Domani finalmente potrò andare a dar man forte a Christian! Ci vediamo allo stand Passenger Press. Se vi presentate con il costume qui sopra un volume in regalo. Però scegliamo noi.
venerdì 30 ottobre 2009
giovedì 29 ottobre 2009
Ghostwire: sarò un bullo, ma io l'avevo detto
Sbalorditi? Allora cliccate qui. Ormai la strada è tracciata, e se Baudrillard fosse ancora vivo si farebbe una grassissima risata.
mercoledì 28 ottobre 2009
Donald & Simon: io odio Ralph Niese (anche se non disegno fumetti)!
Chiunque punti a diventare fumettista dovrebbe odiare gente come Ralph Niese. Ho scoperto i suoi lavori su Mekano Turbo, dove sfoggiava uno stile duro e graffiato, adatto all'atmosfera postapocalittica del personaggio. Ho avuto poi il piacere di lavorare con lui in virtù della collaborazione tra Passenger Press e Bruce LaBruce. Il grande regista canadese ha infatti scritto una storia per il prossimo numero di The Passenger (che esce domani, in occasione di Lucca Comics!) e il nostro crucco preferito l'ha disegnata, adottando uno stile a metà tra gli anni '70 e i dipinti di Tom of Finland. Dopo tutto questo sono venuto a sapere che il buon Ralph, nel suo carniere diverse collaborazioni pure con la Image, si pubblica anche i suoi fumetti personali. Donald & Simon è uno split book (l'altra metà è a carico di Tristan Wilder) totalmente underground, stampato su fotocopie e pieno zeppo di storielle folli e sconclusionate. Il tratto si fa scarno ed essenziale, perfetto per la pubblicazione in questione. Seguire un filo logico è impossibile, l'umorismo si mantiene tra il caustico e il surreale. Naturalmente anche qui il Nostro, probabilmente per paura di annoiarsi, alterna almeno due/tre stili diversi. Il risultato è fenomenale, praticamente un viaggio indietro nel tempo, quando le fanzine la facevano da padrone e Internet non era che un acronimo misterioso. Non contento di tutto questo ama farsi chiamare Bruno Fett e farsi fotografare così:
Un uomo, un mito. Sotto alcune tavole dell'albino fotocopiato.
Un uomo, un mito. Sotto alcune tavole dell'albino fotocopiato.
lunedì 26 ottobre 2009
Solitudine e fragilità. Il mondo di Jin Young Yu
Jin Young Yu viene dalla Corea e, nel descrivere la condizione dell'uomo moderno, è più efficace di un libro di Zygmunt Bauman. Continuo a chiedermi come facciano i coreani a rendere sempre e comunque carine le cose più strazianti.
venerdì 23 ottobre 2009
Yattaman di Takashi Miike (Jap/2009): ti ricordi Miike?
C’era un tempo in cui il nome di Miike incuteva timore reverenziale. Dopotutto Takashi era il regista estremo per eccellenza, quello che spostava di volta in volta il limite dell’accettabile. Quello della tempura sulla schiena, delle donne affogate nelle feci, dell’avanguardia splatter di Izo e delle torture di Audition. Tutti a ricordarci pedissequamente quanto i film del giapponese fossero la cosa più folle si potesse trovare sul mercato. Un mare di superficialità in cui finivano dispersi i veri temi su cui vertevano le sue opere: i fuori casta, la nostalgia, l’esule, l’amore queer. Tra le altre cose. E fra tutte era proprio il ricordo e l’infanzia a occupare un posto di riguardo nella sua poetica. Uno dei pochi punti fissi a non essere minimamente intaccato dalla sua furia. Penso a Dead or Alive 2 e ai due bellissimi Young Thugs. Soprattutto questi ultimi, che di estremo non hanno proprio nulla, se non la malinconia per un tempo ormai passato. Lo sguardo di Miike sull’infanzia è sempre stato carico di un affetto al limite del commuovente, affascinato dall’immaginazione strabordante di ogni bambino.
Basti vedere un minuscolo film come Zebraman, amatissimo da chiunque consideri il regista di Osaka qualcosa di più di “quello del cameo in Hostel”, sentito omaggio al candore dei tokusatsu. L’amicizia tra un mediocre e un bambino disabile salverà il mondo, grazie alla potenza dei sogni. Il film è girato con budget risicato ma con un’empatia e con una fiducia nella fantasia che si può ritrovare solo in un altro grande tributo all’innocenza come Be kind rewind di Gondry. Anche nel “kolossal” The Great Yokai War è la potenza dello sguardo bambino a condurre la vicenda. Film imperfetti, dove gli effetti speciali non erano certo allo stato dell’arte, eppure autoriali nel senso più nobile e meno snob del termine. Miike ci ficcava le sue ossessioni, qualche strizzatina d’occhio agli adulti (tanto per far capire che il film era rivolto a loro) e tutti i suoi limiti. Di cui ci lamentiamo sempre ma che, alla fine, non possiamo fare a meno (un film di Miike con un ritmo normale? Non lo guardo neanche sotto tortura!).
