema horror (occidentale) gli anni ’80 rappresentano qualcosa di speciale. Ultima decade prima del decadimento e dell’ atrofizzazione coatta, ultimo sprazzo di una presunta età dell’oro che pare essersi conclusa per sempre. Lo stesso Ti West sembra conoscere bene questa fetta di storia moderna, trasferendone il carattere vitale e inquieto alla protagonista del suo The House of the Devil. Un excursus stilistico esorbitante, dove lo studio maniacale per l’estetica del cinema di genere di quegli anni sorpassa di gran lunga tutti gli esperimenti proposti fino a ora. La mimesi totale si realizza evitando citazioni, facilonerie ed esagerazioni pateticamente divertenti. Il giovane cineasta statunitense realizza in questo senso un’opera monumentale, andando controcorrente e scansando ogni sorta di attualizzazione. Il ritmo è lento, tutta l’azione è tenuta per il gran finale e le protagoniste non paiono essere strappate da un catalogo di intimo. The House of the Devil è il cinema horror anni ’80. E infatti la sua protagonista finisce per essere tenuta in vita a forza su di un letto d’ospedale. Notate qualche parallelismo?
Anche se la lettura di West appare semplicistica e relativa esclusivamente al cinema occidentale, non possiamo che dargli ragione. Pur allargando il nostro sguardo all’intera proposta mondiale l’ultimo botto “vero” di questo genere lo abbiamo con l’esplosione nipponica della seconda metà degli anni ’90. In qualunque caso oggi il Nostro non pare stare benissimo. Va bene, nel frattempo ci sono state le new waves coreane e tailandesi. Ma, a parte alcuni esempi eccellenti, quanto si discostano dal modello avviato da The Ring e portato alla perfezione con Dark Water? Delle proposte francesi poi non vale neppure la pena parlare, visto il tasso di furti e saccheggi che si portano dietro.
A questo desolante punto, cosa possiamo fare per poter risollevare le sorti del genere metaforico per eccellenza? Qual è la via per poterlo attualizzare, spazzando in solo colpo nostalgia e terrore di fantomatiche cessioni a un gusto corrente troppo facile? Ci possiamo pensare quanto vogliamo, tanto qualcuno ha già risolto il problema. Si chiama Park Chan Wook e ha pensato bene di staccargli la spina.
Siamo in pieno boom vampirico. Anzi, il mercato ha già ampiamente superato la soglia della saturazione. Regge solamente grazie al ritardo culturale di un’ampia fetta di consumatori (mi piange il cuore ammettere una cosa simile, ma è dolorosamente vero). Uno dei maestri riconosciuti del cinema moderno decide di buttarsi nella mischia. Esce Thirst, ed è qualcosa che non si avvicina a nulla di già visto.
Ma non era già stato detto tutto sui vampiri?
L’uovo di Colombo sta nell’abbattere i generi, che non equivale a miscelarli tra loro. Mettere prima il segmento action, poi quello horror e poi quello divertente significa girare un action/horror/comedy. Nulla di nuovo. Le etichette rimangono, non si annullano per addizione. Possibile che in tutti questi anni nessuno si è mai domandato se l’offerta di horror scadente derivi dal fatto che l’horror stesso non ha più nulla da dire? Se ci pensate bene questa riflessione è riconducibile a tutti i generi, a esclusione dell’action puro (che per la sua natura esclusivamente linguistica merita un altro tipo di ragionamento).
Questo significa che dobbiamo accontentarci di quello che c’è già e rassegnarci a un domani fatto di remake e reboot? No, basta guardarsi in giro. Il livello di contaminazione e la facilità con cui accediamo a informazioni di ogni genere hanno frammentato il mercato in una tale misura che spesso pare cadere nel parossismo. Mai come in questo momento ognuno fa quello che più gli pare. Non è un caso se gli unici negozi a non essere in crisi sono i cosiddetti concept store. Non più generi di mercato, ma concetti e idee. Entro in uno di questi esercizi e ne esco con una tshirt dello stilista svedese, un libro fotografico di uno sconosciuto taiwanese e un disco di elettronica minimale berlinese. Fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile. Ora sta succedendo la stessa cosa nel cinema. Quella di Park Chan Wook è solo la voce più potente. Ripensando al boom del jhorror non posso che non pensare al capolavoro Pulse. Indefinibile e incompreso. E infatti arrivato a ondata conclusa.
