Visto che questo film ormai l’hanno visto praticamente tutti ci dedico solo due righe rapide, tanto per riflettere sulla straordinaria operazione cinefila portata avanti da Pang.
C’era una volta il b-movie, filone dai mille tentacoli mossi da un’unica forza motrice: lo stomaco. Nell’epoca d’oro del cinema bis schiere di registi e produttori capirono che, per sopperire alla povertà di mezzi, si doveva puntare alle viscere dello spettatore. Fargli staccare il cervello e dargli esattamente quello che voleva. Spazio a sangue, frattaglie e carnazza al vento. E quando questo non bastava ecco che si presentava l’instant movie. In poche parole: si prendeva l’argomento caldo del periodo e ci si costruiva sopra una trama raffazzonata. La si rafforzava con qualche provocazione gratuita e il gioco era fatto.
Manco a dirlo una delle cinematografie più avvezze a queste meccaniche produttive era la bulimica Hong Kong, dove nel ventennio d’oro si producevano centinaia di film all’anno. Sui cartelloni delle sale svettavano, per ignoranza e capacità di speculazione, i famigerati CAT. III. Lavori privi di tatto e ipocrisia, dove si affastellavano bassa macelleria, richiami all’attualità e il solito umorismo pecoreccio tipico della commedia cantonese. Un concentrato di pura exploitation. A esempio di tutto questo si recuperi la versione Tai Seng del celebre The Untold Story, forse l’esempio più celebre di questo sub genere (e pugno allo stomaco con ancora pochi pari).
Anno 2010. Dobbiamo ancora riprenderci dalla sbornia di pellicole rovinate in digitale, dagli ammiccamenti agli anni ‘70/’80, dal mimetismo e dalle meta trovate che hanno smesso di far ridere nel 1997. Ci sorprendiamo a sbavare su cagatine senza peso quando Pang Ho Cheung se ne esce con Dream Home e realizza la miglior attualizzazione che si potesse fare dell’horror da videoteca dei bei tempi andati. La ricetta è semplice: prende un argomento d’attualità (la crisi dei mutui) e ci costruisce attorno una vicenda dall’alto tasso di cafonaggine splatter. Tra morti con un bong conficcato in testa (una cosa che pensavo possibile solo nei video dei Cannabis Corpse) e doppi sensi da caserma si capisce che non siamo proprio dalle parti della raffinata riflessione cinefila.
A questo si accompagna una messa in scena accattivante (in un digitale cristallino) e una sceneggiatura tutta basata su salti temporali. Il nucleo sarà anche ben radicato nella tradizione della serie B, ma il guscio invece si conferma moderno come pochi. Se il cinema di genere da saletta off non fosse morto oggi sarebbe proprio così. Per arrivarci occorreva un cineasta come Pang, acuto osservatore dei nostri tempi e colto cinefilo amante del basso. Il giovane regista non ci consegna comunque un capolavoro (quello rimane Exodus) ma una dimostrazione di forza intellettuale non indifferente.
A mettere in fila due zoomate spinte ci riescono tutti, meno facile è entrare nei meccanismi di certo cinema e svuotarli da tutti gli orpelli di forma per poterli rimodellare alle nostre nuove esigenze. Quando poi lo si fa portando avanti un discorso autoriale ben definito (Pang continua a esplorare il mondo femminile a modo suo) e girando in contemporanea una commedia romantica allora significa che qualcosa da dire lo si ha. Dura dimostrare il contrario.
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