mercoledì 22 dicembre 2010

Non ci sono più le famiglie di una volta: Animal Kingdom di David Michod (Australia/2010)




Uno degli errori più comuni in cui si può cadere parlando di cinema (o di qualsiasi altra forma di espressione creativa) è la frammentazione del discorso critico. Si analizza la sceneggiatura, poi la regia, magari si spende qualche parola su montaggio o colonna sonora e infine si passa agli attori. La figura dell’autore totalizzante è sempre più rara (anche perché si spendono sempre più parole a difendere innocui shooter privi di spessore) e quindi è naturale che ogni comparto della filiera cinema sia analizzato in separata sede. Fortuna che ogni tanto vengono a galla opere come questo Animal Kingdom, dove tutto è basato sulla coesione di linguaggi.



Con un titolo così ti aspetti la solita corsa all’eccesso, l’ormai classico effetto domino che porta a conseguenze sempre peggiori. Ti immagini una gabbia dei leoni tratteggiata con pennellate grezze e qualunquiste, dove il rapporto di azione-reazione porta sempre e comunque a scene madri fatte di testosterone/smargiassate/esasperazione. E invece abbiamo un Pusher in chiave australiana, dove non esiste carisma o climax gasante. L’unica differenza con la trilogia di Refn è l’estrema eleganza scelta da David Michod. Se il danese si affida alla camera a mano e a una fotografia squallida, in Animal Kingdom abbiamo languide carrellate, un montaggio invisibile e una paletta dai colori tenui (non desaturati).



Più che di affresco criminale si dovrebbe parlare di dramma familiare, genere di cui prende anche il ritmo intimista e privo di colpi di scena. Muore parecchia gente, in maniera anche brutale, come se tutto fosse naturale e scontato. Assistiamo a una faida tra la polizia e una famiglia di malavitosi, eppure siamo più concentrati sui rapporti tra fratelli e zii. Sono in molti a cadere, ma la cosa che ci fa più male è la sgradevolezza di certi personaggi e l’inutilità di altri. Lo stesso protagonista (interpretato in maniera straordinaria da James Frecheville) spesso infastidisce per l’ inadeguatezza e la mancanza di carattere. Si lascia trascinare, fino al dovuto colpo di coda finale.



Tutto in Animal Kingdom è sottotono. Non esistono picchi. La colonna sonora si manifesta in maniera minimale, andando a fare da cornice a momenti rallentati in fase di montaggio (unico espediente stilistico veramente visibile e carico di forza emozionale). Pochissime parole, ancora meno fatti. La parola chiave è rarefatto . Straordinaria in questo senso è la scena del primo arresto dello zio Pope. Il protagonista si alza dal divano e lascia il soggiorno, sullo sfondo vediamo le forze speciali già in casa e pronte a intervenire. Parte il tema musicale, i fotogrammi al secondo si moltiplicano regalandoci un rallenty straordinario. Una delle scene più importanti del lungometraggio guadagna un minimo di importanza solo in virtù di questa trovata, altrimenti si sarebbe conclusa in pochi istanti.



Uno dei film dell’anno, proprio in virtù della sua capacità di compattare ogni aspetto della messa in scena. Tutto è allineato, donando all’insieme la coesione necessaria a reggere un’atmosfera così gelida e distante. Sarebbe bastato un colpo di scena in più, un monologo troppo sopra le righe, uno scivolone nel gratuito e il castello di carte sarebbe crollato in un soffio. Fortunatamente David Michod l'ha capito prima di noi.



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