Ti West se ne è reso conto e ha filmato un amaro epitaffio per il suo genere preferito. Ora la palla passa al pubblico, che non si deve più accontentare del multisala sotto casa. Una cosa ho imparato appassionandomi al cinema asiatico e/o indipendente: c’è sempre qualcuno un passo avanti agli altri. Da qualche parte nel mondo si sta filmando/scrivendo/producendo qualcosa di nuovo. Basta avere un accesso a Internet e tutto è a portata di qualche ora di navigazione. Come disse Giddens il non sapere è la colpa più grave del nostro secolo. Semplicemente perché dipende tutto da noi, dalla nostra voglia di andare al di la della pigrizia.
Smettiamo di tenere in vita un vegetale e stacchiamogli la spina. Sono i nostri tempi che ce lo chiedono.
Anche se la lettura di West appare semplicistica e relativa esclusivamente al cinema occidentale, non possiamo che dargli ragione. Pur allargando il nostro sguardo all’intera proposta mondiale l’ultimo botto “vero” di questo genere lo abbiamo con l’esplosione nipponica della seconda metà degli anni ’90. In qualunque caso oggi il Nostro non pare stare benissimo. Va bene, nel frattempo ci sono state le new waves coreane e tailandesi. Ma, a parte alcuni esempi eccellenti, quanto si discostano dal modello avviato da The Ring e portato alla perfezione con Dark Water? Delle proposte francesi poi non vale neppure la pena parlare, visto il tasso di furti e saccheggi che si portano dietro.
A questo desolante punto, cosa possiamo fare per poter risollevare le sorti del genere metaforico per eccellenza? Qual è la via per poterlo attualizzare, spazzando in solo colpo nostalgia e terrore di fantomatiche cessioni a un gusto corrente troppo facile? Ci possiamo pensare quanto vogliamo, tanto qualcuno ha già risolto il problema. Si chiama Park Chan Wook e ha pensato bene di staccargli la spina.
Siamo in pieno boom vampirico. Anzi, il mercato ha già ampiamente superato la soglia della saturazione. Regge solamente grazie al ritardo culturale di un’ampia fetta di consumatori (mi piange il cuore ammettere una cosa simile, ma è dolorosamente vero). Uno dei maestri riconosciuti del cinema moderno decide di buttarsi nella mischia. Esce Thirst, ed è qualcosa che non si avvicina a nulla di già visto.
Ma non era già stato detto tutto sui vampiri?
L’uovo di Colombo sta nell’abbattere i generi, che non equivale a miscelarli tra loro. Mettere prima il segmento action, poi quello horror e poi quello divertente significa girare un action/horror/comedy. Nulla di nuovo. Le etichette rimangono, non si annullano per addizione. Possibile che in tutti questi anni nessuno si è mai domandato se l’offerta di horror scadente derivi dal fatto che l’horror stesso non ha più nulla da dire? Se ci pensate bene questa riflessione è riconducibile a tutti i generi, a esclusione dell’action puro (che per la sua natura esclusivamente linguistica merita un altro tipo di ragionamento).
Questo significa che dobbiamo accontentarci di quello che c’è già e rassegnarci a un domani fatto di remake e reboot? No, basta guardarsi in giro. Il livello di contaminazione e la facilità con cui accediamo a informazioni di ogni genere hanno frammentato il mercato in una tale misura che spesso pare cadere nel parossismo. Mai come in questo momento ognuno fa quello che più gli pare. Non è un caso se gli unici negozi a non essere in crisi sono i cosiddetti concept store. Non più generi di mercato, ma concetti e idee. Entro in uno di questi esercizi e ne esco con una tshirt dello stilista svedese, un libro fotografico di uno sconosciuto taiwanese e un disco di elettronica minimale berlinese. Fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile. Ora sta succedendo la stessa cosa nel cinema. Quella di Park Chan Wook è solo la voce più potente. Ripensando al boom del jhorror non posso che non pensare al capolavoro Pulse. Indefinibile e incompreso. E infatti arrivato a ondata conclusa.
Ti West se ne è reso conto e ha filmato un amaro epitaffio per il suo genere preferito. Ora la palla passa al pubblico, che non si deve più accontentare del multisala sotto casa. Una cosa ho imparato appassionandomi al cinema asiatico e/o indipendente: c’è sempre qualcuno un passo avanti agli altri. Da qualche parte nel mondo si sta filmando/scrivendo/producendo qualcosa di nuovo. Basta avere un accesso a Internet e tutto è a portata di qualche ora di navigazione. Come disse Giddens il non sapere è la colpa più grave del nostro secolo. Semplicemente perché dipende tutto da noi, dalla nostra voglia di andare al di la della pigrizia.
