sabato 31 gennaio 2009

Boogie "5 Days" @ Avantgarden Gallery (Milano, dal 5 febbraio)






A Milano, presso Avantgarden Gallery, sarà esposta la nuova serie del grande Boogie. Se pensate che uno come Terry Richardson possa essere crudo e diretto, allora una bella dose di realtà non può che farvi bene.

venerdì 30 gennaio 2009

La delicata solitudine di Baldomero Fernandez





Conoscete qualcuno più bravo di Baldomero Fernandez nel tratteggiare il delicato equilibrio della solitudine?

[trailer] Crows Zero Episode 2 di Takashi Miike (Jap/2009)


Sito ufficiale e primi trailer per Crows Zero Episode 2. Sembra proprio che Takashi Miike abbia una certa predilezione per storie di liceali sbandati, botte e lezioni di vita imparate a suon di bastonate. Dopo il magnifico primo capitolo eccoci nuovamente nel peggior liceo del Giappone, dove le lotte intestine paiono risolte. Poco male, quante scuole superiori ci possono essere a Tokyo?

giovedì 29 gennaio 2009

Billy Wild 2 di Ceka & Griffon: il sangue, la polvere e il giorno del giudizio





Secondo e conclusivo volume per Billy Wild. In questo nuovo appuntamento la matrice atmosferica del primo tomo viene stravolta, lasciandosi alle spalle flashback e atmosfere da favola nera, a favore di un completo bagno di sangue. Non che prima non ne scorresse, ma ora si sta parlando proprio di una mattanza.



Il ritmo della narrazione è a dir poco compresso, dando l’impressione di un’accelerazione innaturale rispetto ai capitoli precedenti. A conti fatti quasi metà dell’opera è sfruttata per introdurre Billy Wild e il cast di comprimari, relegando la parte meno autoriale e più legata al genere a questa nuova uscita. Nell’ottica di questa evoluzione cambiano anche i riferimenti extra fumettistici, passando da un ipotetico Tim Burton (quello stereotipico, con Danny Elfman alla colonna sonora) allo spaghetti western più feroce. Proprio come in Keoma (Enzo G. Castellari, 1976) o in Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro (Lucio Fulci, 1966) introdotto plot e attori la narrazione viene sospesa, a favore del terremotante finale d’azione. Ne sapeva qualcosa anche il buon John Woo, arrivando a omaggiare il western di Fulci nella conclusione del suo A Better Tomorrow 2 (1987). Rimane costante la matrice mortifera e demoniaca che fece grandi i due esperimenti Margheritiani di fusione tra gotico e western: Joko invoca Dio… e muori (1968) ma, soprattutto, il capolavoro E Dio disse a Caino (1970). Molto, molto poco favolistici anche un paio di colpi allo stomaco ben assestati, scelta che fa sconfinare il tutto in un simbolismo dal retrogusto provocatorio e quasi politico.



I disegni di Griffon si sposano alla perfezione con i testi e la trama imbastita da Ceka, elevandone al quadrato il lato grottesco ed eccessivo. Duole notare come la qualità (sia della sceneggiatura che delle tavole) non sia costante, alternando soluzioni di grande efficacia e potenza con passaggi più frettolosi (anche se, a livello quantitativo, vincono di gran lunga le prime). Peccato perché le carte in regola per un grandissimo fumetto c’erano tutte, senza contare alcuni assi vincenti come l’intersezione tra fatti reali (uno dei punti centrali dell’opera è la prima stesura della costituzione US) e aspetti di fantasia.



Un prodotto interessante, proposto in una veste di prim’ordine (bastino le stupende copertine) e al giusto prezzo. Che comprende anche l’amaro sapore dell’occasione parzialmente persa.

mercoledì 28 gennaio 2009

I Vigilantes sono in città

Pare che il momento di entrare in studio a registare il nostro primo demo sia sempre più vicino. Riusciremo a unire Zeke, thrash primordiale (ovvero suonato da analfabeti musicali) e Charles Bronson?

martedì 27 gennaio 2009

Il S.Valentino di Mr. Florian Bertmer



Si avvicina S.Valentino e per nostra fortuna ci pensa Florian Bertmer (aka il miglior cover artist del mondo) a risolverci l'annoso problema del regalo alla dolce metà. Ecco in collaborazione con Shirts & Destroy il nuovo kit Valentine. Maglietta, biglietto d'auguri e confezione, tutto rigorosamente stampato a mano dal nostro tedesco preferito. Tiratura limitata a 90 copie.

lunedì 26 gennaio 2009

Thrash! Thrash! Thrash!

