Sasha ha due grossissimi problemi: in primo luogo è un bastardo sociopatico, freddo come un blocco di ghiaccio e incapace di non venire alle mani. In seconda istanza ha il simpatico dono, ogni qualvolta perda le staffe, di generare una lama dal palmo della sua mano destra. Più sarà la rabbia, più grande e potente sarà l’arma. Il regista russo Filipp Yankovsky, da parte sua e con nostro grandissimo sollazzo, invece non ha nessun tipo di problema: prende una storia che pare uno spinoff di qualche live action statunitense e, contrariamente a quanto avrebbero fatto i cugini d’oltreoceano, ne gira una bella trasposizione su celluloide.
Un comparto scenico e sonoro raffinatissimo avvicinano più volte questo lavoro al concetto di tableaux vivants, in vette che fino a ora si erano viste solamente in Sud Corea, con il genio Park Chan Wook e il sottovalutato Kim Ji Woon (chi non si commuove con il suo heroic bloodshed “A Bittersweet Life“ merita incondizionatamente l’etichetta di mostro-senza-cuore). Nonostante tutto il film abbia un andamento musicale (facendosi accompagnare unicamente da cupi archi e suggestioni orchestrali) e le immagini siano pesantemente trattate per garantirne una fotografia strepitosa, non si cade mai nel tranello del videoclip casinaro alla Saw.
Nel film si parla pochissimo e tutte le scene d’azione vengono rilegate all’interno di ellissi che non fanno che accrescere la paura per un arma/maledizione a cui non viene data nessuna spiegazione, negandone anche la vista e rilegando gli unici effetti speciali agli ultimi cinque minuti. Scelta di una classe infinita, che va a sposarsi con movimenti di macchina sinuosi e mai fini a se stessi, con scelte di montaggio coraggiose. Il film racconta senza mostrare nulla, facendoci vivere il prima e il dopo di ogni colluttazione, saltando a pie pari frangenti potenzialmente spettacolari per indugiare a camera fissa sulla solitudine di Sasha, cupo e pensieroso su di un tetto di qualche palazzone ex sovietico.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il film non ha nulla del pretenzioso, i silenzi non sono un vezzo autoriale quanto una necessità per poter rendere appieno la personalità del nostro antieroe. Una forte componente melodrammatica allontana definitivamente il pericolo di un film sterile e borioso, immergendoci in una vicenda che cattura il suo pubblico solo in virtù dei sentimenti estremi che vi provoca. Mechenosets ti agguanta senza mostrare esplosioni ogni venti secondi, senza azione esasperata, senza dialoghi da duro anni ’80, senza accelerazioni e rallentamenti di ogni singolo movimento di macchina. E tanto basta, anche se alcune pecche sono comunque disseminate nei suoi 110 minuti di durata, in primis una direzione dei comprimari (a differenza di Artyom “Sasha” Tkachenko, eccezionale) non sempre efficace. Piccole cose comunque, soprattutto se confrontate con il tour de force stilistico e narrativo dell’intera opera.
Titolo originale: Меченосец
Regia: Filipp Yankovsky
Sceneggiatura: Yevgeni Danilenko , Konstantin Syngayevsky
Fotografia: Marat Adelshin
Montaggio: Yaroslav Mochalov
Musiche: Igor Vdovin
Nazione: Russia
Anno: 2006
Durata: 108 min.
Sceneggiatura: Yevgeni Danilenko , Konstantin Syngayevsky
Fotografia: Marat Adelshin
Montaggio: Yaroslav Mochalov
Musiche: Igor Vdovin
Nazione: Russia
Anno: 2006
Durata: 108 min.
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