Immaginatevi quindi l’hype che si è creato attorno a una pellicola come Yattaman. Un grande budget a disposizione delle fisse di un autore come Miike, qui in uno dei suoi campi da gioco preferenziali. Invece nulla. Yattaman è freddo come un blocco di ghiaccio. Non brutto (forse un po’ pesante nel montaggio) ma praticamente nullo come valore artistico. E’ il classico film che farà impazzire chi è andato al cinema a vedersi il Signore degli Anelli munito di libro per controllare le battute, chi si è lamentato del finale di Watchmen, chi passa il mese prima di Lucca a prepararsi il costume da pagliaccio. Probabilmente in Giappone avrà mandato in brodo di giuggiole tutti quelli che hanno trovato il cambio di costume (rispetto alla serie originale) la parte più trasgressiva di quell’attentato dinamitardo di Yo Yo Girl Cop.
Proprio come tutta la nuova pletora di splatter giappotrash che stanno invadendo il mercato occidentale anche questo Yattaman farà impazzire chi di cinema asiatico non ne sa nulla. Qualche anno fa un autentico gioiello di stupidità ultrapop come Cutie Honey venne totalmente ignorato dal pubblico italiano, nonostante il suo valore linguistico incontestabile. E magari senza neppure sapere che la mente dietro a quel progetto fosse quella di Hideaki Anno (nel suo carnet una sciocchezzuola come Evangelion), non proprio uno shooter senza carattere. Allora perché premiare questo tentativo di imitazione?
Devo troppo a Miike per parlare bene di questo pasticcio. Come unica consolazione pare che ci sia nell’aria un sequel per Zebraman, mentre il remake del classicone The Thirteen Assassins è dato per certo. Sperando che Miike si ricordi come si fa.
Basti vedere un minuscolo film come Zebraman, amatissimo da chiunque consideri il regista di Osaka qualcosa di più di “quello del cameo in Hostel”, sentito omaggio al candore dei tokusatsu. L’amicizia tra un mediocre e un bambino disabile salverà il mondo, grazie alla potenza dei sogni. Il film è girato con budget risicato ma con un’empatia e con una fiducia nella fantasia che si può ritrovare solo in un altro grande tributo all’innocenza come Be kind rewind di Gondry. Anche nel “kolossal” The Great Yokai War è la potenza dello sguardo bambino a condurre la vicenda. Film imperfetti, dove gli effetti speciali non erano certo allo stato dell’arte, eppure autoriali nel senso più nobile e meno snob del termine. Miike ci ficcava le sue ossessioni, qualche strizzatina d’occhio agli adulti (tanto per far capire che il film era rivolto a loro) e tutti i suoi limiti. Di cui ci lamentiamo sempre ma che, alla fine, non possiamo fare a meno (un film di Miike con un ritmo normale? Non lo guardo neanche sotto tortura!).
Immaginatevi quindi l’hype che si è creato attorno a una pellicola come Yattaman. Un grande budget a disposizione delle fisse di un autore come Miike, qui in uno dei suoi campi da gioco preferenziali. Invece nulla. Yattaman è freddo come un blocco di ghiaccio. Non brutto (forse un po’ pesante nel montaggio) ma praticamente nullo come valore artistico. E’ il classico film che farà impazzire chi è andato al cinema a vedersi il Signore degli Anelli munito di libro per controllare le battute, chi si è lamentato del finale di Watchmen, chi passa il mese prima di Lucca a prepararsi il costume da pagliaccio. Probabilmente in Giappone avrà mandato in brodo di giuggiole tutti quelli che hanno trovato il cambio di costume (rispetto alla serie originale) la parte più trasgressiva di quell’attentato dinamitardo di Yo Yo Girl Cop.
Proprio come tutta la nuova pletora di splatter giappotrash che stanno invadendo il mercato occidentale anche questo Yattaman farà impazzire chi di cinema asiatico non ne sa nulla. Qualche anno fa un autentico gioiello di stupidità ultrapop come Cutie Honey venne totalmente ignorato dal pubblico italiano, nonostante il suo valore linguistico incontestabile. E magari senza neppure sapere che la mente dietro a quel progetto fosse quella di Hideaki Anno (nel suo carnet una sciocchezzuola come Evangelion), non proprio uno shooter senza carattere. Allora perché premiare questo tentativo di imitazione?
Devo troppo a Miike per parlare bene di questo pasticcio. Come unica consolazione pare che ci sia nell’aria un sequel per Zebraman, mentre il remake del classicone The Thirteen Assassins è dato per certo. Sperando che Miike si ricordi come si fa.
mercoledì 21 ottobre 2009
Borna Sammak: errori di caricamento dell'immaginario collettivo
Borna Sammak fa parte di quella nuova schiera di artisti che fa del glitch una forma di espressione, implementando questo linguaggio con una sana dose di nerdaggine ultrapop. Così nasce una bandiera statunitense composta da Optimus Prime, gli scontri tra Hulk e la Cosa prendono forma e Futurama si trasforma in un pattern psichedelico. Da applausi il sito, più old school di così si muore.
martedì 20 ottobre 2009
Martin Miller: i am War
Martin Miller è un fotografo americano ossessionato dalla guerra e dal concetto di distruzione di massa. Da questo spunto nasce il suo bisogno di documentare, in maniera quasi asettica e deumanizzata, un mondo fatto di bunker e testate nucleari. Il risultato è visibile in diverse gallerie, sospese tra l'annicchilente e l'astratto (aspetto dato anche dal suo vezzo di collegare le immagini a una canzone totalmente decontestualizzata). Qui la sua pagina Behance.
lunedì 19 ottobre 2009
La delusione e la sorpresa (entrambe musicali) del 2009
Ho sempre adorato i Despised Icon, ma questa volta i canadesi hanno proprio toppato. Volevano dimostrare di essere la band più talentuosa del deathcore e invece hanno realizzato un disco inutilmente complicato e macchinoso. I picchi di ignoranza di The Ills of Modern Man rimangono un ricordo lontano. Qui la rece completa.