Alcuni miei ascolti degli ultimi giorni. Che ci crediate o no il più vecchio fra questi dischi è uscito nei primi mesi del 2008.



Direi che l'ondata tech grind/death/core degli ultimi anni è decisamente agli sgoccioli, pronta a lasciare spazio a una nuova generazione di thrash band. Che capiscono bene come funzionano i giochi e interpretano alla perfezione il loro ruolo. Tra moniker assurdi, zombie radioattivi, dichiarazioni di guerra e cover che sono capolavori di pop art.



Cosa aspettate a recuperare il flipcap (quello con il logo sotto la visiera!) dei Suicidal Tendencies e i calzettoni bianchi di spugna?

giovedì 22 gennaio 2009

War is Hell: The First Flight of the Phantom Eagle di Ennis & Chaykin (Marvel/2008)




Una serie che univa orrori di stampo bellico a un sovrannaturale nerissimo. Un disegnatore tanto preparato quanto provocatorio. Uno sceneggiatore noto per l’antiretorica delle sue storie di guerra e per i suoi eccessi grotteschi. Una linea editoriale studiata per il pubblico più adulto. Capolavoro a priori? Questa volta no.



War is Hell di Ennis e Chaykin si pone come una sorta di Full Metal Jacket ambientato tra gli avviatori della prima Guerra Mondiale. L’orrore dello scontro bellico come macchina implacabile, una catena a ciclo continuo capace di trasformare il più idealista tra gli uomini in un cinico e freddo servo del sistema. Sarebbe tutto magnifico se si fosse deciso di premere sul pedale dell’acceleratore.



L’occasione di avere tra le mani una commistione abrasiva tra exploitation e riflessioni serie era ghiotta, considerando anche la taratura delle menti creative coinvolte. Eppure qualcosa non deve aver funzionato. Chaykin si conferma spettacolare, ma evita in ogni modo freschezza e innovazione. Ennis non si avvicina neppure alle voragini di nero e piombo rovente del suo Punitore o di 303. Il viaggio tra i gironi dell’inferno bellico pare più una crociera di piacere sullo Stige, chiazzato oltretutto da sortite in un umorismo che non sa dove andare a parare. Il procedere di orrore in orrore, dal primo duello aereo alla deumanizzazione finale, non è incisivo come ci aspetterebbe. Considerando soprattutto la natura di bildungsroman alla rovescia che tutta la miniserie vorrebbe dimostrare.



Non mancano i momenti alti, le riflessioni sulle guerra tra gli stessi aviatori (per la prima volta nella sua carriera Ennis si schiera anche in difesa della Francia!) e le splash page che ci ricordano chi ci ha consegnato American Flagg, ma la media rimane quella di un fumetto discreto, leggero e buono per i palati di troppa gente. Tutto agli antipodi di quello che ci si aspettava.

martedì 20 gennaio 2009

Vota Passenger Press



La Passenger Press è stata selezionata da Abitare come uno dei 46 progetti che faranno da ossigeno alla creatività italiana. Per fare la vostra parte basta cliccare qui e votare.

Sparrow di Johnnie To (HK/2008)




Chi legge questo blog è ben a conoscenza della mia passione smodata per Johnnie To, regista a catena da montaggio e miniera di sorprese. Ma come si fa a non amare un uomo capace di rendere un minuscolo film (80 minuti!) sui borseggiatori un piccolo capolavoro sospeso tra romanticismo alla melassa, kitsch e narrazione epica?



La partenza di Sparrow è fulminate. Un musical dove macchina da presa e cabina di montaggio interpretano i ruoli dei protagonisti. Un continuo rincorrersi tra la regia e una colonna sonora a dir poco invasiva, sospesa tra lounge, jazz easy listening e reminescenze da commedia brillante dei tempi che furono. Come al solito To è un maestro nel tratteggiare personaggi tridimensionali in un pugno di battute, mentre la leggerezza e il disimpegno guidano ogni scelta. Il ritmo è quello di una chiacchierata brillante, di un battibecco fra amanti ancora inconsapevoli.



Una femme fatale misteriosa e dotata di mille risorse si inserisce nella vita di un gruppo di borsaioli guasconi e chiassosi, sconvolgendone gli equilibri interni. Tutto sotto lo sguardo di un uomo misterioso, che pare essere ovunque e in ogni momento.



I minuti passano senza che ce se ne accorga e, in un attimo, si arriva alla scena madre. Vero capolavoro all’interno di un film già di per se superiore alla media. Una sfida tra taccheggiatori, uno scontro epico che si brucerà nel breve spazio di un affollato attraversamento pedonale. Sotto una pioggia battente il tempo di dilata e la fotografia si fa plumbea, mentre il livello della regia si eleva a uno status irraggiungibile. Pochi metri diventano il campo di una battaglia che si svolge tutta fuori dal campo dell’inquadratura. Per quasi dieci minuti seguiamo tutta l’azione negli sguardi dei protagonisti, mentre non una parola viene pronunciata. Johnnie To accumula particolari coreografici (gli ombrelli, la pioggia) e elimina ogni possibile cessione a una narrazione didascalica. Lo spettatore è immerso nello scontro tra campioni del furto, sicuro che qualche cosa sfuggirà sicuramente alla sua percezione. Nulla di diverso da quello che succede nel mondo vero quando, in un luogo affollato, si viene “alleggeriti” da uno di questi artisti della mano leggera.



Sparrow non è certo il più memorabile tra i film di To. Dopotutto si parla di un balocco dalla carta lucente. Nuova dimostrazione, assieme alla commedia romantica Yesterday Once More, che il Nostro può muoversi agilmente in ogni contesto, continuando a unire in maniera impareggiabile autorialità e amore per il genere più incontaminato. Come al solito le facce che popolano i suoi film sono sempre le stesse: Simon Yam, Lam Suet, Gordon Lam e così via. Ennesima testimonianza di come la produzione (tutto è prodotto dalla Milkyway Image di To e Wai Ka Fai) sia parte integrante del processo creativo, portando coerenza e continuità in una carriera che ha ancora tanto da darci




lunedì 19 gennaio 2009

Jonah Martini di Crippa & Buscaglia (ReNoir/2008): l'Italia dei miracoli




Jonah Martini non potrebbe che essere un fumetto italiano. Senza urli, senza eccessi, che sfrutta a pieno il bagaglio culturale della provincia. Un’opera che procede con ritmi pacati, sfugge al sensazionalismo e punge i nervi scoperti di chiunque si senta appartenente a quella fetta d’Italia lontana dai grandi centri metropolitani.



Alex Crippa maneggia la materia religiosa in maniera magistrale, sfuggendo a tutti i rischi del caso. Nessuna cospirazione, nessuna mafia vaticana, nessun segreto millenario. Solo piccole storie di piccole persone. Lo scrittore dimostra come non si debba guardare lontano per trovare misteri, leggende e folklore esoterico. Se si volesse tratteggiare un parallelismo cinematografico si dovrebbe pensare a una variante meno feroce e più romantica del “Non si sevizia un paperino“ fulciano. Mentre nel thriller settantiano il vero protagonista era un meridione periferico e allo sbando, fermo a un’epoca passata rispetto al resto d’Italia, la storia narrata da Crippa e Buscaglia si svolge in un settentrione (anche se il vero paese di Montelago è Umbro) brumoso e impregnato dall’umidità dei boschi. Anche l’ambientazione storica ben precisa gioca il suo ruolo fondamentale nella costruzione della vicenda. Il fascismo come sintomo di una catastrofe imminente, simbolo di una chiusura e di una miopia che ci portarono vicino al tracollo.



