io! Il free magazine MyPaper ha indetto un concorso per la customizzazione del classico urban toy. E quello che vedete sopra è il campioncino che mi ha permesso di sbaragliare la concorrenza.
martedì 30 settembre 2008
lunedì 29 settembre 2008
Multiwinia, il ritorno della Introversion Software
Vi ricordate di quei senza Dio della Introversion Software? Quel pugno di folli capaci di dare alle stampe un simulatore di guerra nucleare (Defcon)? Ecco, ci sono cascati di nuovo. Il loro ultimo parto, Multiwinia, si presenta come rozzo strategico in tempo reale. Peccato che in realtà si tratti di una scusa per mandare al macello centinaia di soldati e godersi lo spettacolo dalla prima linea.
Sarà che sono malizioso di natura, ma io ci vedo un non so che di politico. Non esattamente conservatore.
I limiti della moralità in rete sono sempre più labili e la scusa dell'opera di finzione permette licenze poetiche sempre più spinte (vi assicuro che cancellare la Russia dalle carte geografiche non è divertente come sembra. Leggere che un nostro click ha causato 20 milioni di morti è una bella botta allo stomaco, anche se si tratta di un gioco), lasciando spazio a interpretazioni di ogni tipo. Eppure GTA 4 è la cosa più venduta di sempre (e uso il termine cosa perchè ha battuto ogni oggetto sul mercato, dal cd al libro fino alla tshirt) e io stò segnalando quello che praticamente è un simulatore di guerra in puro Zio Sam style. C'è da rifletterci.
Sarà che sono malizioso di natura, ma io ci vedo un non so che di politico. Non esattamente conservatore.
I limiti della moralità in rete sono sempre più labili e la scusa dell'opera di finzione permette licenze poetiche sempre più spinte (vi assicuro che cancellare la Russia dalle carte geografiche non è divertente come sembra. Leggere che un nostro click ha causato 20 milioni di morti è una bella botta allo stomaco, anche se si tratta di un gioco), lasciando spazio a interpretazioni di ogni tipo. Eppure GTA 4 è la cosa più venduta di sempre (e uso il termine cosa perchè ha battuto ogni oggetto sul mercato, dal cd al libro fino alla tshirt) e io stò segnalando quello che praticamente è un simulatore di guerra in puro Zio Sam style. C'è da rifletterci.
sabato 27 settembre 2008
[oldiest but goldiest] The Butterfly Murders di Tsui Hark (1979)
Prendete un horror gotico (e con gotico si intende quell’asse che unisce Bava, la produzione Hammer ed Edgard Allan Poe) dalle tinte ecovengeance, ambientate il tutto in un contesto da wuxia e avrete questo The Butterfly Murders. Che poi sarebbe il cortometraggio di debutto del Maestro Tsui Hark.
Leggenda vuole che durante un fatidico incontro tra le banchine del porto di Hong Kong, alla calda luce del tramonto, due giovani cineasti, il Nostro e il suo compare John Woo, decisero di cambiare per sempre la fisonomia della settima arte. Dopo un pugno di film i due non cambiarono solamente il loro cinema autoctono, ma una fetta piuttosto larga di immaginario collettivo mondiale (prendete un action occidentale degli anni ’70 e confrontatelo con un qualsiasi prodotto venuto dopo A Better Tomorrow). E tutto cominciò con questo The Butterfly Murders.
Una sinergia di generi come si poteva rintracciare solo in certe produzioni italiche (si veda tutta l’opera di Margheriti, con particolare attenzione per il lesbo thriller gotico Contronatura e il western horror E Dio disse a Caino) unita alla ricerca di un linguaggio deciso a spostare l’asse della comprensione verso quello della sensazione. Una cifra stilistica che diventerà poi uno dei perni di tutto il meccanismo cinema di Tsui Hark, dalla produzione dei film di Ching Siu Tung fino al capolavoro/punto non ritorno The Blade. Un montaggio serrato accompagna movimenti di macchina ancora grezzi, ma che già contengono in potenza tutto quello che verrà dopo.
La narrazione viene relegata in secondo piano, poggiando tutto il peso del lungometraggio sulle spalle di una fotografia meravigliosa (polverosa e desaturata negli esterni, pittorica e dal tono gotico nelle frequenti escursioni nei sotterranei) e di continue invenzioni di linguaggio. Lo sguardo viene tradito in continuazione, asportando interi segmenti di azione marziale e convincendo il nostro cervello a completare il movimento (il braccio solleva la spada, taglio, la spada ha già colpito. Noi percepiamo l’intero movimento ascendente dell’arma). Non capiamo, ma le sensazioni hanno il soppravvento sulla percezione alterata della finzione.
Anche se le imperfezioni e le ingenuità sono tante The Butterfly Murders è il punto di partenza di una rivoluzione che ha cambiato il nostro modo di vedere (e sentire, come vorrebbe Tsui Hark) il cinema.
Person John Woo
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venerdì 26 settembre 2008
[ma quanto lo aspetto?] Fireball di Thanakorn Pongsuwan (THA/200?)
