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Concepito come narrativamente nullo proprio dal suo stesso autore, The valiant ones non è null’altro che una sequela di risse e di scontri marziali. Il risultato è da capogiro. Le coreografie fluide e mai sopra le righe di Sammo Hung vengono consegnate all’eternità da un montaggio al limite del subliminale, da movimenti di macchina inauditi e da un uso dello zoom che ne eleva lo status da simbolo dell’amatoriale a protesi naturale della carrellata. La frequenza e la complessità degli scontri va ad aumentare con lo scorrere dei minuti, fino al cataclismatico duello finale.
Lo spettatore si trova così al cospetto di 106 minuti di invenzioni e di raccordi azzardati. L’amore per la compressione, caratteristico di tutto il cinema di HK, viene portato alle estreme conseguenze unendo sinuosi movimenti di macchina a ellissi appena percettibili, senza dimenticare l’apporto drammatico di un sapente uso dello zoom. Campi strettissimi ci proiettano direttamente dentro l’azione, mentre l’inquadratura rimane incollata agli attori spesso in maniera del tutto inaudita.
Detto per inciso, oggi come oggi non esiste cineasta capace di tanto. Senza contare maestranze e atleti. King Hu sfrutta tutti i colori della tavolozza cinema, elevando il cinema popolare ad autentica avanguardia linguistica. Le sequenze vengono spezzettate in segmenti supersonici, frammentando la narrazione e spostando l’asse dalla comprensione alla percezione. L’occhio smette di identificare tutto quello che succede sullo schermo, il messaggio arriva direttamente al cervello.
In quanti ne sono capaci oggi?
Sotto trovate la sequenza finale, non ci sono problemi di spoiler, ma mi sembrava giusto avvisarvi.
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