Smettiamo di tenere in vita un vegetale e stacchiamogli la spina. Sono i nostri tempi che ce lo chiedono.
mercoledì 2 dicembre 2009
House of the Devil: se non ti uccide dubito ti possa rendere più forte
Se qualcosa doveva morire 20/25 anni fa che senso ha tenerla ancora in vita in stato semicatatonico (nessuna provocazione morale, se avete il film capite a cosa mi riferisco)? Nei prossimi giorni il post completo, che merita qualcosa di più di un paio di righe. Nel frattenpo incominciate a leggere questo.
martedì 1 dicembre 2009
Aggiornamento musicale: White Eyes + Keelhaul
Assieme agli Atka (che però rimangono irraggiungibili) e ai Dr. Doom il futuro del grind. Inferiore al debutto (3/4 minuti di puro terrorismo sonoro, stampato in 200 copie per la Baskat Records) ma comunque ottimo. Qui la recensione.
Cosa succede quando una band ha preso l'abitudine di sfornare dischi a cinque stelle? Piscia fuori dal vaso. Qui la rece.
lunedì 30 novembre 2009
Ridere di (cattivo) gusto: Con tanta benzina in vena di Warren Ellis (Elliot/2009)
Se c’è qualcuno nel mondo del fumetto che merita l’appellativo di furbone quello è Warren Ellis. Genio e cialtrone, iperproduttivo e amante del riciclo, indipendente fino a quando non firma il contratto per qualche major. Capace di (tanti) picchi inimitabili così come di plagi senza pudore (tipo l’episodio di Hellblazer scritto ricalcando il film Man Behind The Sun). Uno di cui aspetti la prossima uscita con l’acquolina alla bocca ma poi finisci per maledirne la grafomania. Come si è detto, un genio. E Con tanta benzina in vena non fa che riconfermarlo.
Un incrocio tra noir, road movie e commedia senza freni. Con un protagonista che non è affatto come ti aspetti. Quando ci si avvicina a un romanzo dove gli eccessi della società ci vengono narrati da un autore noto per la sua poetica estrema e amorale, è naturale aspettarsi personaggi sopra le righe, persi nei meandri della vita (se non totalmente alla deriva). Invece Mike McGill è semplicemente un fallito che finirà per averne le tasche piene ben prima dell’ultima pagina. Un investigatore privato dalla carriera mai decollata, incapace di vivere alla velocità del mondo. Uno che non sopporta la pornografia troppo spinta, non maneggia il suo cellulare come una protesi del proprio corpo e non fa finta di capire tutto quello a cui va incontro. Considerando lo psicopatico disturbato a cui solitamente Warren Ellis si affida siamo già un bel passo avanti. La sua relazione con la selvaggia Trix Holmes ha la freschezza del miglior Kevin Smith. Nessuna traccia di amori malati, sottomissioni o giochetti psicologici. Semplicemente battibecchi da adolescenti in calore.
E qui abbiamo il secondo punto forte del romanzo. Non credete a chi vi parla di immagini forti o di una storia dura e cruda, Con tanta benzina in vena è un libro genuinamente divertente. La prosa del Nostro non gli farà vincere un premio Pulitzer, ma finirete di leggere il suo lavoro prima di aver capito cosa è successo in un capitolo degli ultimi Cormac McCarthy. Breve, veloce, brillante. Sembrerebbe la classica proposta disimpegnata. E invece dentro ci troverete una serie di riflessioni per nulla scontate su argomenti attualissimi. La diffusione delle informazioni via Internet, la possibilità di scegliersi la propria concezione di moralità, la nuova democrazia. Argomenti solitamente riservati ai tomi di luminari come Bauman o Giddens, qui trattati con apparente leggerezza. Warren Ellis si conferma doppiamente intelligente non scendendo direttamente in campo, narrandoci una serie di incontri quantomeno bizzarri senza il minimo paternalismo o tendenza talebana. Scelta di una classe infinita, capace di confermarci la caratura di uno scrittore che non ha mai preteso di insegnare nulla a nessuno. Ma che non si è mai tirato in dietro quando si è trattato di dare ai suoi lettori gli strumenti necessari per decodificare i nostri tempi.
Una gran, gran lettura. Molto più autoriale di tanta roba che pretende di esserlo basandosi unicamente sul peso specifico del proprio linguaggio.