[pubblicità creativa] Porno Diesel
giovedì 25 settembre 2008
Misura la tua morbosità con Finn O'Hara
A Moment Before è il nuovo progetto del fotografo Finn O'Hara. Una serie di fotografie che immortalano la fatalità dell'attimo prima. Attimo prima di che cosa? A voi scoprirlo! Cronometrate quanto sostate su ogni immagine alla ricerca del particolare macabro e misurate la vostra morbosità di voyeur del nero (altro che plastici in seconda serata!).
mercoledì 24 settembre 2008
Il marketing della grande N = puro genio
Cliccate qui e aspettate almeno 20 secondi. Poi scrivete un bigliettino dove vi dichiarate annichiliti da tale genio e inviatelo all'attenzione di mamma Nintendo. Grazie.
martedì 23 settembre 2008
[oldiest but goldiest] Vigilante di William Lustig (1982)
Se esiste un film simbolo del cortocircuito di significati dietro al meta cinema questo è Vigilante di William Lustig. Un film definito dallo stesso regista come controparte americana della controparte europea dei vigilante movies statunitensi. Un gioco al rialzo capace di spostare il cinismo iconoclasta e velato d’umorismo di Michael Winner verso la brutalità di un Castellari, fino al genere puro e privo di sovrastrutture del cineasta di New York. Una ricorsa allo spettatore che parte da Brian Garfield, passa per i massacri del Grande Racket e si satura nel sorriso beffardo di Fred Williamson. La dimostrazione di come lo spietato meccanismo dietro al mercato cinematografico apparentemente meno autoriale possa generare un intero sistema di riferimenti, capace a sua volta di auto alimentarsi e di dare il via a una fetta d’immaginario collettivo fondamentale per tutti gli amanti di certo cinema ruvido e violento.
Lustig non può vantare tra i suoi pregi la maestria tecnica degli artigiani italici ma può sfruttare una capacità di osservazione dei meccanismi di genere spiccata e intelligente, che non per nulla lo porterà al serial killer movie definitivo Maniac (1980). Alla stessa maniera Vigilante rispetta tutte le tappe obbligatorie per la via della giustizia privata, svuotandole di ogni profondità o aspetto equivoco. Così i delicati meccanismi interiori del Cittadino si Ribella lasciano spazio a monologhi sulla pulizia morale delle città ben poco propensi alla riflessione interiore. Una partitura musicale sospesa tra melodramma e action urbano accompagna lo spettatore tra fucilate (violentissime) e scazzottate (invero piuttosto fiacche), fino alla fine degli 88 minuti di pellicola. Che, aiutata anche dal minutaggio perfetto, non annoia mai.
Cinema fatto di cinema, che si esprime al meglio nel montaggio serrato in concomitanza dei picchi più drammatici. Genere muscoloso e deliziosamente fine a se stesso, come se ne faceva quando non ci si doveva far grossi rivalutando quello che non ha certo bisogno di tale trattamento.
Lustig non può vantare tra i suoi pregi la maestria tecnica degli artigiani italici ma può sfruttare una capacità di osservazione dei meccanismi di genere spiccata e intelligente, che non per nulla lo porterà al serial killer movie definitivo Maniac (1980). Alla stessa maniera Vigilante rispetta tutte le tappe obbligatorie per la via della giustizia privata, svuotandole di ogni profondità o aspetto equivoco. Così i delicati meccanismi interiori del Cittadino si Ribella lasciano spazio a monologhi sulla pulizia morale delle città ben poco propensi alla riflessione interiore. Una partitura musicale sospesa tra melodramma e action urbano accompagna lo spettatore tra fucilate (violentissime) e scazzottate (invero piuttosto fiacche), fino alla fine degli 88 minuti di pellicola. Che, aiutata anche dal minutaggio perfetto, non annoia mai.
Cinema fatto di cinema, che si esprime al meglio nel montaggio serrato in concomitanza dei picchi più drammatici. Genere muscoloso e deliziosamente fine a se stesso, come se ne faceva quando non ci si doveva far grossi rivalutando quello che non ha certo bisogno di tale trattamento.
Person Fred Williamson
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venerdì 19 settembre 2008
Top of the pops: Riki Takeuchi
Uno dei miei idoli è Riki Takeuchi, infaticabile faccia del cinema giapponese più exploitation. Sempre al limite, presente in centinaia di film (tra alti e molti bassi). Inutile dire quanto sono stato felice di scoprire che Twitch oggi dedicava proprio a lui un post. Ma l'orrore era dietro l'angolo.
Perchè si parla della sua carriera musicale.
Perchè si parla della sua carriera musicale.
Che dire? Più annicchilenti dei suoi film con Miike!
giovedì 18 settembre 2008
Le favole noir di Miwa Yanagi
Miwa Yanagi, Fairy Tales Series: Sleeping Beauty, 2004 © Miwa Yanagi. Courtesy of the artist
Miwa Yanagi, Fairy Tales Series: Gretel, 2004 © Miwa Yanagi. Courtesy of the artist
Miwa Yanagi, Fairy Tales Series: Gretel, 2004 © Miwa Yanagi. Courtesy of the artist
Spiacente, ma tutto quello che sono riuscito a trovare circa questa serie di fotografie di Miwa Yanagi si esaurisce qui. Accetto segnalazioni su dove reperire il resto. Resta il fatto che questa reinterpretazione noir delle più note favole occidentali inquieta non poco.
mercoledì 17 settembre 2008
I supereroi con l'ingoio: The Boys di Garth Ennis e Darick Robertson
The Boys è stato opzionato per una serie televisiva, a dimostrazione di quanto i concetti appena espressi siano ancora alieni a certi livelli dirigenziali dell’intrattenimento. Se si vorrà mantenere intatta la carica eversiva del prodotto originale avremo a che fare con uno spin off di Heroes, scritto dagli sceneggiatori di Nip/Tuck e diretto da Andreas Schnaas. Piuttosto sconsolante, direi. Eppure su carta la nuova serie di Garth Ennis funziona alla grande. Perché è fumetto che parla di fumetto, con i mezzi e il linguaggio del fumetto. Mi pare semplice.
Aldilà dell’umorismo triviale e dello splatter The Boys rimane una riflessione acuta sul genere super eroistico. A differenza di Authority non eleva i paladini della giustizia a esseri semidivini, poteri sconfinati e nervi d’acciaio, ma li abbassa a un livello più che terreno. Dall’origine delle abilità caratterizzanti (frutto di esperimenti governativi) all’organizzazione, fino alla tempra dei Nostri, tutto ci fa capire che i veri problemi sono fuori dalla portata di quattro pagliacci inguainati in tute di latex. Basti pensare alla splash page post 11 settembre, ben diversa da quella mostrata nei primi numeri di Ex Machina, tanto per citare un altro fumetto che ha fatto dell’attentato alle Twin Towers un perno su cui far orbitare la riflessione circa poteri e responsabilità.
The Boys si nutre di ritmi e soluzioni impossibili fuori dalla letteratura disegnata, di cliffhanger e di tagli che il montaggio televisivo stuprerebbe. Lo stesso umorismo risulterebbe incomprensibile ai più (vedi la battuta sulla resurrezione, degna del Morrison più meta testuale), a tratti addirittura intollerabile nella sua pornografia. Perché il nuovo team creato dall'irlandese è un trastullo per chi di fumetti ne macina a decine, per chi riconosce in questo medium potenzialità aliene a ogni altra forma di narrazione e per chi ne ama profondamente la spaventosa libertà.
Basta poco per definire The Boys: una versione di Watchmen pubblicata sulle pagine di 2000AD. E chi non capisce questo paragone lasci pure il volume in libreria.
Person Mario Bava
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martedì 16 settembre 2008
Superstruct: il futuro dell'umanità in un MMFG
Come reagiremo alle crisi del futuro? La risposta la si trova giocando! Superstruct è un nuovo videogame online in cui l'utente si ritrova nel 2019, impegnato a risolvere i principali problemi dell'umanità interagendo con altri giocatori sparsi per il mondo. Speculazione gratuita? I creatori assicurano di no, garantendo l'utilizzo del software come un prezioso strumento di analisi della società e dei suoi comportamenti a lungo termine.
Sperando che la prossima crisi in medio oriente la si risolva con una sessione di World of Warcraft.
Sperando che la prossima crisi in medio oriente la si risolva con una sessione di World of Warcraft.
[ma quanto lo aspetto?] The Good, The Bad, and The Weird di Kim Ji-Woon
Le prime recensioni lo danno per certo: Kim Ji-Woon l'ha rifatto. Per l'ennesima volta il suo cinema è fatto da due righe di sceneggiatura e da una tonnellata di stile. Per chi ama la pura forma il sud koreano è un'autentica manna dal cielo (vedetevi A Bittersweet Life), per il resto del mondo rimarrà nella memoria come l'uomo delle pubblicità di D&G lunghe due ore. Mai stato parte del resto del mondo.
lunedì 15 settembre 2008
Crows Episode Zero di Takashi Miike (2007/Japan)
Prendete I Guerrieri della Notte, privateli dell’inconfondibile alone queer e innestateli ai combattimenti senza onore e umanità del Maestro Fukasaku. Sostituite il cinismo dello yakuza eiga con le speranze e i sogni caratteristici dell’ambientazione liceale. Aggiungete un fuorilegge come Takashi Miike a dirigere il tutto e il risultato sarà una delle uscite migliori della scorsa stagione.
Tra i corridoi del liceo Suzuran si combatte per il titolo di Re della Scuola. Le cose cambieranno con l’ arrivo di un nuovo studente, deciso a cambiare le carte in tavola.
Dopo aver stupito tutti con il kolossal finto puerile “The Great Yokai War”, con il dramma gay “Big Bang Love, Juvenile A”, con la marchettona Django e l’episodio censurato per i Masters of Horror Miike pare tornare, a distanza di dieci anni, ai due episodi di Young Thugs. Il filone orientale dei “combattimenti liceali” (tanto fruttuoso in Giappone nell’ambito manga/anime quanto in versione live action in terra Sud Koreana) va ad arricchirsi delle trovate surreali tipiche del Nostro, questa volta misurato più del solito nel premere sul tasto della nostalgia a favore dell’intrattenimento più raffinato.
