Sarò lapidario: il Neurotic Deathfest dovrebbe essere d’esempio per qualunque tipo di festival musicale. Come raggiungere tale eccellenza rimanendo all’interno di un genere ostile e non certo adatto all’ascoltatore medio come il death metal? La questione è complessa, meglio procedere per punti:
- line up: perfetta. Qualcuno spieghi ai promoter italiani che l’effetto pastone non premia mai. Mille volte meglio scegliere un genere e sviscerarlo in ogni sua possibile sfaccettatura. A questo Neurotic c’era il death old school, quello ipertecnico, il grind più feroce, i trionfi di ignoranza incontaminata e le cessioni agli ultimi trend. Bene o male tutte diramazioni dello stesso filone. Così non ci si annoia, rimanendo sempre in un contesto coeso e ben definito.
- location: lo 013 è un locale che in Italia ci sogniamo. 3 palchi indoor completamente insonorizzati, 10 bar, una tavola calda e prezzi umani (una birra stava a poco più di 2 euro). Così si è evitata pioggia, sole battente, effetto sauna da prime file e mille altre avversità meteo. Il tutto in pieno centro Tilburg, garantendo la vicinanza a baretti, ristoranti, kebab, rosticcerie e coffee shop. Senza vecchiacci che rompono per il casino.
- organizzazione: su due giorni mai un minuto di ritardo. Con un running order studiato alla perfezione (in modo che gli show si sovrapponessero il meno possibile) e un team tecnico di primissimo piano tutto è andato liscio come l’olio.
- metal market: visto che in Italia si pensa di combattere l’evasione multando le distro ai concerti più di nicchia (si veda infatti la progressiva scomparsa dei tradizionali banchetti), ci pensano i festival europei a colmare le spinte consumistiche degli appassionati. Risultato? Alle 15:00 di venerdì (un’ora dopo l’inizio del festival) l’ultimo lavoro dei romani Hour of Penance era già esaurito. Senza contare le code chilometriche allo stand Relapse e il perenne intasamento nel cortiletto esterno adibito a mercatino. Primizie per tutti!
- il Bat Cave: gran parte dei migliori show me li sono beccati nella location più underground del festival. Neppure 10 metri quadrati di palco in una stanza minuscola. Rampa di lancio perfetta per band magari al primo disco, sconosciute ai più e dall’età media bassissima. Realtà che, una volta dotate di un palco degno, hanno saputo dimostrare a tutti il loro valore. Ricambiate dal pubblico, visto che la sala era praticamente sempre inagibile (esempio: dopo ¾ del concerto dei Carcass decido di andare a vedere cosa combinano i torinesi Septycal Gorge. Un macello, con una densità di pubblico molto maggiore rispetto agli headliner).
Il risultato di tutti questi fattori è stato un prevedibile soldout già in fase di prevendita, con gente proveniente da ogni parte d’Europa e band gasatissime. Tra l’altro, considerando quanto di nicchia fosse il festival, e di conseguenza moderati i cachet degli artisti, non c’è stato bisogno del botto da 100.000 per rientrare nei costi. Cosa che ha tenuto lontani scivoloni e compromessi (ma ci vuole tanto a capire che un budget contenuto lo recupero subito e che invece investimenti milionari livelleranno per forza di cose il mio lavoro verso la mediocrità?), autentiche spine del fianco di questo tipo di manifestazioni.
Ma su 42 band quante erano effettivamente valide? Non voglio apparire come il fanatico di turno, ma il livello è stato decisamente alto. Magari molte proposte non erano esattamente nelle mie corde (tipo i Putrid Pile) ma i concerti da antologia non sono mancati. Qualche esempio.
Dr.Doom: sono andato in Olanda solo per loro. Mi hanno ricompensato son un set sospeso tra grind e postHC alla Converge. Fisici, ultracinetici, tanto estremi quanto variegati. Non vedo l’ora che qualche grossa label ci metta le mani sopra.
Enemy Reign: la nuova band dell’ex cantante degli Skinless ha conquistato tutti. Rozzi e ignoranti, eppure dotati di una presenza scenica invidiabile. Tra giubbetti di salvataggio, bottiglie di Jack Daniel’s e momenti di delirio puro c’è stato di che divertirsi. Come proposta musicale nulla di nuovo sotto al sole, ma la carica e la genuinità ci sono tutti.
Malignancy: uno dei nomi non perdere per gli sfegatati del suono di New York. Tecnicissimi e ultrabrutali, capaci di instaurare un rapporto immediato con il pubblico. Tutto tra velocità supersoniche, umorismo becero e vocals da lavandino otturato. Siamo al Neurotic, cosa chiedere di più?
Rotten Sound: vedere i loro sorrisi increduli mentre vengono accolti come delle star non ha prezzo. Ripagano la fiducia del pubblico con una tempesta grind senza eguali. Nessuna pausa, solo una tonnellata di canzoni lanciate a velocità sconsiderata. Abrasivi.
Burning Skies: prova del fuoco per la tipica deathcore band made in UK. Il concerto parte male tra la diffidenza del pubblico e un cantato non a livelli stellari. Poi la carica HC prende il sopravvento e tutti i presenti cedono agli inviti del groove. Una buona prova, ma questi ragazzi possono fare di più.