Un incrocio tra noir, road movie e commedia senza freni. Con un protagonista che non è affatto come ti aspetti. Quando ci si avvicina a un romanzo dove gli eccessi della società ci vengono narrati da un autore noto per la sua poetica estrema e amorale, è naturale aspettarsi personaggi sopra le righe, persi nei meandri della vita (se non totalmente alla deriva). Invece Mike McGill è semplicemente un fallito che finirà per averne le tasche piene ben prima dell’ultima pagina. Un investigatore privato dalla carriera mai decollata, incapace di vivere alla velocità del mondo. Uno che non sopporta la pornografia troppo spinta, non maneggia il suo cellulare come una protesi del proprio corpo e non fa finta di capire tutto quello a cui va incontro. Considerando lo psicopatico disturbato a cui solitamente Warren Ellis si affida siamo già un bel passo avanti. La sua relazione con la selvaggia Trix Holmes ha la freschezza del miglior Kevin Smith. Nessuna traccia di amori malati, sottomissioni o giochetti psicologici. Semplicemente battibecchi da adolescenti in calore.
E qui abbiamo il secondo punto forte del romanzo. Non credete a chi vi parla di immagini forti o di una storia dura e cruda, Con tanta benzina in vena è un libro genuinamente divertente. La prosa del Nostro non gli farà vincere un premio Pulitzer, ma finirete di leggere il suo lavoro prima di aver capito cosa è successo in un capitolo degli ultimi Cormac McCarthy. Breve, veloce, brillante. Sembrerebbe la classica proposta disimpegnata. E invece dentro ci troverete una serie di riflessioni per nulla scontate su argomenti attualissimi. La diffusione delle informazioni via Internet, la possibilità di scegliersi la propria concezione di moralità, la nuova democrazia. Argomenti solitamente riservati ai tomi di luminari come Bauman o Giddens, qui trattati con apparente leggerezza. Warren Ellis si conferma doppiamente intelligente non scendendo direttamente in campo, narrandoci una serie di incontri quantomeno bizzarri senza il minimo paternalismo o tendenza talebana. Scelta di una classe infinita, capace di confermarci la caratura di uno scrittore che non ha mai preteso di insegnare nulla a nessuno. Ma che non si è mai tirato in dietro quando si è trattato di dare ai suoi lettori gli strumenti necessari per decodificare i nostri tempi.
Una gran, gran lettura. Molto più autoriale di tanta roba che pretende di esserlo basandosi unicamente sul peso specifico del proprio linguaggio.
venerdì 27 novembre 2009
Kill: Kodomo Zamurai di Kenta Fukasaku (Jap/2008)
Kenta Fukasaku è l’antitesi di tutta quella pletora di splatter nippostatunitensi che stanno invadendo il mercato occidentale. Tanto quelli sono fintamente pericolosi, nascondendo la loro sterilità dietro un mare di emoglobina gratuito e inoffensivo, tanto ogni lavoro di Kenta (a esclusione di Under the Same Moon) si dimostra una bomba a orologeria mimetizzata da caramella gommosa. Da il via alla sua carriera parlando della società, nascondendo la metafora prima in una delle migliori (anche se finta) trasposizioni videoludiche di sempre (Battle Royale 2) poi in una riproposizione idolcentrica del classico filone nipponico delle scolarette combattenti (Yo Yo Girl Cop). In un secondo tempo, con XX, decide di esplorare i generi, raccontando una vicenda rosa dalle tinte adolescenziali attraverso il linguaggio dell’incubo rurale. Il risultato è una pellicola come mai si era vista prima, dove i toni romantici non sono inframmezzati da segmenti horror (o viceversa) ma fusi nel loro dna profondo. Peccato che a tutta questa irruenza teorica spesso il figlio del Maestro non riesca ad affiancare una competenza tecnica equivalente, andando puntualmente a macchiare le sue opere con facilonerie e cadute di tono (soprattutto quando si parla di ritmo). E con Kodomo Zamurai, secondo episodio dell’antologia Kill (supervisionata da Mamoru Oshii) torna nuovamente sui suoi errori. La solita tonnellata di idee caustiche e dolorosamente divertenti ficcate in un involucro cazzone: ragazzini che combattono il bullismo con katane. Se si è capaci di leggere tra le righe non è difficile percepire il livore che Fukasaku (metto il cognome perché valeva anche per il padre) matura nei confronti della società nipponica. Qui si parla di bambini schiacciati da grosse responsabilità, adulti assenti e di immaginari totalizzanti. Insomma, un bel mucchio di idee e riflessioni schiacciate all’interno di un cortometraggio che a una visione superficiale potrebbe sembrare solo una sciocchezzuola leggera, dove i bambini si aprono il ventre a vicenda con lame affilate come rasoi. Come tutto il resto della sua filmografia anche Kill è un paradosso: troppa pancia nel mettere su pellicola intuizioni da sociologo trattate con linguaggio da teen ager. Pare che la furia iconoclasta del Nostro sia talmente incontenibile da sabotare il suo stesso lavoro. Anche se gli interrogativi a cui ci mette di fronte sono enormi e di una profondità non indifferente, l’impressione è sempre quella di un esercizio di stile futile e privo di peso specifico. In questo modo allontana sempre di più la sua consacrazione a regista di primo livello, andando a compiere un miracolo di mimetizzazione all’interno del magazzino di significati da lui sondato incessantemente. In altre parole: è più pericolosa una bomba con stampato sopra un teschio minaccioso o una mina a forma di giocattolo?