Per un gruppo che fa il passo più lungo della gamba se ne trova uno pentito di averlo fatto con il disco precedente. I Baroness limano il loro suono e lo imbastardiscono con le nuove intuizioni tra pop e metal di Torche e Goes Cube. Il risultato è una bomba. Stoner, postHC, grunge, metal e psichedelia. Tutto nello stesso disco. Qui la recensione. Tenete conto che prima di questo Blue Record non li sopportavo.
Per un gruppo che fa il passo più lungo della gamba se ne trova uno pentito di averlo fatto con il disco precedente. I Baroness limano il loro suono e lo imbastardiscono con le nuove intuizioni tra pop e metal di Torche e Goes Cube. Il risultato è una bomba. Stoner, postHC, grunge, metal e psichedelia. Tutto nello stesso disco. Qui la recensione. Tenete conto che prima di questo Blue Record non li sopportavo.
sabato 17 ottobre 2009
Good vs Evil 3: Man vs Mescaline (più File Magazine 2)
Piccola pausa dai lavori in corso per segnalarvi l'uscita del terzo numero di Good vs Evil. L'uscita è dedicata alla mescalina, vi lascio quindi immaginare che perle possa contenere. Sfogliando le 80 paginette di questa fanzina, stampata tra l'altro su una carta stranissima (che non capisci se è bella o brutta), passarete dall'estremente disturbante (tutti i contributi nipponici) a brevi storie quantomeno bizzarre. Tanto per farvi capire il volume si conclude con due rospi impegnati a farsi i complimenti per i nani che si portano in groppa, li fanno accoppiare davanti a una telecamera e ci esortano a fumare crack. Fuori tema, oltretutto.
Con il magazine vi arriverà anche un disegnino in copia unica. Tanto per ringraziarvi del supporto.
Già che ci siamo vi segnalo anche l'uscita del secondo numero di File Magazine. Qui sotto il trailer.
Con il magazine vi arriverà anche un disegnino in copia unica. Tanto per ringraziarvi del supporto.
Già che ci siamo vi segnalo anche l'uscita del secondo numero di File Magazine. Qui sotto il trailer.
FILE ISSUE 2 - TRAILER from File on Vimeo.
giovedì 15 ottobre 2009
Norsk & proud: Northlanders di Brian Wood & Davide Gianfelice
Siete tra quelli che solitamente propendono per prodotti a base di spadoni, uomini vestiti di pellicce ed epiche battaglie? Bene, risparmiate qualche soldo e lasciate Northlanders sullo scaffale. Perché l’ultima fatica di Brian Wood e Davide Gianfelice (senza dimenticare le cover di Massimo Carnevale) è prima di tutto un fumetto duro, sgradevole e per nulla conciliante. Mi spiace, nessun segno di eroi e paladini tra queste pagine.
Ciclicamente compare sul mercato un’opera di narrazione che permette a chiunque di affermare con aria saccente “il vero protagonista è il set dove si consumano le vicende”. Gli esempi si sprecano, ma sono pochissime le occasioni in cui corrispondono al vero. Il primo volume di Northlanders è una di quelle. La Norvegia di cui si parla non è solo un contenitore comune per diverse vicende, ma è un attore importantissimo nello sviluppo delle psicologie e degli snodi narrativi.
Sven fugge dalla sua Norvegia, incapace di adattarsi ai miti e alle tradizioni inumane che la caratterizzano. Dopo mesi di navigazione raggiunge il Mediterraneo. Lì viene forgiato come abile e scaltro guerriero, vive la sua vita accanto a una stupenda mercante e passa il proprio tempo tra fiumi di denaro e i piaceri della carne. Tutto sembra andare per il meglio ma il desiderio (o almeno lui cerca di giustificarsi così) di impossessarsi della sua fortuna ereditaria (Sven è figlio di un nobile) lo spinge a tornare nelle sue terre natali. Dove incomincerà un' inarrestabile metamorfosi.
Il nostro protagonista passerà in poco tempo dal deridere i costumi barbari del suo popolo, dove anche il migliore degli aldilà non è che un illusione fatta di sangue e lerciume, al vivere in una capanna dispersa tra gli spazi infinti di una landa bruciata dal freddo. Circondato da cadaveri nemici. La sua stessa fisionomia muta, finendo per assomigliare sempre più ai nativi. Una trasformazione che avrà il suo effetto più radicale nel passaggio da avido saccheggiatore, del tutto disinteressato al futuro dei norvegesi, a degno signore del suo popolo. Uno che per la sua gente è disposto a passare il proprio titolo nobiliare al peggior aguzzino del villaggio.
Un gran fumetto, che conferma il talento di Brian Wood. Peccato che anche in questo caso l’autore statunitense si confermi incapace di gettare le basi per archi narrativi più lunghi di un pugno di uscite (vedi DMZ). Gianfelice e Carnevale praticamente perfetti, non una sbavatura in tutto il tomo. Nessuna cessione ai luoghi comuni o alla facile retorica visiva, con le tavole che riescono ad arrivare a eccessi di crudezza (mai gratuitamente splatter) difficilmente digeribili.
Ciclicamente compare sul mercato un’opera di narrazione che permette a chiunque di affermare con aria saccente “il vero protagonista è il set dove si consumano le vicende”. Gli esempi si sprecano, ma sono pochissime le occasioni in cui corrispondono al vero. Il primo volume di Northlanders è una di quelle. La Norvegia di cui si parla non è solo un contenitore comune per diverse vicende, ma è un attore importantissimo nello sviluppo delle psicologie e degli snodi narrativi.
Sven fugge dalla sua Norvegia, incapace di adattarsi ai miti e alle tradizioni inumane che la caratterizzano. Dopo mesi di navigazione raggiunge il Mediterraneo. Lì viene forgiato come abile e scaltro guerriero, vive la sua vita accanto a una stupenda mercante e passa il proprio tempo tra fiumi di denaro e i piaceri della carne. Tutto sembra andare per il meglio ma il desiderio (o almeno lui cerca di giustificarsi così) di impossessarsi della sua fortuna ereditaria (Sven è figlio di un nobile) lo spinge a tornare nelle sue terre natali. Dove incomincerà un' inarrestabile metamorfosi.
Il nostro protagonista passerà in poco tempo dal deridere i costumi barbari del suo popolo, dove anche il migliore degli aldilà non è che un illusione fatta di sangue e lerciume, al vivere in una capanna dispersa tra gli spazi infinti di una landa bruciata dal freddo. Circondato da cadaveri nemici. La sua stessa fisionomia muta, finendo per assomigliare sempre più ai nativi. Una trasformazione che avrà il suo effetto più radicale nel passaggio da avido saccheggiatore, del tutto disinteressato al futuro dei norvegesi, a degno signore del suo popolo. Uno che per la sua gente è disposto a passare il proprio titolo nobiliare al peggior aguzzino del villaggio.
Un gran fumetto, che conferma il talento di Brian Wood. Peccato che anche in questo caso l’autore statunitense si confermi incapace di gettare le basi per archi narrativi più lunghi di un pugno di uscite (vedi DMZ). Gianfelice e Carnevale praticamente perfetti, non una sbavatura in tutto il tomo. Nessuna cessione ai luoghi comuni o alla facile retorica visiva, con le tavole che riescono ad arrivare a eccessi di crudezza (mai gratuitamente splatter) difficilmente digeribili.
mercoledì 14 ottobre 2009
Terza ristampa per il black metal di Peter Beste
Scopro solo ora che il celebre libro fotografico True Norwegian Black Metal di Peter Beste è tornato disponibile. Siamo alla terza ristampa, se mi faccio sfuggire anche questa non me lo merito più. Comunque sia, Peter Beste è un grandissimo indagatore di mondi e culture, dai redneck di Rural America alle periferie di London Grime, e per quest'anno è atteso il suo nuovo libro, dedicato alla comunità afroamericana di Houston.
martedì 13 ottobre 2009
[kick-ass movie] L’arte del buco di sceneggiatura nel noir balistico di HK
Ci vuole una bella dose di incoscienza per gettarsi nella produzione di un kick-ass movie. Passare alla storia come regista o sceneggiatore di un titolo appartenente alla suddetta categoria significa essere relegato al culto da vhs, quel particolare tipo di venerazione che permette di cogliere tutta la forza iconoclasta dell’imperfezione, del cialtronesco e dell’improvvisazione forzata. Non si sarà mai considerati maestri, ma simboli di un modo di intendere il cinema romantico per alcuni e dilettantesco per i più. Arrivare a proporre al proprio pubblico un concentrato di brutalità e testosterone, magari arricchiti da copiose dosi di umorismo nascosto tra le righe, è un' arte raffinata riconosciuta da pochi. A testimonianza di questo tre perle dimenticate dell’ormai boccheggiante noir balistico di HK, da sempre culla privilegiata di eccessi e derive inaspettate, grandiosi esempi di libertà creativa passati praticamente inosservati.
Si prenda lo sconosciuto The Dragon Family, a opera di Lau Kar Wing. La fascetta del dvd indica come lunghezza 91 minuti, mentre la sinossi ci suggestiona cercando di convincerci che in un lasso di tempo così limitato assisteremo alla saga di quattro (!) famiglie mafiose ai vertici delle Triadi. Nel Padrino ci sono volute più di 8 ore solo per i Corleone, qui ne basta una e mezza per quattro casate di criminali. Ecco cosa succede quando metti Liu Chia Liang alle coreografie. A metà film le tre famiglie intenzionate a mettersi sulla retta via vengono decimate dalla quarta, quella composta dai veri cattivi (quelli senza onore e rispetto per le tradizioni). Da epico affresco criminale si passa a revenge movie senza tregua. In parole povere: la palla passa ai sopravissuti e sono cazzi amari per tutti. Cerimonie e giochetti politici lasciano posto a fucili a pompa che spuntano dai posti più impensati, arti marziali e decine di morti pittoresche. Magia del kick-ass movie e della limitata capacità di concentrazione che richiede. Il film non è diventato un classico (chissà perché?) ma è di un sollazzo assoluto, grazie soprattutto alle esagerate coreografie del Maestro. Violente, intricate, sempre un passo più in la di dove si sarebbe dovuti arrivare.
