Ci voleva l’interessamento di un certo Jean-Michel Frodon, caporedattore dei Cahiers du Cinéma, e i soldi di Scorsese, Armani e Cartier per riportare alla luce questo The Housemaid. Autentico esempio di film politico, nasconde sotto la veste di noir in versione “psicodramma familiare” una sottile metafora dei giochi politici che accompagnano ogni giorno della nostra vita.
In una ricca famiglia della Corea degli anni ’60 l’arrivo di una cameriera è destinato a incrinare per sempre gli equilibri familiari, con risultati sempre più drammatici e sconvolgenti.
Il film si apre con una copia di sequenze illuminanti per poter capire il resto dell’opera. Nella prima la coppia protagonista si ritrova a tavola, commentando ad alta voce le notizie del giorno. Il punto focale di tutto il dialogo è come i datori di lavoro siano diventati dipendenti dalla loro servitù, che a loro volta non può esistere senza lo stipendio mensile. Subito dopo lo scambio di battute ci si sposta sui figli, impegnati in quel tradizionale gioco in cui si sfruttano un elastico e le proprie dita per costruire dei complessi reticoli. A ogni passaggio interviene uno dei due giocatori, perde chi non è in grado di tessere la ragnatela seguente. Kim Ki-young parte da questo semplice preambolo per costruire un castello di potere e sottomissione sempre più morboso e inaccettabile, fino alla grottesca conclusione.
Abilissimo nel tratteggiare le psicologie dei suoi personaggi, il Maestro sud coreano sfrutta a pieno un parco attori ridotto (neppure una decina di personaggi) e un’unica location principale per ironizzare in maniera feroce e nerissima sui complessi meccanismi di coercizione che definiscono le relazioni umane. Lo spettro del tradimento diventa motore primo di un gioco di specchi che finisce per confondere e abbagliare i suoi stessi fautori, in una partita a scacchi dove perdono tutti. Personaggi odiosi, messa in scena tra l’horror e il noir, tasso di morbosità capace di disturbare ancora oggi (e si consideri che il film è del 1960).
Al di là della raffinatissima fotografia e di una serie di soluzioni tecniche che lasciano interdetti (le carrellate sull’asse o il montaggio epilettico del funerale) quello che rimane di una simile opera è la finezza e l’intelligenza con cui si affrontano i temi. Nessun didascalismo politico da quattro soldi (tipo quelli che si vogliono addossare allo splendido District 9, dove lo spunto è più McGuffin che reale metafora) e nessun bisogno di arrivare a quel cinema dell’estremo che pare essere diventato unica via per scuotere. Ci vogliono 1000 Martyrs per arrivare alla pesantezza di certi giochi psicologici che si vedono in questo The Housemaid (tipo convincere un bambino di 4 anni di essere stato avvelenato, con conseguente crisi di panico e morte per incidente domestico dovuto a questa).
Opera unica, inimitabile, con un finale tanto amorale e sconcertante da non poterlo non considerare una tra le pietre fondanti di quello che un certo cinema asiatico oggi rappresenta.
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