lunedì 10 maggio 2010

L'azione a vignette: 14 Blades di Daniel Lee (Ch/2009)




Sarò onesto: l’unico motivo per cui mi sono approcciato a 14 Blades è la presenza in cabina di regia di Daniel Lee. La paura di trovarmi di fronte all’ennesimo polpettone cinese a base di fotografia leccata, propaganda e coreografie narcolettiche era minore rispetto alla curiosità di vedere nuovamente all’opera uno dei registi più sottovalutati di sempre. Dopo tutto il buon Daniel deve ancora convincerci tutti che la potenza deflagrante del suo debutto, quel What Price Survival con cui rischiò di cambiare per sempre il cinema di HK, non fosse il classico fuoco di paglia. Uscito in patria con il programmatico titolo di One Armed Swordsman ’94, il lungometraggio si poneva come una revisione totalmente stravolta del seminale lavoro di Chang Cheh. Se l’esordio dello spadaccino monco aveva cambiato le carte in tavola nel 1967, introducendo il wuxia nell’epoca moderna, così il suo remake le avrebbe dovute cambiare nel 1994. Entro due anni l’intera società dell’allora colonia inglese sarebbe mutata in maniera irreversibile (grazie al landover), di conseguenza anche l’immaginario (e il suo linguaggio) avrebbero dovuto voltare pagina. Risultato di tale ragionamento fu un capolavoro al limite della video arte. Ambientato in un mondo privo di riferimenti temporali coerenti, stilizzato nella messa in scena, accompagnato da una colonna sonora percussiva e cacofonica, scevro di quella morale positiva che aveva reso immensamente popolare il genere in questione. Inevitabilmente il pubblico non capì e il tentativo di Daniel Lee cadde nel nulla. L’anno dopo ci riprovò il maestro Tsui Hark, con il suo The Blade (secondo remake dello stesso film), e fece la stessa fine. Se non ci riesce il migliore chi ci può riuscire?







Dopo anni di oblio e lavori alimentari ora il Nostro torna al wuxia e, nonostante le basse aspettative, fa un gran lavoro. 14 Blades riesce a unire una messa in scena raffinatissima (dalla fotografia ai costumi), una fusione di generi spinta come non se ne vedeva da tempo (c’è moltissimo spaghetti western, ma l’ambientazione è ostentatamente medio orientale) e un linguaggio dell’azione sempre più stilizzato e mai così vicino al fumetto. Il movimento si frammenta e si contrare grazie all’uso costante di microellissi. Così se l’apertura della custodia delle 14 spade viene resa con quattro/cinque stacchi di montaggio, un fendente è invece immortalato concentrandosi direttamente sul risultato e ovviando l’atto in sé. Durante l’azione si ha sempre l’impressione di assistere a minuscoli siparietti della durata di un paio di secondi, come se si trattasse di vignette. La presenza di una fotografia antirealistica (tagli di luce, fumo) amplifica l’effetto di tale scelta e la va a rafforzare. Une versione edulcorata di tante intuizioni portate avanti da Tsui Hark, come una sorta di Seven Swords spogliato dal suo alone epico. Basti come esempio la direzione degli attori, disposti in maniera plastica e “statica”.



L’impressione complessiva è quella di trovarsi di fronte a un film che si riallaccia con orgoglio alla tradizione di HK. Così, fianco a fianco con una cura eccezionale per il dinamismo e il linguaggio dello scontro fisico, abbiamo il consueto ottovolante fatto di colpi di genio e buchi imperdonabili. Se un attimo prima ci convinciamo di aver trovato il film dell’anno, l’istante dopo stiamo maledicendo l’ennesimo tonfo (o furto alla cinematografia occidentale, tipo il clone di Jack Sparrow). Proprio come nel ventennio d’oro, quando la foga della new wave fondeva alto e basso senza vergogna.




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