Non ho idea di come tutto questo possa essere stato recepito all’estero, ma Jonah Martini è un fumetto che ci parla della sostanza di cui è fatta l’Italia. Senza luoghi comuni o pericolose cessioni a quello che i lettori vorrebbero sentirsi dire.



La narrazione rispecchia a pieno questa scelta. La tavola si frammenta in modo deciso, rallentando il ritmo e favorendo un’andatura riflessiva. I personaggi sono prolissi come mai potrebbero essere le loro controparti anglofone, le vignette si riempiono dei loro pensieri. Le splash page sono quasi bandite, mentre il particolare certosino sbalza dalla lista delle priorità la sensazione forte a ogni costo. Disegni di una classe infinita e colorazione che ti immerge da subito in un’epoca passata completano un quadro senza crepe apparenti.



Jonah Martini rimane un’opera di genere, ma l’amarezza che la permea gli dona una profondità indispensabile per saldarla in maniera indissolubile al nostro immaginario. Curioso constatare come, nonostante i vari nomignoli appioppati al nostro staterello, difficilmente le nostre storie prevedano un lieto fine. Qualcosa vorrà pur dire.

giovedì 15 gennaio 2009

[video] I Wrestled a Bear Once - Tastes like Kevin Bacon





Miglior moniker, titolo e video della settimana. Menzione speciale per i balletti fuori ritmo della cantante e il movimento pelvico del batterista (in conclusione allo stacchetto elettropop anni'80).

mercoledì 14 gennaio 2009

[oldies but goldies] Too many ways to be no 1 di Wai Ka Fai (HK/1997)




Che Wai Ka Fai sia un genio è chiaro a tutti. Cofondatore assieme a Johnnie To della Milkyway Image, regista e sceneggiatore dalla tecnica strabiliante, autore in grado di passare dalle commedie alimentari all’avanguardia più sfrontata. Un autentico uomo di cinema, calato completamente nel mercato e capace di muoversi tra complete cessioni al mercato (proprio come To, uno che passa dal corrispettivo cantonese dei nostri cinepanettoni ai capolavori noir nel giro di qualche mese) ed esperimenti azzardati. Tra questi il western metafisico The Peace Hotel (1995) e, soprattutto, questo Too many ways to be no 1.



Maratona nel grottesco e nel cinismo più soffocante, Too many ways si propone come uno Sliding Doors virato al nero. Il destino di un pugno di perdenti dipende da una singola scelta, ma le conclusioni non saranno poi così diverse. Il fatalismo che impregna tutte le produzioni della Milkyway prima maniera (confermando l’intenzione di una sorta d'autorialità produttiva) si eleva al quadrato, sconfinando nell’eccesso e in umorismo tanto crudele da smettere in fretta di far ridere. Intenzionalmente.



Rappresentativo di questo la scelta di stravolgere il senso del linguaggio cinematografico, ammantandolo di un alone amaro. Nonostante gran parte dell’opera si basi sul piano sequenza, strumento da sempre privilegiato nella trasposizione della realtà su pellicola, la scelta di utilizzare ottiche deformanti, sgranature, angolazioni inusuali (un esempio su tutti, un’intera rissa ripresa sottosopra) suggerisce una visione della stessa molto meno rassicurante di un’istantanea limpida e cristallina. Un pessimismo cosmico , privo dell’aura di disperato eroismo della HK del ventennio d’oro, ma che si ricollega direttamente alla grande tradizione noir dei ’40 (Detour di Edgar G. Ulmer su tutti). L’incarto da giochino meta cinematografico viene meno proprio in virtù della sgradevolezza della pellicola, della sua capacita di immergersi nel pantano fetido di chi sta ai margini. Nessuno spazio per metafore e simboli, ma solo un’urgenza e una foga che colpiscono come un calcio al volto.