E se questo The Dragon Family vi sembra pretenzioso aspettate di vedervi Gun & Rose di Clarence Fok (su sceneggiatura di Wai Ka Fai). Un film che avrebbe richiesto come minimo sei ore compresso in 99 minuti. Primo frammento sospeso tra melò e triad movie, con tanto di attentato patricida, giochi di potere, sacrifici, matrimoni e figli adottivi che si dimostrano più fedeli di quelli biologici. Poi si passa alla sezione centrale, ambientata su di un' isoletta di pescatori. Il figlio buono è fuggito con la sua amata e ora conduce una vita umile ma onesta. Dovrà vedersela con le gang che spadroneggiano nella piccola cittadina, non senza aver tentato in tutti i modi di nascondere il suo passato e le sue capacità di killer spietato. Si conclude con il ritorno del nostro Eroe in famiglia, scalata sociale e duello finale con il fratello malvagio compresi. Ripeto, tutto in 99 minuti. Tutta colpa di Clarence Fok che taglia il tagliabile, sviluppa una nuova definizione di montaggio epilettico, mette in scena duelli tanto violenti quanto supersonici e ci restituisce l’epopea di un duro che non vorrebbe esserlo. Gran lavoro, al limite dell’avanguardia, che ci fa perdonare a Clarence il fatto di aver diretto Her Name is Cat, uno dei tre film più brutti della storia. Se volete capire come mettere assieme il più alto numero possibile di sequenze action slegate tra di loro nel più breve tempo possibile questo è il vostro manuale. Poi già che ci siete recuperate Naked Killer (tanto tecnicamente eccelso quanto imbevuto di un cattivo gusto indigeribile) e Cheap Killer (se i film di John Woo vi paiono queer, beccatevi questo), sempre dallo stesso regista/montatore/sceneggiatore/coreografo/direttore della fotografia/tecnico degli effetti speciali. Dove la trovate un’altra macchina da cinema così?
Anche il Maestro Johnnie To pare non essere esente da questo tipo di licenze poetiche, basti vedere il suo The Big Heat (prodotto da Tsui Hark, mica bruscolini). Più che un noir abbiamo a che fare con un autotreno lanciato a folle velocità verso di noi. I buchi di sceneggiatura sono distribuiti ad arte (in questo caso non si scherza, vi bastino come garanti i due nomi citati a inizio paragrafo), calibrati perfettamente per far guadagnare velocità alla vicenda. I protagonisti sono alla ricerca di una valigetta? Basta entrare in un magazzino, eliminare in maniera ultraviolenta tutti quelli che ci sono dentro e il gioco è fatto: il bottino sarà appoggiata su di un tavolo, in bella vista. Il premio perfetto per aver completato il livello. Così per 98 furiosi minuti, fatti di arti mozzati, incidenti automobilistici e piogge di sangue. Cinema estremo, che se ne sbatte di convenzioni e regole per arrivare direttamente dove deve arrivare. Se guardando un Old Boy si pretende che la sceneggiatura sia perfetta, praticamente un macigno privo di appigli, in The Big Heat ogni rallentamento sarebbe stato controproducente. Il film si apre con il particolare di una mano bucata da un trapano a colonna: una dichiarazione d’intenti che chiarisce alla perfezione quello che ci aspetta. Un meccanismo inarrestabile, interessato solo allo scontro e alla carne dilaniata. Chiamatelo kic-kass movie.
Si prenda lo sconosciuto The Dragon Family, a opera di Lau Kar Wing. La fascetta del dvd indica come lunghezza 91 minuti, mentre la sinossi ci suggestiona cercando di convincerci che in un lasso di tempo così limitato assisteremo alla saga di quattro (!) famiglie mafiose ai vertici delle Triadi. Nel Padrino ci sono volute più di 8 ore solo per i Corleone, qui ne basta una e mezza per quattro casate di criminali. Ecco cosa succede quando metti Liu Chia Liang alle coreografie. A metà film le tre famiglie intenzionate a mettersi sulla retta via vengono decimate dalla quarta, quella composta dai veri cattivi (quelli senza onore e rispetto per le tradizioni). Da epico affresco criminale si passa a revenge movie senza tregua. In parole povere: la palla passa ai sopravissuti e sono cazzi amari per tutti. Cerimonie e giochetti politici lasciano posto a fucili a pompa che spuntano dai posti più impensati, arti marziali e decine di morti pittoresche. Magia del kick-ass movie e della limitata capacità di concentrazione che richiede. Il film non è diventato un classico (chissà perché?) ma è di un sollazzo assoluto, grazie soprattutto alle esagerate coreografie del Maestro. Violente, intricate, sempre un passo più in la di dove si sarebbe dovuti arrivare.