I 130 minuti di questo episodio zero scorrono veloci, complice sia una sceneggiatura che non ha paura di infangarsi con il colore tipico della letteratura disegnata che la regia frizzante di Miike, consumata macchina da cinema accorta nell’ inserire ogni dieci minuti l’invenzione inedita o l’inquadratura evocativa, richiami infallibili anche per l’attenzione dello spettatore più distratto. Una fotografia magnifica, sospesa tra l’azzurro del cielo e i grigi del degrado urbano, dipinge nel migliore dei modi un affresco complesso e variegato, raggiungendo il suo vertice nella resa dei conti sotto la pioggia (ormai un cliché del cinema orientale).
Per una volta Miike decide di non irridere luoghi comuni e passaggi obbligati del cinema di genere, scegliendo piuttosto di sfruttarli a pieno, realizzando un’opera smaccatamente commerciale (già nella titolazione si intuisce che sono pianificati più seguiti), svincolata dai temi tipici del regista di Ichi e Agitator, magistralmente diretta e capace di stimolare anche il cinefilo più smaliziato. Ci sono i raccordi micro millesimali, i piani di narrazione paralleli, l’effetto speciale naif e una serie di movimenti di macchina da mozzare il fiato (soprattutto quelli atti a suggerire l’impatto dei colpi), in più il senso d’amicizia, l’ ascesa nel mondo delle gang, una ricca galleria di personaggi caratteristici e ben definiti (tutti utili alla narrazione) oltre che un finale aperto che trasuda epica moderna. Intrattenimento di gran classe, leggero nei contenuti ma prezioso nella forma. Un ottovolante di stile e trovate come Miike non ci proponeva dai tempi di City Of Lost Souls (2000).
Tra i corridoi del liceo Suzuran si combatte per il titolo di Re della Scuola. Le cose cambieranno con l’ arrivo di un nuovo studente, deciso a cambiare le carte in tavola.
Dopo aver stupito tutti con il kolossal finto puerile “The Great Yokai War”, con il dramma gay “Big Bang Love, Juvenile A”, con la marchettona Django e l’episodio censurato per i Masters of Horror Miike pare tornare, a distanza di dieci anni, ai due episodi di Young Thugs. Il filone orientale dei “combattimenti liceali” (tanto fruttuoso in Giappone nell’ambito manga/anime quanto in versione live action in terra Sud Koreana) va ad arricchirsi delle trovate surreali tipiche del Nostro, questa volta misurato più del solito nel premere sul tasto della nostalgia a favore dell’intrattenimento più raffinato.
I 130 minuti di questo episodio zero scorrono veloci, complice sia una sceneggiatura che non ha paura di infangarsi con il colore tipico della letteratura disegnata che la regia frizzante di Miike, consumata macchina da cinema accorta nell’ inserire ogni dieci minuti l’invenzione inedita o l’inquadratura evocativa, richiami infallibili anche per l’attenzione dello spettatore più distratto. Una fotografia magnifica, sospesa tra l’azzurro del cielo e i grigi del degrado urbano, dipinge nel migliore dei modi un affresco complesso e variegato, raggiungendo il suo vertice nella resa dei conti sotto la pioggia (ormai un cliché del cinema orientale).
Per una volta Miike decide di non irridere luoghi comuni e passaggi obbligati del cinema di genere, scegliendo piuttosto di sfruttarli a pieno, realizzando un’opera smaccatamente commerciale (già nella titolazione si intuisce che sono pianificati più seguiti), svincolata dai temi tipici del regista di Ichi e Agitator, magistralmente diretta e capace di stimolare anche il cinefilo più smaliziato. Ci sono i raccordi micro millesimali, i piani di narrazione paralleli, l’effetto speciale naif e una serie di movimenti di macchina da mozzare il fiato (soprattutto quelli atti a suggerire l’impatto dei colpi), in più il senso d’amicizia, l’ ascesa nel mondo delle gang, una ricca galleria di personaggi caratteristici e ben definiti (tutti utili alla narrazione) oltre che un finale aperto che trasuda epica moderna. Intrattenimento di gran classe, leggero nei contenuti ma prezioso nella forma. Un ottovolante di stile e trovate come Miike non ci proponeva dai tempi di City Of Lost Souls (2000).
sabato 13 settembre 2008
Burn Down Rome - Devotion (Visible Noise/2008)
Riusciranno i Burn Down Rome a strappare ai Bring Me The Horizon lo scettro di combo più emo cool d'Inghilterra? Probabilmente no, ma questo succede quando una band valida e intelligente partecipa a una gara di superficialità! Qui la mia rece.
