martedì 6 maggio 2008

Botte, sangue e risate: il nuovo cinema thai (Parte 2)

Effettivamente a oggi la scrittura e la costruzione di un immaginario dotato di basi solide sembrano essere decisamente il punto debole di questa new wave (naturalmente con le sue notevoli eccezioni, esempio su tutti il noir esistenzialista Last Life In The Universe, lavoro in cui il colpo di scena risolutore è inserito talmente ad arte da sfuggire allo spettatore meno attento), finendo spesso per impantanarsi in un impasse a metà tra l’ultranazionalismo e il derivazionismo coatto o, in alternativa, nell’assoluta mancanza di una sceneggiatura.

In controtendenza il recente Dinamite Warrior(Khon Fai Bin, di Chalerm Wongpim, 2006) si propone invece come film di arti marziali alla Tony Jaa (e in effetti il coreografo e il produttore sono gli stessi dietro ai successi del superatleta) ma nasconde invece al suo interno un considerevole sforzo verso un’effettiva maturazione a tutto tondo. Il risultato è degno dei migliori wuxia Hong Konghesi, ma riletto sotto una luce tipicamente thai: abbiamo così un guerriero misterioso epigono di Robin Hood, una trama capace di miscelare dati storici con magia nera e colpi di scena, una marea di citazioni dall’opera di Sergio Leone, tante botte e una messa in scena più vicina al fantasy orientale classico (quindi sporca e violenta) rispetto che ai moderni polpettoni al gusto di plastica a opera di Yimou Zhang. L’opera ha moltissimi difetti, ma il passo avanti rispetto agli esperimenti precedenti in campo action è effettivamente grandioso.

La compattezza della produzione di questa nazione è quella tipica delle scuole di pensiero fortemente radicate nella cultura che le ha generate, esattamente come successe in Italia tra gli anni ’60 e gli anni ’70 o, come si è già detto, a Hong Kong negli anni ’80. In questa ondata di registi e sceneggiatori devono comunque esistere delle figure guida, una delle quali può essere ricondotta senza il minimo dubbio al giovane Yuthlert Sippapak, capace di dare in pasto al pubblico due tra le opere più rappresentative del frullato pop a cui fa capo il cinema thai. Stiamo parlando di Killer Tattoo (2001), sorta di action comedy dove trovate ai limiti della parodia convivono con parentesi melodrammatiche ed eccessi balistici degni del Ringo Lam di Full Contact (Haap dou Ko Fei, 1993), e del piccolo cult Buppah Ratthtree (2003), scheggia impazzita dove è possibile ritrovare struggenti storie d’amore, commedia, horror e splatter, in un carosello totalmente folle che non può non ricordare (anche per follia espositiva e furore registico) il capolavoro Save The Green Planet! (Jigureul jikyeora!, del sud coreano Joon-Hwan Jang, 2003), uno degli esempi più meravigliosi e meglio riusciti di come ci sia sempre qualcosa di nuovo da dire, nel cinema come in ogni altra forma di comunicazione. Sippapak consegna così ai posteri una filmografia fatta di colorati fumetti ricchi di sfumature, a volte profondi come film più dichiaratamente autoriali a volte semplici giocattoli con cui trastullarsi per il tempo della loro durata, molto più spesso entrambi nel medesimo tempo, ricchissimi di idee, sangue, lacrime e risate.

Uno dei punti su cui questo cineasta pare insistere molto è, al pari di una grandissima fetta di tutto il cinema thai, la simpatia per quelli che molta gente definirebbe come outcast, fuori casta. L’appartenente alla minoranza, il povero, il tagliato fuori dal mondo civile, figure solitamente escluse dal mondo del cinema, se non per poterle sfruttare a fini politically uncurrect o, all’opposto, ai limiti del patetico (limite ampiamente superato quando il film in questione viene presentato in qualche vetrina internazionale), nel folle immaginario dei vari Sippapak riescono a prendersi la loro rivincita sul mondo dei cosiddetti normali. Nel B-movie Sars War (Khun Krabii hiiroh, di Taweewat Wantha, 2004) sorta di sgangherato e sovraccarico omaggio ai monster movie di derivazione eco vengeance, il bruttissimo protagonista Suthep Po-ngam, quaranta chili di ometto calvo e sdentato, non solo combatte come un Bruce Willis dei tempi d’oro ma si porta pure a letto, con grande soddisfazione di lei, la porno scienziata di turno.

Da notare come il vero protagonista, naturalmente belloccio e tutto preso da mosse sempre più cool, riesca anch’esso a concludere con la bellezza da salvare come da copione, ma sul più bello questa si riveli un/a transgender, tipologia di personaggio, presente molte volte anche come comunità, che praticamente compare in tutti i film come interprete di una sorta di terzo sesso. Non uomini travestiti da donne o viceversa, ma semplicemente entità comprese tra i due estremi, situazione borderline spesso talmente naturalizzata da non prevedere particolari accorgimenti in fase di sceneggiatura (uno è un travestito, punto e basta, senza portare per forza di cose ad altro). Naturalmente anche questo punto, oltre che difformità e disuguaglianze sociali, è sfruttato oltre misura per siparietti da avanspettacolo, riuscendo a far convivere nella stessa cinematografia rispetto assoluto e totale mancanza di correttezza.

Nel campione d’incassi The Bodyguard, il protagonista mena senza pietà Sayan Meungrajarn, un noto comico tailandese affetto da sindrome di down, dopo averne prese a vagonate (come altri durante il film) proprio da quest’ultimo. Un’apparente mancanza di rispetto verso le minoranze che si può benissimo tradurre come completa accettazione di quest’ultimi come membri a tutti gli effetti della società, lontana anni luce dal trattamento melenso e autenticamente classista che queste tipologie di persona hanno nella produzione cinematografica occidentale.

Una sensibilità che traspare con tutta la sua irruenza anche nel recente Dorm (Dek Hor, di Songyos Sugmakanan, 2006), commovente e dolcissima storia di fantasmi bambini. Come in una controparte orientale di Stand By Me o del bildungsroman ad opera di Joe R. Lansdale La Sottile Linea Scura, il giovane protagonista Chatree chiuderà definitivamente la parentesi infantile della sua vita venendo a contatto con la morte, diventando proprio il migliore amico di un bambino morto qualche anno prima nella sua stessa scuola. Racconto di una morbidezza e di una classe unici (basti pensare a come il fatto che l’amico sia un fantasma non viene sfruttato per nessun tipo di colpo di scena, prediligendo scelte più naturali e meno ad effetto), basato su di una fotografia splendida e su languidi movimenti di macchina, dove tutti i meccanismi di tensione vengono sfruttati solamente nei sogni o nelle visioni del piccolo protagonista (ponendosi quindi come immaginario nell’immaginario, e disinnescandosi di conseguenza) e dove il lieto fine si accoglie, per una volta, a braccia aperte. Una prova di maturità che non ci sarebbe mai aspettati all’interno di un mercato dove pare che il genere tiri solamente se eccessivo al limite del ridondante, lontana da clichès horror sia orientali che occidentali.

Un film piccolo, piccolo, magnificamente scritto e realizzato, ma soprattutto impensabile fuori dai confini della sua nazione.



Person Tony Jaa
Right click for SmartMenu shortcuts

Nessun commento: