Con il primo Buppha Rahtree fu amore a prima vista. Il regista Yuthlert Sippapak riuscì a comprimere in uno spazio ridottissimo melodramma, horror e umorismo sboccato. Tutto reso con un linguaggio frizzante e attuale, rifuggendo da tentazioni vintage o eccessivamente autoriali. La storia del fantasma femminista Buppha procedeva tra aborti e storie d’amore impossibili, mentre il set (un condominio decadente) forniva la scusa perfetta per infilare in sceneggiatura una miriade di personaggi utili solo al fine di strappare una risata. Tra questi ricordiamo disabili, travestiti, improbabili gangsta e tutto il resto del bestiario a cui ci ha abituato il cattivo gusto di scuola thai. Dopo il successo planetario (a livello festivaliero) del primo capitolo era naturale aspettarsi almeno un sequel, e così eccoci alle prese con il capitolo 3.1 delle vicende della bella studentessa morta.
Ambientato 10 anni dopo i precedenti due lungometraggi, annovera tra i suoi punti d’interesse un cast stravolto e una nuova incarnazione dello spirito della vendetta (nonostante la sua furia rimanga indirizzata unicamente verso la popolazione maschile). Un punto di partenza talmente importante da richiedere due film. A testimonianza di questo Rahtree Reborn ci lascia con un cliffhanger a suo modo sopra le righe. Se i primi 90 minuti sono basati su gag scorrettissime, sgozzamenti e apparizioni ectoplasmatiche gli ultimi frangenti di questo reboot tornano a essere tinti di un melodramma densissimo. Quello di scuola popolare, dove emozioni e sensazioni devono per forza di cose essere trasbordanti e assoluti. Un cambio di direzione così repentino da lasciare l’amaro in bocca, almeno fino al recupero di Rahtree 3.2: Revenge.
Basandoci su questa prima metà sono diverse le considerazioni a cui arrivare. Cercando di soprassedere su certi tonfi di buon gusto comprensibili solo al pubblico thailandese, abbiamo a che fare con un’opera inclassificabile e, per certi versi, impossibile. Anche se pienamente inscrivibile alla poetica del suo regista, riconoscibile in tempo zero e quindi dotata di cifra autoriale, il ritmo e la sceneggiatura sono esempio purissimo di cinema commerciale dinamico e accattivante. Soluzioni raffinatissime e facilonerie imperdonabili si susseguono con andamento incalzante, mentre i personaggi si mantengono sospesi tra una tridimensionalità indispensabile a creare empatia e una mancanza di spessore da strip scorreggiona. Più che il cosa conta il come, soprattutto quando lo scheletro su cui si basa tutta la saga è un luogo comunissimo tra le storie di spiriti orientali. Ma l’alternarsi tra pugni nello stomaco, gag sguagliate (seppur talvolta geniali) e pulsioni amorose (che spero verranno sviscerate ulteriormente in Revenge) trascina lo spettatore in un turbinio dove rimanere impassibili è qualcosa di inconcepibile. E’ molto più facile che vi ritroviate irritati piuttosto che annoiati.
Sippapak rimane cineasta dal mediocre bagaglio tecnico ma dall’energia e dalla foga incontenibili, incapace di rimanere nella rigida griglia di un solo genere (tra noir, queer comedy, melò,… cosa non ha girato?). Il suo più grande pregio, quello di essere una delle icone della new wave del cinema thai, continua a rimanere anche il suo più grande handicap sul palcoscenico internazionale. Troppo localizzato e puro per interessare distribuzioni considerabili tali, pare destinato a un culto di nicchia palesemente angusto per la sua arte. Speriamo che la situazione cambi, perchè ancora troppe delle sue opere rimangono inaccessibili fuori dai confini della sua nazione.