giovedì 26 novembre 2009
[idee che mi frullano in testa e li rimarranno] 2D videogame mockup
Una delle idee che mi frulla in testa da più tempo è un bel gigalibrone sull'arte videoludica in 2D. Sarebbe un sogno commissionare a un tot di artisti della pixel art un finto livello di uno sparatutto/picchiaduro a scorrimento di loro creazione. Il risultato sarebbero una serie di illustrazioni stampate su pagine pieghevoli a 8 ante (almeno) raccolte in una bella copertina rigida plasticosa. Magari ci si aggiungono qualche pagina della stessa dimensione riempite fitte fitte di personaggi, veicoli e terribili boss di fine livello. In qualsiasi caso il tutto risulterebbe troppo costoso per le mie povere tasche, quindi l'idea di questa uscita rimarrà tale. Una conclusione che non mi vieta comunque di studiare una line up ideale per il volume. Primo nome da contattare il grande Jalonso di Bugpixel, seguito a ruota da Gary J Lucken (come credenziale beccatevi la lista di cover fatte per Edge Magazine). E tra tutti questi esperti di mondi intangibili ci ficcherei, a sopresa, Jon Haddock. Tanto per vedere a che punto siamo con la confusione realtà/finzione.
martedì 24 novembre 2009
Emigre No. 70: la fine dell'inizio
Direttamente dal volume:
"In an underground you don't have the notion of success or failure, you just have the notion of making something. And that's what saves you. It's not how professional it looks. It's because you are doing what you are doing because you belive in it".
"Vignelli, a design institution, has made up his mind and minces no words: Emigre is a national calamity. An aberration of culture".
"The USPS observes that it's an awfully strange creation to be called a magazine. I'm flattered by the compliment".
Emigre nasce nel garage di un giovane designer a metà degli anni '80. E' la prima rivista della storia a dedicare pagine e pagine a saggi su come un'impaginazione possa suggerire idee politiche. Ci trovi analisi critiche sull'arte di disegnare font, lunghissime interviste ai designer più d'avanguardia. Emigre cambia logo, layout e font a ogni uscita. Allega cd e dvd a titolo gratuito, fa di tutto per non piacere ai suoi stessi lettori. Poi li riconquista dedicandogli un intero numero, costituito unicamente da foto di tutte le pubblicazioni indipendenti ricevute in redazione. Rimescola le carte in tavola come nessuno aveva ancora fatto. Per 63 numeri (su 70 totali) viene finanziata con la vendita di font sviluppati dagli stessi Rudy Vanderlans e da sua moglie. Poi il declino e la chiusura per fallimento. Dopo 20 anni passati a fare da spina nel fianco ai cosidetti professionisti di settore.
A distanza di 4 anni dalla chiusura la grande Gingko Press da finalmente alle stampe il numero 70. Un tomo di 512 pagine battezzato The Look Back Issue, contenente intere sezioni di tutti i 69 precedenti. Porzioni riportate rispettando maniacalmente impaginazione e scelta dei caratteri. Una maratona nella comunicazione degli ultimi 25 anni.
Ora stiamo tutti a sbrodolare su questa nuova uscita. Sulla sua copertina rigida, sul cd allegato, sul minilibricino nascosto in una tasca interna (dove troviamo una selezione delle migliori lettere indirizzate al fondatore). Ma all'epoca Emigre era una fanzina. Troppo storta, strana e fuori dai canoni per essere considerata un vero magazine. Peccato che molti dei volumi pubblicati nel 2009 possano essere tranquillamente essere confusi con le sue uscite di metà anni '90.
"In an underground you don't have the notion of success or failure, you just have the notion of making something. And that's what saves you. It's not how professional it looks. It's because you are doing what you are doing because you belive in it".
