Dopo Missing di Tsui Hark ecco un nuovo esperimento di fusione tra ectoplasmi e melodramma. The Coffin prende il via da una finta sepoltura, un rituale di massa atto a giocare il destino e garantire a chi si sottopone al folkloristico esperimento una nuova vita. Fin qui nulla più che una sorta di rilettura esoterica di quanto già visto nella serie Final Destination, se non fosse che siamo in Tailandia piuttosto che negli Stati Uniti. E questo cambia più carte in tavola di quanto ci si aspetti.
Per lo spettatore occidentale uno degli aspetti più affascinanti della filmografia horror di questa nazione è la serietà e la normalità con cui si prende l’aspetto sovrannaturale. Se in un film tailandese si parla di fantasmi o di spiriti non si assisterà a scenate isteriche da parte dei protagonisti, semplicemente ci si recherà dallo stregone più vicino per vedere di chiedere scusa alle entità che si ha involontariamente disturbato. Proprio come nell’horror Hong Konghese degli anni ’80 anche nel caso della new wave thai questi aspetti di colore locale finiscono per essere uno dei motivi di maggiore interesse, spostando il baricentro da curiosità a ingrediente fondamentale per la costruzione di un’atmosfera inimitabile.
Ed è esattamente questo che succede in The Coffin: se io truffo gli spiriti facendogli credere di essere morto questi avranno più di un motivo per inalberarsi, con le logiche conseguenze. Se nella serie US i giovani protagonisti potevano ambire a giocare la morte, qui al massimo si può arrivare a rimettere le cose a posto. Dalla nazione che ha partorito un concentrato di atrocità come Art Of The Devil 2 (uno dei film che, con i suoi ami sottocutanei e le sue fiamme ossidriche, ha contribuito a spostare l’ago del lecitamente visibile) ci si aspettava una nuova tempesta di sangue e frattaglie, ma ci si sbagliava di grosso: Ekachai Uekrongtham ci racconta due vicende parallele, legate entrambe alla stessa cerimonia, struggenti e disperate. Ben presto le apparizioni sovrannaturali abbandonano lo spavento per caricarsi di amarezza e nostalgia, per non parlare chiaramente di disperazione.
La messa in scena di questo minuscolo film (80 minuti, una manciata di attori e di location) sfugge da ogni scelta facile, per sperimentare con ritmi lenti, salti temporali e filtri colorati. Il risultato finale è comunque sommesso e funereo, lontano da pacchianate a effetto. Non siamo certo dalle parti del capolavoro, neppure inscrivendolo al genere (anche dopo qualche anno è Dorm a rimanere il vero capolavoro horror thai). Quello che ci rimane è un buon lavoro, ferocemente attaccato alla sua nazionalità ma con la voglia di sfondare la concezione di “cinema di paura” come veicolo unicamente di brividi o suggestioni politiche.
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