Opera per pochi, kitsch oltre ogni limite nell’affastellare eventi, idee e personaggi nello spazio di 90 minuti. Ma anche gelido manuale di scrittura e regia, tanto si avvicina alla perfezione. Film contradditorio e irripetibile, nascosto e dimenticato come lo è stato My heart that eternal rose di Patrick Tam (melodramma dai picchi estremi, elevato a storia del cinema dai pochi istanti della sparatoria finale). Poco altro da aggiungere.




martedì 13 gennaio 2009

[ma quanto lo aspetto?] Buppah Rahtree 3

In questo fichissimo articolo sui film thai più attesi del 2009 c'è anche un riferimento a Buppah Rahtree 3. Due considerazioni: non adorare almeno il primo film della seria è impossibile (nel mio solito speciale sul cinema thai ci trovate qualche riga a riguardo) e, come se non bastasse, la locandina del nuovo capitolo è a dir poco stupenda. Perchè non far partire il conto alla rovescia?

lunedì 12 gennaio 2009

[trailer] Bronson di Nicholas Winding Refn (UK/2009): il nero si tinge di follia.





Quando dirigi la trilogia noir definitiva è lecito che tutti si aspettino grandi cose da te. Quando poi il plot del tuo nuovo film è quello qui sotto le lacrime agli occhi sono obbligatorie.



Charlie Bronson, Britain’s most violent prisoner and the antihero of Nicolas Winding Refn’s tour de force, is a man with a calling. He just needed jail time to find it. In 1974, Charlie robs a post office and draws a seven-year sentence. But stone walls do not a prison make. His “hotel room” becomes an incubator for his art, which is violence. Taking a perverse glee in fighting, he’s sent to a mental institution, where, drugged and drooling, he still musters defiance. His eventual release is short lived, and he returns to jail. Placed in an art class, Charlie creates his masterpiece. It is not a painting. Though based on a real person, Bronson is less a biopic than a virtuosic explosion of style. With twisted imagery, the music of Wagner and Pet Shop Boys, and a stunning performance by Tom Hardy, Refn creates an aesthetic that is both complicit in Charlie’s violence but also theatrical. Charlie narrates his own story before an audience, and the movie is just an extension of this burlesque staging. Our moral compass reeling, we’re tempted to see him as an animal, but violence is simply the fullest expression of his identity. Overjoyed by his fame and ever-increasing capacity for harm, Charlie walks the cellblock beaming with pride. He has become somebody. He is—quite terrifyingly—the hero of his own story.



Nicolas Winding Refn è uno dei più promettenti registi europei. Annicchilente, senza limiti dettati dal pudore. Dotato di uno sguardo sul buio più impenetrabile. Lo stile cambia, ma il suo interesse per un'umanità disperata sembra lo stesso. La spettacolarizzazione della messa in scena (rispetto al linguaggio da documentario dei suoi precedenti lavori) pare il frutto di un viaggio dentro la testa di uno psicopatico piuttosto che il solito teatrino da crime movie stiloso. Film dell'anno. A priori.

venerdì 9 gennaio 2009

Bert Simons e i suoi cloni di carta

Temete che dopo la vostra morte possa non rimanere più nulla di voi? Fate come Bert Simons e clonatevi. Cliccate qui e scaricate il .pdf. Armatevi di forbici, colla e taaanta pazienza. Dopo qualche ora avrete a casa vostra una perfetta copia dell'artista.

I giocattoli gotici di Kris Kuksi






Probabilmente il Kansas è molto più vicino all'inferno di quanto pensiamo. O almeno questa è la mia spiegazione per questi incubi. Insomma, deve esserci qualcosa di malato nello stato che da asilo a uno come Kris Kuksi. Qui il sito ufficiale.

giovedì 8 gennaio 2009

Ryan McGinness e l'estetica del caos






Non male per uno skater di Virginia Beach. Qui il suo sito. Mentre qui trovate alcune pagine del suo ultimo libro, Sin/No Future. Stampato in 2500 copie, costa circa 60 dollari. Direi che li vale tutti

mercoledì 7 gennaio 2009

Alla Nokia i maghi non sono solo quelli del marketing





Postare video virali è piuttosto banale, ma questo della Nokia è un prodigio. Non ho ancora capito come fa a beccarla ogni volta.