Fuck The Facts - Disgorge, Mexico (Relapse/2008)
Post grind non certo nelle sue accezioni migliori. Qui la mia rece.
venerdì 12 settembre 2008
[trailer] Legendary Assassin di Wu Jing (HK/2008)
Tra tutti gli attorucoli delle nuove generazioni solo due esseri disumani hanno saputo restituire dignità al cinema marziale (inteso come massima espressione del linguaggio corpo nel genere puro): il tailandese Tony Jaa e il cantonese Wu Jing. Ora siamo arrivati al debutto da regista per entrambi. Qui il trailer per Ong Bak 2 che, nonostante la lavorazione travagliata, promette di essere ENORME, mentre sopra il (pessimo) primo assaggio di Legendary Assassin di Wu Jing. A un passo dalla leggenda o prossimi all'abisso?
P.S: quanto fa dramma koreano la scena di lotta sotto la pioggia?
P.S: quanto fa dramma koreano la scena di lotta sotto la pioggia?
giovedì 11 settembre 2008
Pictoplasma NYc 2008
Una piccola selezione dall'annuale esposizione Pictoplasma. I video sono tratti da un articolo di We Make Money Not Art, dedicato al connubio tra animazione e musica.
Dal grande Imery Watson.
Character design di Solobongnu-Sensei, Woog, Maharo.
Un commovente omaggio a Jim Henson da parte di Oury Atlan, Thibaut Berland e Damien Ferrié.
Capolavori.
Dal grande Imery Watson.
Character design di Solobongnu-Sensei, Woog, Maharo.
Un commovente omaggio a Jim Henson da parte di Oury Atlan, Thibaut Berland e Damien Ferrié.
Capolavori.
martedì 9 settembre 2008
[pubblicità creativa] Gordon Ramsey, il bambino più cazzuto della Terra
Il piccolo bigino del viral marketing: una serie di filmati da diffondere via social network, un personaggio destinato al culto 2.0 e un senso dell'umorismo piuttosto deflagrante. Quanto passerà prima che Gordon Ramsey conquisti il web?
Person Gordon Ramsey
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lunedì 8 settembre 2008
[oldiest but goldiest] Dangerous Encounters: 1st Kind (1980/HK)
Nonostante tutto il buon Tsui Hark aveva un sacco buone ragioni per essere incazzato nero. Due flop alle spalle su due lungometraggi diretti, una città allo sbando dove vivere e lo spettro cinese sempre più vicino. Pensando a questo non è difficile immaginarsi come Dangerous Encounters: 1st Kind sia stato concepito.
In una Hong Kong lercia e troppo simile a una gabbia per cavie, tre studenti ingannano il tempo facendo esplodere bombe in luoghi pubblici. Il loro gioco subirà una svolta drammatica quando intralcerà il lavoro di mercanti d’armi occidentali.
Cinema politico e nichilista, linguisticamente d’avanguardia, simbolo di tutto quello che sarebbe venuto negli anni a seguire, Dangerous Encounters: 1st Kind gioca con luci e ombre fino al grottesco finale. Una danza di morte tra cadaveri che camminano, un tour de force stilistico e sanguinolento che lascia storditi per potenza deflagrante. Un accumulo di fisionomie sgraziate e prospettive deformanti, un teatrino della miseria umana sorretto da raccordi di montaggio duri come un pugno in pieno volto.
Opera imperfetta, eccessivamente di pancia, macchiata e nobilitata da eccessi simbolici che ne minano sceneggiatura e ritmo. Difetti portati da un furore e da un apporto emotivo che ne costituiscono al contempo spina dorsale e rivestimento epidermico.
Da sempre fautore di una sinergia tra critica politico/sociale e cinema di genere Tsui Hark raggiunge qui il suo zenit pornografico (in contrapposizione alle metafore precedenti), usando lo spazio tra le righe non per suggerire ma per urlare a squarciagola il male di una società di topi. Ne risulta un opera non per tutti, scomoda anche per gli amanti del cinema dell’ex colonia inglese.
Più Patrick Yau che John Woo, oppure semplicemente Tsui Hark. Puro e mai semplice.
In una Hong Kong lercia e troppo simile a una gabbia per cavie, tre studenti ingannano il tempo facendo esplodere bombe in luoghi pubblici. Il loro gioco subirà una svolta drammatica quando intralcerà il lavoro di mercanti d’armi occidentali.
Cinema politico e nichilista, linguisticamente d’avanguardia, simbolo di tutto quello che sarebbe venuto negli anni a seguire, Dangerous Encounters: 1st Kind gioca con luci e ombre fino al grottesco finale. Una danza di morte tra cadaveri che camminano, un tour de force stilistico e sanguinolento che lascia storditi per potenza deflagrante. Un accumulo di fisionomie sgraziate e prospettive deformanti, un teatrino della miseria umana sorretto da raccordi di montaggio duri come un pugno in pieno volto.
Opera imperfetta, eccessivamente di pancia, macchiata e nobilitata da eccessi simbolici che ne minano sceneggiatura e ritmo. Difetti portati da un furore e da un apporto emotivo che ne costituiscono al contempo spina dorsale e rivestimento epidermico.
Da sempre fautore di una sinergia tra critica politico/sociale e cinema di genere Tsui Hark raggiunge qui il suo zenit pornografico (in contrapposizione alle metafore precedenti), usando lo spazio tra le righe non per suggerire ma per urlare a squarciagola il male di una società di topi. Ne risulta un opera non per tutti, scomoda anche per gli amanti del cinema dell’ex colonia inglese.
Più Patrick Yau che John Woo, oppure semplicemente Tsui Hark. Puro e mai semplice.
domenica 7 settembre 2008
The Chaser di Hong-jin Na (2008/Korea del Sud)
The Chaser non è che la riproposta pop e patinata di quel capolavoro di Memories of Murder. La stessa sfiducia cronica nelle istituzioni e la stessa mancanza di prospettiva pensando al futuro. Naturale che la rilettura di un film politico produca un qualcosa di meno concettuale e più vicino al genere, ma The Chaser rimane comunque avvolto in un fascio di buio talmente impenetrabile da non perdere un grammo di fascino.
Joong-ho Eom è un pappone, ex poliziotto, convinto che qualcuno stia vendendo le sue ragazze. Fino al giorno in cui un dubbio incomincia a farsi sinistramente spazio nei suoi pensieri. Sarà l’inizio di una crociata personale.
The Chaser è un noir dalle sfumature horror dove, piuttosto che lo splatter gratuito e la ricerca dello shock a ogni costo, sono i sentimenti e l’umanità di chi sta ai margini a essere sempre in primo piano. Le forze dell’ordine ci vengono descritte come incompetenti, perse in un mare di burocrazia e relazioni pubbliche, mentre un assassino porta avanti la sua missione di morte senza nemmeno curarsi di nascondere le tracce. Dopotutto sarebbe lavoro inutile, sprecato. Solo la rabbia incontrollabile di Joong-ho sembra dare qualche frutto, tra indagini improvvisate e scoppi d’ira. Non abbiamo a che fare con un film da inscrivere nel filone della giustizia privata, dove un cittadino qualunque diventa una gelida macchina da vendetta. Qui il protagonista è un duro, nel senso più classico del termine, ma prima della conclusione saranno infinite le goffe corse a perdifiato, gli sbagli e le percosse subite. Tutto narrato in maniera estremamente pacata ed elegante, con un comparto fotografico raffinato che dona a tutto il lungometraggio un' aura da film importante, lontano dai cromatismi sporchi che il genere “serial killer” pare richiedere fin dal terremoto Seven.
Sorprende come il basso profilo della messa in scena (musica col contagocce, montaggio e movimenti di macchina invisibili) si sposi in maniera egregia con i numerosi colpi allo stomaco che The Chaser distribuisce con generosità. Complice anche la scelta della completa assenza di sonoro (a livello diegetico in un caso, mentre extradiegetico nella scena madre) durante i momenti più duri.
Non un capolavoro, ma un altro grande esempio di come il genere più puro possa arrivare a raccontare qualcosa d’altro e di altissimo.
Joong-ho Eom è un pappone, ex poliziotto, convinto che qualcuno stia vendendo le sue ragazze. Fino al giorno in cui un dubbio incomincia a farsi sinistramente spazio nei suoi pensieri. Sarà l’inizio di una crociata personale.
The Chaser è un noir dalle sfumature horror dove, piuttosto che lo splatter gratuito e la ricerca dello shock a ogni costo, sono i sentimenti e l’umanità di chi sta ai margini a essere sempre in primo piano. Le forze dell’ordine ci vengono descritte come incompetenti, perse in un mare di burocrazia e relazioni pubbliche, mentre un assassino porta avanti la sua missione di morte senza nemmeno curarsi di nascondere le tracce. Dopotutto sarebbe lavoro inutile, sprecato. Solo la rabbia incontrollabile di Joong-ho sembra dare qualche frutto, tra indagini improvvisate e scoppi d’ira. Non abbiamo a che fare con un film da inscrivere nel filone della giustizia privata, dove un cittadino qualunque diventa una gelida macchina da vendetta. Qui il protagonista è un duro, nel senso più classico del termine, ma prima della conclusione saranno infinite le goffe corse a perdifiato, gli sbagli e le percosse subite. Tutto narrato in maniera estremamente pacata ed elegante, con un comparto fotografico raffinato che dona a tutto il lungometraggio un' aura da film importante, lontano dai cromatismi sporchi che il genere “serial killer” pare richiedere fin dal terremoto Seven.
Sorprende come il basso profilo della messa in scena (musica col contagocce, montaggio e movimenti di macchina invisibili) si sposi in maniera egregia con i numerosi colpi allo stomaco che The Chaser distribuisce con generosità. Complice anche la scelta della completa assenza di sonoro (a livello diegetico in un caso, mentre extradiegetico nella scena madre) durante i momenti più duri.