Those Who Lie Beneath: mazzatona deathcore, poco altro da aggiungere. Uno show sentito, carichissimo e senza un calo di tensione. Ora che questo suono pare essere al tramonto è bello sapere che ci sono band capaci di tenerlo a galla solo con l’intensità e la potenza dei propri live.
Bolt Thrower: il palco è decorato con grandi stendardi di derivazione technofantasy, loro entrano in scena sulla fanfara di Starship Trooper. Al saluto militare di Karl Willetts lo 013 esplode in un boato. Saranno eccessivi, kitsch (rimangono l’unica band della storia a essere stata sponsorizzata dalla Games Workshop!), scontati e sempre uguali a loro stessi. Eppure per tanti anni lo scettro di band più pesante della Terra è stato loro. Una scorpacciata di death vecchia scuola, quello che ti faceva muovere la testa anche senza suoni iper processati, trigger e tecnicismi fini a se stessi. Da lacrime.
Origin: surreali. In più frangenti si è avuta l’impressione di essere davanti a una proiezione mandata al doppio della velocità. Dopo l’esibizione sul medium stage di due anni fa oggi gli americani riescono a conquistarsi il loro spazio sul palco principale. Il loro è uno show ai limiti della realtà, basato su una precisione e una velocità d’esecuzione impossibili anche per la più efferata delle grind band. Peccato che qui non si parli di schegge di pochi secondi, ma di strutture lunghe e complesse. Spesso al limite del prog.
Dying Fetus: i soliti professionisti. Continuano imperterriti per la via della chitarra singola senza perdere un briciolo di potenza e aggressività. Nessun guizzo in particolare, ma il valore dei loro dischi trova l’ennesima dimostrazione in sede live. Impegno politico e mosh come se non ci fosse un domani.
Revocation: su disco non mi hanno detto nulla, ma dal vivo questo trio di (appena) ventenni riesce a mettere in fila un bel po’ di band affermate. Senza risultare per forza di cose le macchine che paiono essere in studio. Il loro concerto è un bagno di sudore, scalmanato e sorprendente. C’è ancora spazio per il thrash più selvaggio!
Abysmal Torment: da Malta il miglior concerto dei due giorni. Insostenibili su disco, mi avvio verso la Bat Cave sicuro di abbandonarla in pochi minuti. Invece vengo sorpreso da un turbinio di corpi totalmente folle. Doppio attacco vocale (cantante che urla + cantante che urla ancora di più), stacchi mosh presenti in tutte le canzoni, pig squealing abusatissimo. Saranno mezzi facili, ma il risultato giustifica ogni espediente. Richiamati sul palco per ben due volte (unica band in due giorni).
Beneath The Massacre: i prezzemolini della nuova ondata death. Li trovate praticamente ovunque. Poco male, perché dal vivo rendono sempre. Magari leggermente noiosi alla lunga distanza, ma la loro potenza d’impatto rimane invidiabile. Blastbeat perenne, riffing intricato e uno dei cantanti più selvaggi di tutto il festival. E in più è veramente grosso, quindi se non vi garba che siano ovunque andate voi a dirglielo.
Murder Therapy: da Bologna con furore. Chiamateli pure i Cephalic Carnage di casa nostra. Ai mostri sacri del techno grind non hanno da invidiare ne tecnica ne inventiva. In sede live sputano sangue e convincono a più riprese, sia sui brani più intesi che sulle digressioni strumentali. Assieme a Septycal Gorge e Hour of Penance (che mi sono perso grazie alla grande Ryanair) la dimostrazione di quanto le band italiche possano essere competitive soprattutto all’estero.
Carcass: gigioneggiano un po’ troppo. Sanno di essere i Carcass e questo li penalizza, anche se la classe è talmente tanta da far soprassedere a questi piccoli peccati veniali. Presenti in scaletta scelte per nulla scontate, come a voler far rivalutare alcune parti oscure della loro carriera. Comunque gran concerto, anche se inferiore a quello degli headliner della serata precedente.
Septycal Gorge: terribili, ma nel senso migliore della parola. Se amate certo brutal ultragutturale questa era sicuramente la proposta da non perdere, anche meglio dei blasonati Defeated Sanity. Volumi assurdi e una spietatezza d’esecuzione al limite dell’ingiustificabile fanno il resto. A quando il grande salto?
E questo è solo un campione di quello che ci siamo subiti in due giorni di estremismo e intransigenza. Una manifestazione non per tutti, ma che ha soddisfatto pienamente appassionati e fanatici della più bestiale delle derivazioni metalliche. E adesso provate a dire che il Gods of Metal è un evento imperdibile!
3 commenti:
sto piangendo...
(m'accontento il 18 di spararmi deicide, marduk e vader, male che va gonfiamo di botte qualche bestia di satana)
Tra i mille gruppi che non conoscevo e hai nominato mi sto ascoltando un po' di Septycal Gorge su youtube, belin che legna!
@ Diffo: Deicide+Marduk+Vader? Concertino troppo folkloristico per i miei gusti. Io conto i minuti per i Magrudergrind al Csa Dordoni e per i Municipal Waste a Parma!
@ Bapho: in ambito ultrabrutal sono il meglio. Dave, il batterista, è una macchina del dolore.
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