lunedì 5 gennaio 2009

Nordic Vision: il lato intelligente del black metal

Alla fine anche il black metal ha portato qualcosa di buono (non me ne vogliano i blackster più true/grim/raw). Nordic Vision è una fanzina norvegese altamente settoriale e stampata senza editore, ma capace di riscrivere i canoni del magazine musicale. Carta patinatissima, pochi articoli ma ben approfonditi (si consideri che vengono dedicate 10 pagine agli Orcustus, autori di un solo, introvabile EP), cura maniacale per grafica e shooting. Dalla scelta dei font al rispetto per la fotografia (tutte a pagina piena, più alcuni clamorosi casi di pagina doppia, zero cazzate da satanista della domenica) tutto denota un gusto eccezionale, tra il minimalista e il gelido (molto black). Un gran numero di scelte scomode a livello contenutistico denota la voglia di tenersi alla larga da certe faglie merdallare ancorate a clichè nati morti 20 anni fa. Capolavoro di editoria, prodotto inarrivabile anche per nomi ben più blasonati (ed economicamente forniti).


sabato 3 gennaio 2009

The Coffin di Ekachai Uekrongtham (Tha/2008)




Dopo Missing di Tsui Hark ecco un nuovo esperimento di fusione tra ectoplasmi e melodramma. The Coffin prende il via da una finta sepoltura, un rituale di massa atto a giocare il destino e garantire a chi si sottopone al folkloristico esperimento una nuova vita. Fin qui nulla più che una sorta di rilettura esoterica di quanto già visto nella serie Final Destination, se non fosse che siamo in Tailandia piuttosto che negli Stati Uniti. E questo cambia più carte in tavola di quanto ci si aspetti.



Per lo spettatore occidentale uno degli aspetti più affascinanti della filmografia horror di questa nazione è la serietà e la normalità con cui si prende l’aspetto sovrannaturale. Se in un film tailandese si parla di fantasmi o di spiriti non si assisterà a scenate isteriche da parte dei protagonisti, semplicemente ci si recherà dallo stregone più vicino per vedere di chiedere scusa alle entità che si ha involontariamente disturbato. Proprio come nell’horror Hong Konghese degli anni ’80 anche nel caso della new wave thai questi aspetti di colore locale finiscono per essere uno dei motivi di maggiore interesse, spostando il baricentro da curiosità a ingrediente fondamentale per la costruzione di un’atmosfera inimitabile.



Ed è esattamente questo che succede in The Coffin: se io truffo gli spiriti facendogli credere di essere morto questi avranno più di un motivo per inalberarsi, con le logiche conseguenze. Se nella serie US i giovani protagonisti potevano ambire a giocare la morte, qui al massimo si può arrivare a rimettere le cose a posto. Dalla nazione che ha partorito un concentrato di atrocità come Art Of The Devil 2 (uno dei film che, con i suoi ami sottocutanei e le sue fiamme ossidriche, ha contribuito a spostare l’ago del lecitamente visibile) ci si aspettava una nuova tempesta di sangue e frattaglie, ma ci si sbagliava di grosso: Ekachai Uekrongtham ci racconta due vicende parallele, legate entrambe alla stessa cerimonia, struggenti e disperate. Ben presto le apparizioni sovrannaturali abbandonano lo spavento per caricarsi di amarezza e nostalgia, per non parlare chiaramente di disperazione.



La messa in scena di questo minuscolo film (80 minuti, una manciata di attori e di location) sfugge da ogni scelta facile, per sperimentare con ritmi lenti, salti temporali e filtri colorati. Il risultato finale è comunque sommesso e funereo, lontano da pacchianate a effetto. Non siamo certo dalle parti del capolavoro, neppure inscrivendolo al genere (anche dopo qualche anno è Dorm a rimanere il vero capolavoro horror thai). Quello che ci rimane è un buon lavoro, ferocemente attaccato alla sua nazionalità ma con la voglia di sfondare la concezione di “cinema di paura” come veicolo unicamente di brividi o suggestioni politiche.

Sars War di Taweewat Wantha (Tha/2004): finalmente il dvd regione 0


Non avete più scuse. Qui potete ordinare la nuova versione HK di Sars War. Il dvd è regione 0 e completamente sottotitolato in inglese. Perchè rimandare ancora la visione del più folle zombie movie di sempre?