E se questo The Dragon Family vi sembra pretenzioso aspettate di vedervi Gun & Rose di Clarence Fok (su sceneggiatura di Wai Ka Fai). Un film che avrebbe richiesto come minimo sei ore compresso in 99 minuti. Primo frammento sospeso tra melò e triad movie, con tanto di attentato patricida, giochi di potere, sacrifici, matrimoni e figli adottivi che si dimostrano più fedeli di quelli biologici. Poi si passa alla sezione centrale, ambientata su di un' isoletta di pescatori. Il figlio buono è fuggito con la sua amata e ora conduce una vita umile ma onesta. Dovrà vedersela con le gang che spadroneggiano nella piccola cittadina, non senza aver tentato in tutti i modi di nascondere il suo passato e le sue capacità di killer spietato. Si conclude con il ritorno del nostro Eroe in famiglia, scalata sociale e duello finale con il fratello malvagio compresi. Ripeto, tutto in 99 minuti. Tutta colpa di Clarence Fok che taglia il tagliabile, sviluppa una nuova definizione di montaggio epilettico, mette in scena duelli tanto violenti quanto supersonici e ci restituisce l’epopea di un duro che non vorrebbe esserlo. Gran lavoro, al limite dell’avanguardia, che ci fa perdonare a Clarence il fatto di aver diretto Her Name is Cat, uno dei tre film più brutti della storia. Se volete capire come mettere assieme il più alto numero possibile di sequenze action slegate tra di loro nel più breve tempo possibile questo è il vostro manuale. Poi già che ci siete recuperate Naked Killer (tanto tecnicamente eccelso quanto imbevuto di un cattivo gusto indigeribile) e Cheap Killer (se i film di John Woo vi paiono queer, beccatevi questo), sempre dallo stesso regista/montatore/sceneggiatore/coreografo/direttore della fotografia/tecnico degli effetti speciali. Dove la trovate un’altra macchina da cinema così?
Anche il Maestro Johnnie To pare non essere esente da questo tipo di licenze poetiche, basti vedere il suo The Big Heat (prodotto da Tsui Hark, mica bruscolini). Più che un noir abbiamo a che fare con un autotreno lanciato a folle velocità verso di noi. I buchi di sceneggiatura sono distribuiti ad arte (in questo caso non si scherza, vi bastino come garanti i due nomi citati a inizio paragrafo), calibrati perfettamente per far guadagnare velocità alla vicenda. I protagonisti sono alla ricerca di una valigetta? Basta entrare in un magazzino, eliminare in maniera ultraviolenta tutti quelli che ci sono dentro e il gioco è fatto: il bottino sarà appoggiata su di un tavolo, in bella vista. Il premio perfetto per aver completato il livello. Così per 98 furiosi minuti, fatti di arti mozzati, incidenti automobilistici e piogge di sangue. Cinema estremo, che se ne sbatte di convenzioni e regole per arrivare direttamente dove deve arrivare. Se guardando un Old Boy si pretende che la sceneggiatura sia perfetta, praticamente un macigno privo di appigli, in The Big Heat ogni rallentamento sarebbe stato controproducente. Il film si apre con il particolare di una mano bucata da un trapano a colonna: una dichiarazione d’intenti che chiarisce alla perfezione quello che ci aspetta. Un meccanismo inarrestabile, interessato solo allo scontro e alla carne dilaniata. Chiamatelo kic-kass movie.
lunedì 12 ottobre 2009
Casanova (di Matt Fraction e Gabriel Bà) e le diverse vie al postmoderno
Mettiamo subito in chiaro le cose: Casanova non è un fumetto imperdibile. Però è uno di quei tre/quattro volumi usciti quest’anno che chiariscono alla perfezione l'idea di postmoderno.
Il concetto di tale corrente artistica nasce all’inizio del secolo e finisce per essere applicato alla settima arte solo alla fine del millennio. Il cinema come meccanismo cosciente di sè non è affatto una novità quando, nel 1994, Tarantino esplode con il fenomeno Pulp Fiction. A livello di immaginario e struttura Mario Bava e Seijun Suzuki avevano già toccato vette impossibili, mentre Fernando di Leo ci aveva già regalato linee di dialogo definitive in questo senso (come dice Roberto Curti in Italia odia, i personaggi del pugliese parlano come se fossero parte di un’opera teatrale). Ma solo dopo il boom del ex commesso tutti incominciano a fare i distaccati, con le vicende che si fanno sempre più caricaturali e la parola ironia arricchita ogni giorno di un significato nuovo. Tutto bellissimo, fino all’ecatombe Kill Bill.
Se Pulp Fiction era un lavoro perfetto, dove i contenuti erano tipizzati ma non localizzabili, Kill Bill risulta essere solo un giochino metacinematografico. In altre parole PF crea una mitologia, KB la saccheggia e basta. Vincent e Jules sono personaggi così perfettamente cesellati attorno ai cliché dell’immaginario collettivo da entrarne subito a farne parte. Senza saperlo li conoscevamo già, li avevamo già visti in decine di altri film ma non riuscivamo a mettere a fuoco di quali pellicole si trattava. Un lavoro di scrittura immane, che prevede la visione e l’interiorizzazione di una quantità enorme di cinema, letteratura e fumetto. Significa creare qualcosa di totalmente nuovo partendo dal dominio pubblico. Tutto il contrario di KB, dove l’unica attrazione è data dal cogliere la citazione. Prendiamo la trama di Lady Snowblood (oltre che la scena più famosa e la colonna sonora), le suggestioni western di Da Uomo a Uomo e I Giorni dell’Ira, qualche attore feticcio che vada dallo yakuza eiga agli Shaw Brothers, i dialoghi di Miike (lo scambio di battute più bello dell’intera opera), le soggettive di Ching Siu-tung. Manca solo la scena a base di sangue e fango sotto la pioggia.
