Quanto ha speculato l’immaginario occidentale sulla figura del samurai? Troppo, ammettiamolo. Un processo di implosione che ne ha portato alla glorificazione solo di alcuni aspetti, finendo per appiattire una figura ricca di sfumature e umanità. Questo Samurai Rebellion (capolavoro come pochi nonché uno dei miei film preferiti in assoluto) ne è la dimostrazione, mettendo in scena una totale negazione della via e una glorificazione della “normalità” che ha dello straordinario.
La storia è presto riassunta: il daimyo di turno ordina a uno dei suoi sottoposti di sposare una sua concubina, incinta dello stesso nobile. Il vassallo accetta di buon grado e tra i due sboccia l’amore. La situazione ha un brusco cambiamento quando la donna viene richiamata a palazzo, spezzando l’armonia della nuova famiglia. A questo punto partirà la crociata del marito e di suo padre, ex spadaccino dalle doti eccezionali, in nome della rinnegazione del signore e della ricerca di una vita, appunto, “normale”.
Qui non si parla di eroe recalcitrante, ma di una negazione totale di tale figura. Yogoro non sceglie a malavoglia di imbracciare la via della violenza (tipo lo spadaccino monco della saga One Armed Swordsman) ma la rinnega totalmente, preferendogli una vita familiare tranquilla e banale. Il samurai smette di sacrificare tutto per un disegno più grande, ignorando gli ordini del proprio signore e scegliendo una propria strada. Anche il padre, autentico eroe del feudo, pare comprendere questa scelta e si schiera dalla parte del figlio. Samurai Rebellion annoierà parecchio chi si aspetta un chambara carico di coreografie e arti mozzati: i primi novanta minuti di film sono praticamente ambientati in due interni, privi di azione, relegando la catarsi del massacro finale all’ultima mezzora. Spietata, metafisica, priva di quell’alone epico che si vuole ricercare quasi a forza in questo filone.
Non è un caso che, sul finale (SPOILER), il vecchio Isaburo Sasahara supplichi in punto di morte la nipote di crescere e di sposarsi con un uomo come il padre. Semplicemente. Lo si provi a confrontare con il desiderio della madre morente in Lady Snowblood e con tutta la lunga serie di vengeance movie usciti dal Giappone. Il cambio di prospettiva ha del commuovente, aprendo una nuova serie di scenari possibili. Tutto questo dopo trenta minuti di perfezione assoluta, dal ritmo del montaggio alla costruzione delle immagini, dove vita e morte si scontrano con foga ed eleganza. Toshiro Mifune appare in stato di grazia, sospeso tra orgoglio e disperazione, ma questa non è una novità.
Come ho già detto, capolavoro. L’eroe perde l’aura mitologica e guadagna un contatto empatico con lo spettatore altrimenti impossibile. I luoghi comuni cadono come schiamazzi inutili e l’uomo (non il corpo) rimane al centro della vicenda.
La storia è presto riassunta: il daimyo di turno ordina a uno dei suoi sottoposti di sposare una sua concubina, incinta dello stesso nobile. Il vassallo accetta di buon grado e tra i due sboccia l’amore. La situazione ha un brusco cambiamento quando la donna viene richiamata a palazzo, spezzando l’armonia della nuova famiglia. A questo punto partirà la crociata del marito e di suo padre, ex spadaccino dalle doti eccezionali, in nome della rinnegazione del signore e della ricerca di una vita, appunto, “normale”.
Qui non si parla di eroe recalcitrante, ma di una negazione totale di tale figura. Yogoro non sceglie a malavoglia di imbracciare la via della violenza (tipo lo spadaccino monco della saga One Armed Swordsman) ma la rinnega totalmente, preferendogli una vita familiare tranquilla e banale. Il samurai smette di sacrificare tutto per un disegno più grande, ignorando gli ordini del proprio signore e scegliendo una propria strada. Anche il padre, autentico eroe del feudo, pare comprendere questa scelta e si schiera dalla parte del figlio. Samurai Rebellion annoierà parecchio chi si aspetta un chambara carico di coreografie e arti mozzati: i primi novanta minuti di film sono praticamente ambientati in due interni, privi di azione, relegando la catarsi del massacro finale all’ultima mezzora. Spietata, metafisica, priva di quell’alone epico che si vuole ricercare quasi a forza in questo filone.
Non è un caso che, sul finale (SPOILER), il vecchio Isaburo Sasahara supplichi in punto di morte la nipote di crescere e di sposarsi con un uomo come il padre. Semplicemente. Lo si provi a confrontare con il desiderio della madre morente in Lady Snowblood e con tutta la lunga serie di vengeance movie usciti dal Giappone. Il cambio di prospettiva ha del commuovente, aprendo una nuova serie di scenari possibili. Tutto questo dopo trenta minuti di perfezione assoluta, dal ritmo del montaggio alla costruzione delle immagini, dove vita e morte si scontrano con foga ed eleganza. Toshiro Mifune appare in stato di grazia, sospeso tra orgoglio e disperazione, ma questa non è una novità.
Come ho già detto, capolavoro. L’eroe perde l’aura mitologica e guadagna un contatto empatico con lo spettatore altrimenti impossibile. I luoghi comuni cadono come schiamazzi inutili e l’uomo (non il corpo) rimane al centro della vicenda.
4 commenti:
Una nostra professoressa giapponese ci disse che secondo lei la figura del samurai(in patria e all'estero) viene troppo mitizzata e che i libri sull'etica del bushi, cioè Il Libro Dei Cinque Anelli di Musashi e l'Hagakure di Tsunetomo, sono stati scritti rispettivamente nel 1645 e nel 1716. Prima di queste opere il codice dei samurai era sempre lo stesso? E' improbabile. Inoltre erano comunque soldati che dovevano obbedire agli ordini del loro signore, anche quando questo significava compiere azioni di guerra poco onerevoli contro civili.
Mi piacciono i film di samurai classici, ma se questo può restituire un quadro storico più verosimile, mi piacerebbe vederlo.
Questo merita. Mi dicono anche che potresti provare con Twilight Samurai di Yoji Yamada.
Twilight Samurai? Di che anno è?
2002
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