Se siete maniaci del packaging (e avete un lettore crackato) potete sempre ripiegare sul dvd thai: digipack scintillante e con figure in rilievo. Vi giuro, riesce a essere kitsch perfino tra le mie pile di vcd splattoni e le VHS dei vecchi post atomici all'italiana. Mica poco.

venerdì 2 gennaio 2009

Missing (The Eye 3) di Tsui Hark (HK/2008)




Se dovessimo abbassare il valore di un lungometraggio a contenitore generico potremmo dire che in Missing c’è tanta roba buona, così come una tonnellata di cose sbagliate. Che, malauguratamente, sono andate a coprire proprio quelle di valore.



Missing, oltre a essere il terzo fantomatico capitolo del franchise The Eye, è anche il nuovo lavoro del Maestro Tsui Hark. Uno che nella sua vita ha rivoluzionato il cinema un paio di volte, ma anche un personaggio che ha sempre schifato il cinema d’autore per fiondarsi in sala a godersi film di arti marziali (parole sue). Insomma, uno da cui non sai minimamente cosa aspettarti. E così infatti è stato pure per questo suo nuovo parto.



Missing parte con il presupposto di allontanare l’ectoplasma dalla sua prigione jhorror per poterlo immergere in un contesto da melodramma. Non una completa novità, se si vogliono ricordare due splendidi esempi come Whispering Corridors 2: Memento Mori dei sud coreani Tae-Yong Kim e Kyu-Dong Min e Dorm del tailandese Songyos Sugmakanan. Se il secondo è un capolavoro di dolcezza, una delicata vicenda di fantasmi bambini, il primo rappresentava invece un autentico fulmine a ciel sereno. Un inconsueto triangolo amoroso lei – lei - l’altra (ma morta) ad ambientazione liceale, che sfuggiva a ogni tentazione pruriginosa o politica. Nella stessa maniera Missing punta a narrare la straziante storia d’amore tra due entità su diversi piani della realtà, anche se con toni più cupi rispetto agli esempi appena riportati.



Un avvio splendido, un’atmosfera da apocalisse imminente che riporta alla memoria Hitchcock (grazie soprattutto alla opprimente colonna sonora orchestrale), un’attenzione maniacale all’aspetto acquatico della vicenda portata avanti anche con sapienti scelte di fotografia. L’atmosfera è rarefatta, tesa, come se la minaccia fosse nascosta dietro a ogni angolo. Peccato che appena la minaccia entri nell’inquadratura il film incominci a barcollare pericolosamente.



Esattamente alla stessa maniera la seconda parte (dove subentra prepotentemente il melodramma) si affloscia su se stessa quando la suggestione si materializza nella sceneggiatura. Missing mostra troppo e per un lasso di tempo troppo lungo, smette di sussurrare e incomincia a spiegarci per filo e per segno ogni cosa. Sia che si parli di spaventi o di storie d’amore.



Ne rimane un film monco, che risulta comunque affascinante nel suo tentativo di abbattere i muri del genere. Da parte sua Tsui Hark garantisce un grado di perizia tecnica imbarazzante anche quando cerca di mimetizzarsi. Peccato per la sceneggiatura.

Whopper Virgins: e le lezioni di civiltà?

Nonostante passi una buona fetta del mio tempo libero in compagnia di signori come Paul Verhoeven, Takasi Miike, Park Chan Wook riesco sempre a trovare qualcosa che mi disturbi. In questo caso la nuova campagna per Burger King. E non è la solita tirata anti multinazionale, qui la faccenda è molto più grave.



Qualcuno faccia capire agli americani che fuori dai loro confini il mondo non si è fermato 200 anni fa, che il nostro guardaroba va un pochino più in la degli abiti tradizionali, che le case in muratura ci sono anche da noi. E che magari senza whopper ci stiamo piuttosto bene.



Ma probabilmente sono io a fraintendere, perchè loro hanno eletto un negro (caratteristica più distintiva e pregnante dell'essere un politico capace, visto che solo di quello si parla) come presidente.



Grazie per le lezioni di civiltà.