Questa non è una recensione che parla del film in sé, quanto della mente da cui è stato generato. Nella percezione comune parrebbe un’operazione più adatta a certo cinema autoriale (o comunque dotato di un determinato peso) piuttosto che a una commedia romantica. Perché, lo dico a scanso di equivoci, Love in a Puff è una commedia rosa. Leggera leggera, di quelle che ti scivolano via dopo averti garantito 90 minuti di dialoghi frizzanti e risatine a buon mercato. Allora perché parlarne? Perché il regista è Pang Ho Cheung, forse la mente più frizzante di tutto il nuovo cinema di HK. Tanto per farvi capire questo film è stato girato mentre problemi produttivi bloccavano la continuazione di Dream Home, horror politico che mi dicono violento e sgradevole come pochi. E ricordo che prima di questo ci sono stati, tra le altre cose, il dramma familiare, la commedia metalinguistica sul noir balistico, il film a episodi e il capolavoro ginofobico Exodus (e una storia per la Passenger Press. Ammicco, ammicco). Non male per un ragazzo del 1973, che si produce da solo per avere completa libertà d’espressione.
Love in a Puff è un film infinitamente complesso nel suo minimalismo e nella adorabile evanescenza. Parte dalla contemporaneità e dal vissuto di tutti per costruire una storia squisitamente comune, eppure ficcante e ben congegnata. Così un genere solitamente snobbato diventa saggio di come si debba fare cinema.
Motore di tutta la vicenda è la legge di HK del 2007 che vieta di fumare praticamente ovunque. Per potersi concedere la tanto agognata pausa sigaretta diventa necessario raggiungere zone apposite, dove si incontrano più tabagisti provenienti da diversi impieghi. Chiunque lavori in ufficio/officina/fabbrica conosce bene il microcosmo sociale che nasce e muore a ogni stacco. Persone che durante le classiche otto ore non avrebbero nulla in comune diventano, durante quei 5/10 minuti, interlocutori insostituibili. Rituali di cui non si farebbe mai a meno, organizzati con turni e rotazioni tanto perfette e bene oliate che parrebbero essere parte integrante del lavoro. Poi, una volta spenta l’ultima sigaretta, tutti tornano sulla propria strada. E’ impensabile che si sia dovuti arrivare al 2010 per girarci un film romantico.
Da questo presupposto Pang costruisce una sceneggiatura dove ogni snodo, ogni buco, ogni svolta narrativa vengono veicolati dalle sigarette. Le leggi circa il consumo delle stesse entrano in ballo più volte, determinando i passaggi più importanti. Di per sé il film pare costruito sul modello della pausa di metà mattina/metà pomeriggio. E’ corto, si parla tantissimo (ma si combina molto poco), si salta di palo in frasca e subito dopo ci si rende conto che, per quanto caduco ed evanescente, il piacere guadagnato è insostituibile. La classe del regista poi si riconosce da come la storia non nasca e non muoia durante i 90 minuti scarsi del lungometraggio, dall’evitare accuratamente ogni sorta di ammiccamento forzato e dalla presenza sottile della noia. Dopotutto è impensabile che le storie d’amore nascano senza lunghe conversazioni inutili e gratuite, proprio come quelle che si fanno alla macchinetta del caffè.
Pang si allontana dal circuito festivaliero a cui pareva essere destinato e si restituisce al cinema popolare con un esempio perfetto di coesione tra ogni aspetto della narrazione. E’ intrattenimento di altissima gamma, una vetta che per essere raggiunta richiede autentici teorici della settima arte e non shooter senza volto. Il Nostro dimostra di essere una piovra, di poter arrivare ovunque portando sempre a casa il risultato. Da qualunque punto lo si guardi. E giocandosi più di quello che uno si aspetta: Love in a Puff, penso per via dello sconsiderato numero di sigarette fumate durante il suo minutaggio, è uscito in patria bollato con un bel VM18. Senza contare che, vista l’avversione per il tabacco da parte di associazioni tipo MOIGE, anche i diritti esteri non saranno così facili da vendere. Tanto per allontanare ulteriormente lo spettro dell’opera alimentare.
Love in a Puff è un film infinitamente complesso nel suo minimalismo e nella adorabile evanescenza. Parte dalla contemporaneità e dal vissuto di tutti per costruire una storia squisitamente comune, eppure ficcante e ben congegnata. Così un genere solitamente snobbato diventa saggio di come si debba fare cinema.
Motore di tutta la vicenda è la legge di HK del 2007 che vieta di fumare praticamente ovunque. Per potersi concedere la tanto agognata pausa sigaretta diventa necessario raggiungere zone apposite, dove si incontrano più tabagisti provenienti da diversi impieghi. Chiunque lavori in ufficio/officina/fabbrica conosce bene il microcosmo sociale che nasce e muore a ogni stacco. Persone che durante le classiche otto ore non avrebbero nulla in comune diventano, durante quei 5/10 minuti, interlocutori insostituibili. Rituali di cui non si farebbe mai a meno, organizzati con turni e rotazioni tanto perfette e bene oliate che parrebbero essere parte integrante del lavoro. Poi, una volta spenta l’ultima sigaretta, tutti tornano sulla propria strada. E’ impensabile che si sia dovuti arrivare al 2010 per girarci un film romantico.
Da questo presupposto Pang costruisce una sceneggiatura dove ogni snodo, ogni buco, ogni svolta narrativa vengono veicolati dalle sigarette. Le leggi circa il consumo delle stesse entrano in ballo più volte, determinando i passaggi più importanti. Di per sé il film pare costruito sul modello della pausa di metà mattina/metà pomeriggio. E’ corto, si parla tantissimo (ma si combina molto poco), si salta di palo in frasca e subito dopo ci si rende conto che, per quanto caduco ed evanescente, il piacere guadagnato è insostituibile. La classe del regista poi si riconosce da come la storia non nasca e non muoia durante i 90 minuti scarsi del lungometraggio, dall’evitare accuratamente ogni sorta di ammiccamento forzato e dalla presenza sottile della noia. Dopotutto è impensabile che le storie d’amore nascano senza lunghe conversazioni inutili e gratuite, proprio come quelle che si fanno alla macchinetta del caffè.
Pang si allontana dal circuito festivaliero a cui pareva essere destinato e si restituisce al cinema popolare con un esempio perfetto di coesione tra ogni aspetto della narrazione. E’ intrattenimento di altissima gamma, una vetta che per essere raggiunta richiede autentici teorici della settima arte e non shooter senza volto. Il Nostro dimostra di essere una piovra, di poter arrivare ovunque portando sempre a casa il risultato. Da qualunque punto lo si guardi. E giocandosi più di quello che uno si aspetta: Love in a Puff, penso per via dello sconsiderato numero di sigarette fumate durante il suo minutaggio, è uscito in patria bollato con un bel VM18. Senza contare che, vista l’avversione per il tabacco da parte di associazioni tipo MOIGE, anche i diritti esteri non saranno così facili da vendere. Tanto per allontanare ulteriormente lo spettro dell’opera alimentare.
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