Tutto parte da Django. Il seminale cult Corbucciano può vantare un’infinità di primati, primo tra tutti quello di aver contribuito a modellare l’immaginario moderno in maniera ancora più profonda del prototipo Leoniano. Un’ opera minuscola, realizzata in economia e all’ombra del successo ottenuto dallo straniero senza nome di Eastwood, ma dal potere iconoclasta di una bomba termonucleare. Uno scenario lercio, appeal da film gotico e, soprattutto, un protagonista menomato. Una rivoluzione, paragonabile solo alla figura dell’eroe espanso (le cui qualità vengono suddivise tra più persone) introdotta da Kurosawa nei I Sette Samurai. Nell’immaginario popolare moderno nessuno aveva mai pensato a un eroe fallibile, fragile e capace di sanguinare. La mano spappolata del pistolero appiedato ebbe le prime ripercussioni a HK, andando a influenzare il lavoro di Chang Cheh. Nell’anno 1967 arriva infatti nelle sale dell’ex colonia inglese il capolavoro The One-Armed Swordsman. Primo esempio di wuxia moderno, porta sullo schermo uno spadaccino menomato, che rifugge e odia profondamente la violenza. L’handicap sfugge da ogni lettura simbolica alla Zatoichi (il popolare spadaccino cieco, che debutta nel 1962), e viene presentato unicamente come violenza al corpo. Da qui in avanti gli eroi orientali cambieranno volto, fino agli eccessi romantici dell’ heroic bloodshed cantonese. Malavitosi e poliziotti sempre sull’orlo della lacrima, troppo di pancia per non commettere errori. A dimostrazione di questo basti il terzo capitolo della saga A Better Tomorrow. Un disperato melodramma a opera di Tsui Hark, dove ci vengono illustrate le origini di Mark Gor. Non a caso, meno piombo e più occhi umidi delle due uscite precedenti. Si passi poi all’esplicita attrazione omoerotica di Cheap Killers, di Clarence Fok (già vista in chiave occidentale nelle pellicole Lonesome Cowboy di Andy Warhol e Oro Hondo di Giulio Questi). Lo spaghetti western uccide l’eroe tradizionale, portandosi dietro uno strascico anche nella cinematografia italica seguente. Ne Il Grande Racket, Fabio Testi passa presto da risoluto vendicatore a bestiale assassino (si veda l’inquadratura finale), mentre perfino il roccioso Maurizio Merli di Roma Violenta ammette di aver superato ogni limite consentito (e per il suo tipo di caratterizzazione questo è già un passo enorme).
Tutto questo avviene però esternamente all’industria cinematografica statunitense. Per avere un simile avanzamento anche a Hollywood si deve attendere il 1988, con l’uscita del primo Die Hard. Bruce Willis non interpreta un eroe, piuttosto veste i panni di un sacco di carne destinato ad arrivare a fine corsa tumefatto e sanguinante. Dopo anni di propaganda testosteronica, dove il protagonista risolve la situazione in virtù della sua infallibilità, ora il buono punisce i cattivi passando attraverso il martirio (tutto già introdotto, con intenzioni diverse, da Frank Miller nel suo Ritorno del Cavaliere Oscuro). Senza camminate a piedi scalzi su cocci di vetro, sparatorie e cadute impossibili John McLaine non avrebbe mai potuto sconfiggere il malvagio Hans Gruber. L’eroe non ha poteri incredibili, ha soltanto più resistenza dell’uomo comune. Oppure è semplicemente più stupido (come ci suggerisce una recente campagna pubblicitaria).
Passiamo ora a Mark Millar, uno che ha costruito tutta la sua cifra autoriale intorno a un solo concetto, quello del realismo posto come maglio sbattuto sulla povera schiena dell’immaginario. In The Authority rischiano di schiattare milioni di persone, gli Ultimates devono presentare il conto alla Casa Bianca, Superman precipita nel cuore del regime comunista invece che nella controparte statunitense del Mulino Bianco. Perfino Wolverine si permette di quantificare (e quindi di rendere reali) le sue vittime. Kick-Ass è la summa di tutto questo. E’ il suo “post Die Hard” (e considerando che Millar ha la media di tre vignette a pagina, direi che il parallelo con il cinema ci sta tutto), paragonato alla sua visone infantile degli eroi di 1985 (citato esplicitamente in Kick-Ass). E, si noti bene, questa non è una deduzione di chi scrive. Sono gli stessi personaggi del fumetto ad ammetterlo (in una battuta successiva al rientro scolastico del giovane protagonista, picchiato a sangue da una gang durante la sua prima sortita). Se Geoff Johns e Grant Morrison hanno sempre cercato di elevare la figura del supereroe a una sorta di semidivinità, Millar si diverte giocando al ribasso. Un sedicenne, inutile e insicuro. La cui idea migliore è quella di farsi ridurre in poltiglia (nel numero 7). Siamo arrivati alla versione splatter del The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living di Damien Hirst. Se nelle gallerie d’arte uno squalo sotto formaldeide rappresenta l’incapacità di riconoscere la morte (“sembra vivo” è la prima cosa che ci passa per la testa appena vediamo l’opera) nell’immaginario pop si restituisce spessore (e quindi vita) all’eroe riducendolo a una massa informe di tumefazioni. Tutto perfetto, se non fosse per l’ennesima furbata dell’autore di Civil War: Hit Girl.
Espediente narrativo camuffato da personaggio ultracool, la ragazzina killer è il meccanismo che fa crollare tutto il castello di carte della serie. Impossibilitato a spiegare come un teenager possa sconfiggere una potente famiglia mafiosa, Millar introduce l’unico personaggio impossibile in una vicenda che farebbe del realismo la sua chiave di lettura. Disinnescando così quello che sarebbe potuto essere un capolavoro concettuale, una sorta di Napoleon Dynamite incrociato con Watchmen e illustrato dai fratelli Chapman. Il passaggio da eroe come psicolabile assetato di violenza (tutta la serie pare un remake in latex del primo storyarc del Punitore di Ennis) a vittima (fisica) dei propri complessi.
6 commenti:
chapeau.
sì, un post da incorniciare, decisamente
m'è venuto duro
Eccezionale, complimenti.
Kick-Ass lo devo assolutamente recuperare. Anche se, non so, lo stile di Romita JR sposato ai testi di Millar non mi suona tanto bene...
Grazie a tutti per i complimenti! scusate il ritqrdo ma sono in francia per lavoro.
Per Giangi: dubbio legittimo e, per certi versi, confermato. Cosa sarebe potuto essere KA con la giusta dose di lucidita' mentale? Una cosa enorme.
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