Al posto della locandina una foto della protagonista. Penso non ci rimanga male nessuno.
Tanto per fare chiarezza: Nymph è un film dove non succede nulla. Quello che vedrete nei suoi 100 minuti un qualsiasi altro regista lo avrebbe compresso nei primi 5, tanto per procurarsi uno spunto stimolante su cui imbastire il resto della vicenda. La trama è riassumibile più o meno così: una coppia in crisi va a fare delle foto in una giungla, lui trova un albero misterioso, sparisce, ricompare più affettuoso di prima, sparisce nuovamente. Fine. La ninfa del titolo compare per tre micro sequenze di pochi secondi l’una, ma quando arrivano si incomincia a capire qualcosa del vero valore dell’opera.
Tanto per cominciare il regista si chiama Pen-Ek Ratanaruang, l’uomo dietro a quella perla di Last Life in the Universe. Noir contemplativo dal cast stellare (Tadanobu Asano, Takashi Miike, quelle gran fighe delle sorelle Boonyasak), elegantissimo nei movimenti di macchina così come nella fotografia (a opera di Christopher “CV che mette imbarazzo” Doyle) e nella sceneggiatura (contiene il colpo di scena meno urlato della storia, una chiave di volta per la vicenda che molta gente non coglierà neppure). Nymph non è certo all’altezza di questa uscita, ma le sue pretese di horror esistenzialista dal forte tasso artistico riescono comunque ad affascinare come non ci si aspetterebbe. In primis per l’estrema cura con cui è girato. Il piano sequenza che apre il lungometraggio, camera a mano che diventa dolly che diventa gru, potrebbe essere visto come noioso (e in effetti la sua natura di virtuosismo è schiacciata e tenuta nascosta il più possibile) ma rappresenta una delle migliori prospettive spiritiche dai tempi del primo Raimi. In secondo luogo per il ritmo con cui avanza la vicenda. Le inquadrature indugiano su particolari apparentemente insignificanti e i tempi sono dilatati all’inverosimile (anche nei dialoghi) con una tale precisione che è impossibile non pensare che il film sia stato concepito già in fase di preproduzione in tale modo. Un immobilismo che trova la sua spiegazione proprio nel nodo centrale della sceneggiatura. Dopotutto il punto di svolta lo si ha quando il protagonista trova un albero secolare, non esattamente un simbolo di dinamismo e velocità.
Nymph è un po’ una risposta thai all’Anticristo di Von Trier. Stesso piglio da video arte e un po’ troppa consapevolezza autoriale. La grossa differenza la fanno la delicatezza con cui Pen-Ek Ratanaruang tratta sentimenti e rapporti umani, uno dei punti fissi del suo cinema rarefatto. L’elemento sovrannaturale si confonde con gli scherzi della psiche. Di certo rimangono solo gli affetti da sanare.
Tanto per fare chiarezza: Nymph è un film dove non succede nulla. Quello che vedrete nei suoi 100 minuti un qualsiasi altro regista lo avrebbe compresso nei primi 5, tanto per procurarsi uno spunto stimolante su cui imbastire il resto della vicenda. La trama è riassumibile più o meno così: una coppia in crisi va a fare delle foto in una giungla, lui trova un albero misterioso, sparisce, ricompare più affettuoso di prima, sparisce nuovamente. Fine. La ninfa del titolo compare per tre micro sequenze di pochi secondi l’una, ma quando arrivano si incomincia a capire qualcosa del vero valore dell’opera.
Tanto per cominciare il regista si chiama Pen-Ek Ratanaruang, l’uomo dietro a quella perla di Last Life in the Universe. Noir contemplativo dal cast stellare (Tadanobu Asano, Takashi Miike, quelle gran fighe delle sorelle Boonyasak), elegantissimo nei movimenti di macchina così come nella fotografia (a opera di Christopher “CV che mette imbarazzo” Doyle) e nella sceneggiatura (contiene il colpo di scena meno urlato della storia, una chiave di volta per la vicenda che molta gente non coglierà neppure). Nymph non è certo all’altezza di questa uscita, ma le sue pretese di horror esistenzialista dal forte tasso artistico riescono comunque ad affascinare come non ci si aspetterebbe. In primis per l’estrema cura con cui è girato. Il piano sequenza che apre il lungometraggio, camera a mano che diventa dolly che diventa gru, potrebbe essere visto come noioso (e in effetti la sua natura di virtuosismo è schiacciata e tenuta nascosta il più possibile) ma rappresenta una delle migliori prospettive spiritiche dai tempi del primo Raimi. In secondo luogo per il ritmo con cui avanza la vicenda. Le inquadrature indugiano su particolari apparentemente insignificanti e i tempi sono dilatati all’inverosimile (anche nei dialoghi) con una tale precisione che è impossibile non pensare che il film sia stato concepito già in fase di preproduzione in tale modo. Un immobilismo che trova la sua spiegazione proprio nel nodo centrale della sceneggiatura. Dopotutto il punto di svolta lo si ha quando il protagonista trova un albero secolare, non esattamente un simbolo di dinamismo e velocità.
Nymph è un po’ una risposta thai all’Anticristo di Von Trier. Stesso piglio da video arte e un po’ troppa consapevolezza autoriale. La grossa differenza la fanno la delicatezza con cui Pen-Ek Ratanaruang tratta sentimenti e rapporti umani, uno dei punti fissi del suo cinema rarefatto. L’elemento sovrannaturale si confonde con gli scherzi della psiche. Di certo rimangono solo gli affetti da sanare.
3 commenti:
interessante!
sia il film che la superpassera
Ehm... Non per essere ripetitivo ma anche io, nonostante l'apprezzabilità della tua recensione, riesco a contribuire a questo tuo post semplicemente commentando:
Ammazza che sorcona!
Vedo che abbiamo due raffinati appassionati di cinema d'autore! Scherzi a parte, vi assicuro che lo star system thailandese è in assoluto quello con più gnocca (e se vi piacciono le sorprese ci sono pure quelle!).
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