E’ decisamente doloroso scoprire che un capolavoro del post moderno come Miami Vice (rappresentazione definitiva del cinema come entità dotata di vita e forma proprie, in costante mutazione e alla ricerca continua di un’identità ben definita) non l’abbia cagato nessuno, a favore di Spose e tutine gialle.
Tornando ai fumetti, è indubbiamente più facile percorrere la via di KB rispetto a quella di PF. L’accozzaglia di riferimenti (compresa l’insopportabile gara a chi va a scovare il film più introvabile e sconosciuto) sopperisce a tutte le mancanze, con risultati che passano in fretta dal divertente alla noia catacombale. Per fortuna che con i vari Iron Fist, Umbrella Academy e Casanova (per rimanere nelle pubblicazioni italiane di quest’anno e senza contare Atomic Robo, leggermente inferiore agli altri tre esempi) la situazione cambia: nessuno di questi fumetti è originale in senso assoluto (anzi), eppure tutti vengono percepiti come freschi e frizzanti. Dialoghi troppo brillanti (al limite del teatrale per Umbrella Accademy e Casanova) per uscire da bocche di personaggi che non sanno di essere tali, organizzazioni criminali che si firmano con acronimi assurdi, snodi narrativi da soap opera. Tutto è fumetto al cubo, ma senza spiegoni che ne chiariscano la natura (in questo senso Iron Fist è perfetto, mentre Casanova pecca in un paio di punti). Esattamente come succedeva nella miglior serie Marvel da molti anni a questa parte. Gli Ultimates? No, Nextwave. Uno dei picchi più alti mai raggiunti da Warren Ellis. Quello che sarebbe stato Tom Strong se al posto dei fumetti anni ’50 ci fosse stato 2000AD.
Scrivere opere simili significa avere il polso dell’immaginario degli ultimi 50 anni, saper stare sempre sul bilico tra cazzata immane e buona narrativa (capolavoro no, per definizione) ed essere in grado trattare il lettore da complice in un triangolo amoroso tra fruitore, creatore e personaggi. Senza dimenticare che in questi casi il rapporto tra disegni e sceneggiatura non può ovviare dalla perfezione, complice la caduta di tutto il castello di carte eretto a suon di metalinguaggi e strizzatine d’occhio.
Fortunatamente Casanova riesce a rispondere perfettamente a tutti questi punti. Vi può bastare?
Il concetto di tale corrente artistica nasce all’inizio del secolo e finisce per essere applicato alla settima arte solo alla fine del millennio. Il cinema come meccanismo cosciente di sè non è affatto una novità quando, nel 1994, Tarantino esplode con il fenomeno Pulp Fiction. A livello di immaginario e struttura Mario Bava e Seijun Suzuki avevano già toccato vette impossibili, mentre Fernando di Leo ci aveva già regalato linee di dialogo definitive in questo senso (come dice Roberto Curti in Italia odia, i personaggi del pugliese parlano come se fossero parte di un’opera teatrale). Ma solo dopo il boom del ex commesso tutti incominciano a fare i distaccati, con le vicende che si fanno sempre più caricaturali e la parola ironia arricchita ogni giorno di un significato nuovo. Tutto bellissimo, fino all’ecatombe Kill Bill.
Se Pulp Fiction era un lavoro perfetto, dove i contenuti erano tipizzati ma non localizzabili, Kill Bill risulta essere solo un giochino metacinematografico. In altre parole PF crea una mitologia, KB la saccheggia e basta. Vincent e Jules sono personaggi così perfettamente cesellati attorno ai cliché dell’immaginario collettivo da entrarne subito a farne parte. Senza saperlo li conoscevamo già, li avevamo già visti in decine di altri film ma non riuscivamo a mettere a fuoco di quali pellicole si trattava. Un lavoro di scrittura immane, che prevede la visione e l’interiorizzazione di una quantità enorme di cinema, letteratura e fumetto. Significa creare qualcosa di totalmente nuovo partendo dal dominio pubblico. Tutto il contrario di KB, dove l’unica attrazione è data dal cogliere la citazione. Prendiamo la trama di Lady Snowblood (oltre che la scena più famosa e la colonna sonora), le suggestioni western di Da Uomo a Uomo e I Giorni dell’Ira, qualche attore feticcio che vada dallo yakuza eiga agli Shaw Brothers, i dialoghi di Miike (lo scambio di battute più bello dell’intera opera), le soggettive di Ching Siu-tung. Manca solo la scena a base di sangue e fango sotto la pioggia.
E’ decisamente doloroso scoprire che un capolavoro del post moderno come Miami Vice (rappresentazione definitiva del cinema come entità dotata di vita e forma proprie, in costante mutazione e alla ricerca continua di un’identità ben definita) non l’abbia cagato nessuno, a favore di Spose e tutine gialle.