"Vignelli, a design institution, has made up his mind and minces no words: Emigre is a national calamity. An aberration of culture".
"The USPS observes that it's an awfully strange creation to be called a magazine. I'm flattered by the compliment".
Emigre nasce nel garage di un giovane designer a metà degli anni '80. E' la prima rivista della storia a dedicare pagine e pagine a saggi su come un'impaginazione possa suggerire idee politiche. Ci trovi analisi critiche sull'arte di disegnare font, lunghissime interviste ai designer più d'avanguardia. Emigre cambia logo, layout e font a ogni uscita. Allega cd e dvd a titolo gratuito, fa di tutto per non piacere ai suoi stessi lettori. Poi li riconquista dedicandogli un intero numero, costituito unicamente da foto di tutte le pubblicazioni indipendenti ricevute in redazione. Rimescola le carte in tavola come nessuno aveva ancora fatto. Per 63 numeri (su 70 totali) viene finanziata con la vendita di font sviluppati dagli stessi Rudy Vanderlans e da sua moglie. Poi il declino e la chiusura per fallimento. Dopo 20 anni passati a fare da spina nel fianco ai cosidetti professionisti di settore.
A distanza di 4 anni dalla chiusura la grande Gingko Press da finalmente alle stampe il numero 70. Un tomo di 512 pagine battezzato The Look Back Issue, contenente intere sezioni di tutti i 69 precedenti. Porzioni riportate rispettando maniacalmente impaginazione e scelta dei caratteri. Una maratona nella comunicazione degli ultimi 25 anni.
Ora stiamo tutti a sbrodolare su questa nuova uscita. Sulla sua copertina rigida, sul cd allegato, sul minilibricino nascosto in una tasca interna (dove troviamo una selezione delle migliori lettere indirizzate al fondatore). Ma all'epoca Emigre era una fanzina. Troppo storta, strana e fuori dai canoni per essere considerata un vero magazine. Peccato che molti dei volumi pubblicati nel 2009 possano essere tranquillamente essere confusi con le sue uscite di metà anni '90.
sabato 21 novembre 2009
Le classificone di fine anno: parte Decibel Magazine
Ecco la prima classifica di fine anno, compilata dall'autorevole Decibel Magazine:
1. Baroness-The Blue Record
2. Converge-Axe To Fall
3. Coalesce- Ox
4. Napalm Death-Time Waits No Slave
5. Cobalt-Gin
6. Kylesa-Static Tensions
7. Slayer-World Painted Blood
8. Tombs-Winter Hours
9. Marduk-Wormwood
10. Isis-Wavering Radiant
11. Immortal-All Shall Fall
12. Agoraphobic Nosebleed-Agorapocalypse
13. Obscura-Cosmogenesis
14. Magrudergrind-S/T
15. Nile-Those Whom The Gods Detest
16. YOB- The Great Cessation
17. Mastodon-Crack The Skye
18. Paradise Lost-Fath Divides Us,Death Unites Us
19. The Atlas Moth-A Glorified Piece Of Blue Sky
20. Asphyx-Death...The Brutal Way
21. Altar Of Plauges-White Tomb
22. Mournful Congregation-The June Frost
23. Funeral Mist-Maranatha
24. The Gates Of Slumber-Hymns Of Blood And Thunder
25. Burnt By The Sun-Heart Of Darkness
26. City Of Ships-Look What God Did To Us
27. Goatwhore-Carving Out The Eyes Of God
28. Gaza-He Is Never Coming Back
29. Katatonia-Night Is The New Day
30. Keelhaul-Keelhaul's Triumphannt Return To Obscurity
31. The Red Chord-Fed Through The Teeth Machine
32. Brutal Truth-Evolution Through Revolution
33. Krallice-Dimensional Bleedthrough
34. Culted-Below The Thunders Of The Upper Deep
35. Goes Cube-Another Day Has Passed
36. Suffocation-Blood Oath
37. Javelina-Beasts Among Sheep
38. Municipal Waste-Massive Aggressor
39. Millions-Gather Scatter
40. Funebrarum-The Sleep Of Morbid Dreams
Pareri personali (per quanto riguarda i miei generi): Baroness ottimi ma troppo in alto, Coalesce e Converge da invertire, Mastodon sottovalutati da paura, black metal ormai trendy, sorpresona Kylesa, fuori i Keelhaul (delusione) dentro i Cable, ottima la presenza dei Goes Cube, dei Gaza non sapevo neppure fosse uscito il disco nuovo e i Between the Buried and Me passati rapidamente da nuovi messia a band inutile. Nessuna traccia di deathcore.