Non un capolavoro, ma un altro grande esempio di come il genere più puro possa arrivare a raccontare qualcosa d’altro e di altissimo.
giovedì 4 settembre 2008
Don Caballero - Punkgasm (Relapse/2008)
Qui la mia rece al nuovo (e bruttarello) album degli storici Don Caballero. A questo punto meglio buttarsi sui Battles...
mercoledì 3 settembre 2008
The Walking Dead: la forza del desiderio (di Kirkman e Adlard)
Fino al terzo volume The Walking Dead era un ottimo fumetto. Con il quarto diventa capolavoro. Lasciati definitivamente i non morti sullo sfondo, correggendo l’andamento schematico e premendo sul tasto dell’introspezione la serie trova finalmente la sua identità precisa. Difficilmente ci si sarebbe aspetti una profondità simile da uno spunto avviato in maniera eccellente ma comunque basato su cliché noti per forza di cose.
Forte di una regia capace di dare energia e dinamismo anche a semplici diverbi verbali, Kirkman può permettersi ormai di basare gran parte delle storie su dialoghi in situazioni statiche. L’utilizzo sapiente del cliffhanger (anche tra una pagina e l’altra) e il ricorso a drammatiche splash page impostate su primi piani rendono il meccanismo empatico disarmante per efficacia e decisione nel colpire basso il lettore. Figura extradiegetica destinata, tra l’altro, a perdere sempre più importanza nell’universo narrativo di The Walking Dead. Il miracolo di questo fumetto è quello di far sentire il fruitore come parte della comunità protagonista piuttosto che spettatore. La natura ongoing della serie rende il tutto estremamente realistico e ogni personaggio acquista una caducità inaudita per una creazione di carta e inchiostro. La comunità del tuo condominio, del tuo paesello o della tua via non si esaurisce dopo 12 numeri, e questa è esattamente l’impressione che l’opera di Kirkman e Adlard lascia pagina dopo pagina. Quella di un mondo che va al di là della quarta parete, quella di personaggi veri e sfaccettati, con una vita che ha una continuità tra una vignetta e l’altra.
The Walking Dead dimostra quanto si possa arrivare alto partendo da un punto considerato tragicamente basso come il fumetto seriale di matrice horror, senza ricorrere a sgangherati team up o al solito umorismo slapstick. La capacità di suscitare dibattiti morali legati alla nostra attualità è seconda solo al DMZ di Wood e Burchielli, evitando (per ora) la politica ma preferendo indagare il lato etico della società. Il tutto inserito in un contesto appassionante, umano e palpitante. Come già detto, capolavoro.
Accattatevelo qui!
Qui invece la mia rece al precedente volume.
Forte di una regia capace di dare energia e dinamismo anche a semplici diverbi verbali, Kirkman può permettersi ormai di basare gran parte delle storie su dialoghi in situazioni statiche. L’utilizzo sapiente del cliffhanger (anche tra una pagina e l’altra) e il ricorso a drammatiche splash page impostate su primi piani rendono il meccanismo empatico disarmante per efficacia e decisione nel colpire basso il lettore. Figura extradiegetica destinata, tra l’altro, a perdere sempre più importanza nell’universo narrativo di The Walking Dead. Il miracolo di questo fumetto è quello di far sentire il fruitore come parte della comunità protagonista piuttosto che spettatore. La natura ongoing della serie rende il tutto estremamente realistico e ogni personaggio acquista una caducità inaudita per una creazione di carta e inchiostro. La comunità del tuo condominio, del tuo paesello o della tua via non si esaurisce dopo 12 numeri, e questa è esattamente l’impressione che l’opera di Kirkman e Adlard lascia pagina dopo pagina. Quella di un mondo che va al di là della quarta parete, quella di personaggi veri e sfaccettati, con una vita che ha una continuità tra una vignetta e l’altra.
The Walking Dead dimostra quanto si possa arrivare alto partendo da un punto considerato tragicamente basso come il fumetto seriale di matrice horror, senza ricorrere a sgangherati team up o al solito umorismo slapstick. La capacità di suscitare dibattiti morali legati alla nostra attualità è seconda solo al DMZ di Wood e Burchielli, evitando (per ora) la politica ma preferendo indagare il lato etico della società. Il tutto inserito in un contesto appassionante, umano e palpitante. Come già detto, capolavoro.
Accattatevelo qui!
Qui invece la mia rece al precedente volume.
martedì 2 settembre 2008
Annunciato A Goldfish Of The Flam, il nuovo Suzuki
Con grandissima sorpresa di tutti è stato annunciato un nuovo film di Seijun Suzuki "A Goldfish Of The Flam". La nuova opera del Maestro sarà presentata al quarto Tokyo Project Gathering, previsto per il 21 ottobre (fino al 24 dello stesso mese). Considerando che l'omino in questione ha diretto due tra i miei film preferiti di sempre (nonchè capolavori assoluti del noir) la mia impazienza è già a livelli di guardia.
Per quegli sventurati che ancora non conoscono l'arte del Maestro Suzuki allego i trailer di Branded to Kill e Tokyo Drifter. Immenso Suzuki.