Tornando ai fumetti, è indubbiamente più facile percorrere la via di KB rispetto a quella di PF. L’accozzaglia di riferimenti (compresa l’insopportabile gara a chi va a scovare il film più introvabile e sconosciuto) sopperisce a tutte le mancanze, con risultati che passano in fretta dal divertente alla noia catacombale. Per fortuna che con i vari Iron Fist, Umbrella Academy e Casanova (per rimanere nelle pubblicazioni italiane di quest’anno e senza contare Atomic Robo, leggermente inferiore agli altri tre esempi) la situazione cambia: nessuno di questi fumetti è originale in senso assoluto (anzi), eppure tutti vengono percepiti come freschi e frizzanti. Dialoghi troppo brillanti (al limite del teatrale per Umbrella Accademy e Casanova) per uscire da bocche di personaggi che non sanno di essere tali, organizzazioni criminali che si firmano con acronimi assurdi, snodi narrativi da soap opera. Tutto è fumetto al cubo, ma senza spiegoni che ne chiariscano la natura (in questo senso Iron Fist è perfetto, mentre Casanova pecca in un paio di punti). Esattamente come succedeva nella miglior serie Marvel da molti anni a questa parte. Gli Ultimates? No, Nextwave. Uno dei picchi più alti mai raggiunti da Warren Ellis. Quello che sarebbe stato Tom Strong se al posto dei fumetti anni ’50 ci fosse stato 2000AD.
Scrivere opere simili significa avere il polso dell’immaginario degli ultimi 50 anni, saper stare sempre sul bilico tra cazzata immane e buona narrativa (capolavoro no, per definizione) ed essere in grado trattare il lettore da complice in un triangolo amoroso tra fruitore, creatore e personaggi. Senza dimenticare che in questi casi il rapporto tra disegni e sceneggiatura non può ovviare dalla perfezione, complice la caduta di tutto il castello di carte eretto a suon di metalinguaggi e strizzatine d’occhio.
Fortunatamente Casanova riesce a rispondere perfettamente a tutti questi punti. Vi può bastare?
domenica 11 ottobre 2009
Buoni propositi, wannabe e la vita vera.
Da domani dovrei tornare ad aggiornare il blog con un pò più di sostanza, promesso. Intanto beccatevi lo spot qui sopra, autentico atto d'amore per tutti noi wannabe.
Piccola nota di vita vera. Oggi, durante i lavori alla mia nuova casetta, ho ritrovato:
- un biglietto dei Vandals firmato dal bassista Joe Escalante,
- un poster dei Converge autografato da tutta la band,
-il pletro di Nate Newton (bassista proprio dei Converge).
A questo punto beccatevi il loro nuovo video:
Piccola nota di vita vera. Oggi, durante i lavori alla mia nuova casetta, ho ritrovato:
- un biglietto dei Vandals firmato dal bassista Joe Escalante,
- un poster dei Converge autografato da tutta la band,
-il pletro di Nate Newton (bassista proprio dei Converge).
A questo punto beccatevi il loro nuovo video:
giovedì 8 ottobre 2009
Cose belle: Mother di Bong Joon-ho in preorder
Per la precisione qui (Yesasia consigliatissimo, anche solo per il servizio clienti a 5 stelle). Mother è il quarto lungo di Bong Joon-ho, colonna portante del nuovo cinema coreano e autentica autorità nel rimaneggiare in maniera del tutto autoriale il genere (vedersi Memories of Murder per capire cosa si possa dire con un film sui serial killer. Poi passare a The Host). Siccome amo quest'uomo non ho voluto leggere nulla sul film, così come ho evitato in ogni modo il download selvaggio. Per certe perle occorre un lettore dvd e uno schermo vero, poche scuse. Così intanto mi accontento del trailer.
lunedì 5 ottobre 2009
Eric Bonhomme per Passenger Press
Il nostro amico Eric Bonhomme intepreta 5 capolavori del Maestro Kurosawa per il prossimo numero di The Passenger. Come faccio a non volergli bene?
venerdì 2 ottobre 2009
Zach Johnsen: un Derek Hess per le nuove generazioni
Il suo stile schizzato e disturbante non può non ricordare certe cose di Derek Hess (autore della cover artwork definitiva, quella dello split Converge/Agoraphobic Nosebleed), ma in chiave meno cupa e underground. Motivo più che sufficiente per lanciare Zach Johnsen tra i miei illustratori preferiti. E, già che ci siete ,studiatevi pure la sua incredibile sezione sketch. Grazie ai ragazzi di KoiKoiKoi per la segnalazione.
Piccolo p.s.: nel topic musicale qui sotto ho aggiunto il link alla rece dei Dying Fetus. Buon disco, nulla di che ma buon disco.
Piccolo p.s.: nel topic musicale qui sotto ho aggiunto il link alla rece dei Dying Fetus. Buon disco, nulla di che ma buon disco.
giovedì 1 ottobre 2009
Topic musicale cumulativo: Dying Fetus + Revocation + Fomento
Dying Fetus - Descend into Depravity: dopo la megapalla di War of Attrition tornano gli ultrapoliticizzati Dying Fetus con un disco degno del loro nome. Niente di trascendentale, ma una mezz'ora di headbang furioso è garantita. Qui la mia rece.
Revocation - Existence is futile: una palla pazzesca, l'unica vera new old school degna di nota rimane quella di Municipal Waste e Toxic Holocaust. Qui la mia rece.
Fomento - Either Caesar or Nothing: i Lamb of God con residenza a Roma. Non male, ma troppo iperprocessati per chiunque non ascolti solo roba Ferret o Prosthetic. Qui la mia rece.
Fomento - Either Caesar or Nothing: i Lamb of God con residenza a Roma. Non male, ma troppo iperprocessati per chiunque non ascolti solo roba Ferret o Prosthetic. Qui la mia rece.
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