1. Baroness-The Blue Record
2. Converge-Axe To Fall
3. Coalesce- Ox
4. Napalm Death-Time Waits No Slave
5. Cobalt-Gin
6. Kylesa-Static Tensions
7. Slayer-World Painted Blood
8. Tombs-Winter Hours
9. Marduk-Wormwood
10. Isis-Wavering Radiant
11. Immortal-All Shall Fall
12. Agoraphobic Nosebleed-Agorapocalypse
13. Obscura-Cosmogenesis
14. Magrudergrind-S/T
15. Nile-Those Whom The Gods Detest
16. YOB- The Great Cessation
17. Mastodon-Crack The Skye
18. Paradise Lost-Fath Divides Us,Death Unites Us
19. The Atlas Moth-A Glorified Piece Of Blue Sky
20. Asphyx-Death...The Brutal Way
21. Altar Of Plauges-White Tomb
22. Mournful Congregation-The June Frost
23. Funeral Mist-Maranatha
24. The Gates Of Slumber-Hymns Of Blood And Thunder
25. Burnt By The Sun-Heart Of Darkness
26. City Of Ships-Look What God Did To Us
27. Goatwhore-Carving Out The Eyes Of God
28. Gaza-He Is Never Coming Back
29. Katatonia-Night Is The New Day
30. Keelhaul-Keelhaul's Triumphannt Return To Obscurity
31. The Red Chord-Fed Through The Teeth Machine
32. Brutal Truth-Evolution Through Revolution
33. Krallice-Dimensional Bleedthrough
34. Culted-Below The Thunders Of The Upper Deep
35. Goes Cube-Another Day Has Passed
36. Suffocation-Blood Oath
37. Javelina-Beasts Among Sheep
38. Municipal Waste-Massive Aggressor
39. Millions-Gather Scatter
40. Funebrarum-The Sleep Of Morbid Dreams
Pareri personali (per quanto riguarda i miei generi): Baroness ottimi ma troppo in alto, Coalesce e Converge da invertire, Mastodon sottovalutati da paura, black metal ormai trendy, sorpresona Kylesa, fuori i Keelhaul (delusione) dentro i Cable, ottima la presenza dei Goes Cube, dei Gaza non sapevo neppure fosse uscito il disco nuovo e i Between the Buried and Me passati rapidamente da nuovi messia a band inutile. Nessuna traccia di deathcore.
giovedì 19 novembre 2009
Ma in questo film non succede niente! Nymph di Pen-Ek Ratanaruang (Tha/2009)
Al posto della locandina una foto della protagonista. Penso non ci rimanga male nessuno.
Tanto per fare chiarezza: Nymph è un film dove non succede nulla. Quello che vedrete nei suoi 100 minuti un qualsiasi altro regista lo avrebbe compresso nei primi 5, tanto per procurarsi uno spunto stimolante su cui imbastire il resto della vicenda. La trama è riassumibile più o meno così: una coppia in crisi va a fare delle foto in una giungla, lui trova un albero misterioso, sparisce, ricompare più affettuoso di prima, sparisce nuovamente. Fine. La ninfa del titolo compare per tre micro sequenze di pochi secondi l’una, ma quando arrivano si incomincia a capire qualcosa del vero valore dell’opera.
Tanto per cominciare il regista si chiama Pen-Ek Ratanaruang, l’uomo dietro a quella perla di Last Life in the Universe. Noir contemplativo dal cast stellare (Tadanobu Asano, Takashi Miike, quelle gran fighe delle sorelle Boonyasak), elegantissimo nei movimenti di macchina così come nella fotografia (a opera di Christopher “CV che mette imbarazzo” Doyle) e nella sceneggiatura (contiene il colpo di scena meno urlato della storia, una chiave di volta per la vicenda che molta gente non coglierà neppure). Nymph non è certo all’altezza di questa uscita, ma le sue pretese di horror esistenzialista dal forte tasso artistico riescono comunque ad affascinare come non ci si aspetterebbe. In primis per l’estrema cura con cui è girato. Il piano sequenza che apre il lungometraggio, camera a mano che diventa dolly che diventa gru, potrebbe essere visto come noioso (e in effetti la sua natura di virtuosismo è schiacciata e tenuta nascosta il più possibile) ma rappresenta una delle migliori prospettive spiritiche dai tempi del primo Raimi. In secondo luogo per il ritmo con cui avanza la vicenda. Le inquadrature indugiano su particolari apparentemente insignificanti e i tempi sono dilatati all’inverosimile (anche nei dialoghi) con una tale precisione che è impossibile non pensare che il film sia stato concepito già in fase di preproduzione in tale modo. Un immobilismo che trova la sua spiegazione proprio nel nodo centrale della sceneggiatura. Dopotutto il punto di svolta lo si ha quando il protagonista trova un albero secolare, non esattamente un simbolo di dinamismo e velocità.
Nymph è un po’ una risposta thai all’Anticristo di Von Trier. Stesso piglio da video arte e un po’ troppa consapevolezza autoriale. La grossa differenza la fanno la delicatezza con cui Pen-Ek Ratanaruang tratta sentimenti e rapporti umani, uno dei punti fissi del suo cinema rarefatto. L’elemento sovrannaturale si confonde con gli scherzi della psiche. Di certo rimangono solo gli affetti da sanare.
Tanto per fare chiarezza: Nymph è un film dove non succede nulla. Quello che vedrete nei suoi 100 minuti un qualsiasi altro regista lo avrebbe compresso nei primi 5, tanto per procurarsi uno spunto stimolante su cui imbastire il resto della vicenda. La trama è riassumibile più o meno così: una coppia in crisi va a fare delle foto in una giungla, lui trova un albero misterioso, sparisce, ricompare più affettuoso di prima, sparisce nuovamente. Fine. La ninfa del titolo compare per tre micro sequenze di pochi secondi l’una, ma quando arrivano si incomincia a capire qualcosa del vero valore dell’opera.
Tanto per cominciare il regista si chiama Pen-Ek Ratanaruang, l’uomo dietro a quella perla di Last Life in the Universe. Noir contemplativo dal cast stellare (Tadanobu Asano, Takashi Miike, quelle gran fighe delle sorelle Boonyasak), elegantissimo nei movimenti di macchina così come nella fotografia (a opera di Christopher “CV che mette imbarazzo” Doyle) e nella sceneggiatura (contiene il colpo di scena meno urlato della storia, una chiave di volta per la vicenda che molta gente non coglierà neppure). Nymph non è certo all’altezza di questa uscita, ma le sue pretese di horror esistenzialista dal forte tasso artistico riescono comunque ad affascinare come non ci si aspetterebbe. In primis per l’estrema cura con cui è girato. Il piano sequenza che apre il lungometraggio, camera a mano che diventa dolly che diventa gru, potrebbe essere visto come noioso (e in effetti la sua natura di virtuosismo è schiacciata e tenuta nascosta il più possibile) ma rappresenta una delle migliori prospettive spiritiche dai tempi del primo Raimi. In secondo luogo per il ritmo con cui avanza la vicenda. Le inquadrature indugiano su particolari apparentemente insignificanti e i tempi sono dilatati all’inverosimile (anche nei dialoghi) con una tale precisione che è impossibile non pensare che il film sia stato concepito già in fase di preproduzione in tale modo. Un immobilismo che trova la sua spiegazione proprio nel nodo centrale della sceneggiatura. Dopotutto il punto di svolta lo si ha quando il protagonista trova un albero secolare, non esattamente un simbolo di dinamismo e velocità.
Nymph è un po’ una risposta thai all’Anticristo di Von Trier. Stesso piglio da video arte e un po’ troppa consapevolezza autoriale. La grossa differenza la fanno la delicatezza con cui Pen-Ek Ratanaruang tratta sentimenti e rapporti umani, uno dei punti fissi del suo cinema rarefatto. L’elemento sovrannaturale si confonde con gli scherzi della psiche. Di certo rimangono solo gli affetti da sanare.
mercoledì 18 novembre 2009
23 marzo 2010: fuori il nuovo Dillinger Escape Plan
Il video sopra è vecchio ma fa sempre figo. Qui invece il teaser site (con sample inediti) del prossimo lavoro della band più avanti dell'universo. La prima a fare un album solo per iTune (quello con la cover di Justin Timberlake rifatta identica), a sfruttare Mike Patton per suonare un pezzo di Aphex Twin, a dire di no alla Sony per gestirsi da soli (dalla stampa delle magliette al prezzo dei biglietti per gli show), a suonare mathgrindcore in una galleria d'arte, a mettere un singolo in falsetto in un disco che ti spacca il cervello e tante altre cose fighe.
Sotto un altro pezzo del puzzle abbandonato per Youtube...
Sotto un altro pezzo del puzzle abbandonato per Youtube...
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