Per quegli sventurati che ancora non conoscono l'arte del Maestro Suzuki allego i trailer di Branded to Kill e Tokyo Drifter. Immenso Suzuki.
lunedì 1 settembre 2008
Quando l'antieroe non c'è (e si sente). Doomsday di Neil Marshall (2008)
Chiariamo subito una cosa: Doomsday è il prodotto più genuinamente di genere uscito negli ultimi 5 o 6 anni. Nessuna sovrastruttura, nessuna riflessione meta cinematografica, nessuna voglia di apparire moderno e accattivante a ogni costo (ne tantomeno vintage). Perché qui si parla di un’eruzione di zoom selvaggi e panoramiche a schiaffo, di sangue e piombo, senza dimenticare i continui riferimenti all’immaginario popolare della generazione pre Playstation.
Dopo un quarto d’ora di film, dove ci viene introdotta una delle tre classiche tematiche da post apocalittico (si parla di epidemia, ma si poteva scegliere anche tra terza guerra mondiale e crisi energetica) il fenomeno Neil Marshall ci sbatte su di un ottovolante totalmente fuori controllo. Ogni inquadratura trasuda amore per la sacra triade Carpenter/Hill/Miller, ma non ci si dimentica neppure del Raimi più scatenato o dell’outsider per eccellenza Pyun. Azione old school a quintalate, quella dove esplosioni, frattaglie e movimenti di macchina non sono contaminate dalla mefitica trappola della CG. Continui riferimenti tra l’omaggio ossequioso (e geniale, nel caso dei Guerrieri della Notte) e lo scherno tipicamente inglese (ottima e sottile la frecciatina all’epica da ipermercato del Signore degli Anelli) fanno la felicità di ogni nerd che si rispetti, mentre finiscono per gasare inevitabilmente anche chi con certi film non è cresciuto. Perché, a differenza dell’ultimo Tarantino automobilistico, questo è un gran film anche senza ragionarci sopra, senza il meta cinema e senza tante scuse per giustificare 40 minuti di dialoghi imbarazzanti. Cinema dell’accumulo, come se la componente preadolescente del regista abbia preso la meglio in fase di scrittura, condizionandola. Così ecco il blocchetto Aliens, quello 1997 Fuga da New York, quello Armata delle Tenebre e quello Mad Max. Fin qui tutto bene, ora passiamo a parlare dei problemi. Anzi, del problema: Rhona Mitra.
Sergio Leone sapeva bene l’importanza dell’antieroe, di quanto una figura simile avrebbe catturato l’immaginazione del pubblico. Un gioco continuo tra raffinata decostruzione di una figura mitica e sbruffonata gratuita. E così una battuta da pulp di terza categoria come “Vai a morire solo?” diventa leggenda se messa in bocca a un Clint Eastwood cinico, bastardo e doppiogiochista. Vedere Snake Plissken prendere bellamente per il culo Lee Van Cleef o Ash autoproclamarsi un “non così bravo ragazzo” puntando una doppietta al volto del suo clone malvagio sono autentici spicchi epica moderna. Rhona Mitra invece no. Escludendo un paio di uscite decisamente felici (guardate la faccia della protagonista quando si sente apostrofare come “pericolosa” dalla figlia di McDowell) abbiamo a che fare con un'eroina senza macchia e paura, senza alcun tipo di eccesso. Senza alcun tipo di carisma. L’impressione è quella di una pressione da parte dei finanziatori, ansiosi di gettare al pubblico la nuova Alice. E’ quasi impossibile pensare a un errore da parte del regista che mette tra i suoi film preferiti “Grosso guaio a Chinatown” e “La spada a tre lame”. Insomma, questo la materia la conosce!
In un film fatto di frattaglie, lamiere, bossoli e cannibali (oltre che un paio di altre sorprese) quello che manca è il bastardo che ci mette nella posizione di tifare per i cattivi stando dalla parte dei buoni, la porzione di dialogo da ripetere allo sfinimento con gli amici, quel quid che permette a un’opera legata alla fiction di diventare parte della nostra vita reale.
A questo punto accontentiamoci solamente del film più tosto dell’anno.
Dopo un quarto d’ora di film, dove ci viene introdotta una delle tre classiche tematiche da post apocalittico (si parla di epidemia, ma si poteva scegliere anche tra terza guerra mondiale e crisi energetica) il fenomeno Neil Marshall ci sbatte su di un ottovolante totalmente fuori controllo. Ogni inquadratura trasuda amore per la sacra triade Carpenter/Hill/Miller, ma non ci si dimentica neppure del Raimi più scatenato o dell’outsider per eccellenza Pyun. Azione old school a quintalate, quella dove esplosioni, frattaglie e movimenti di macchina non sono contaminate dalla mefitica trappola della CG. Continui riferimenti tra l’omaggio ossequioso (e geniale, nel caso dei Guerrieri della Notte) e lo scherno tipicamente inglese (ottima e sottile la frecciatina all’epica da ipermercato del Signore degli Anelli) fanno la felicità di ogni nerd che si rispetti, mentre finiscono per gasare inevitabilmente anche chi con certi film non è cresciuto. Perché, a differenza dell’ultimo Tarantino automobilistico, questo è un gran film anche senza ragionarci sopra, senza il meta cinema e senza tante scuse per giustificare 40 minuti di dialoghi imbarazzanti. Cinema dell’accumulo, come se la componente preadolescente del regista abbia preso la meglio in fase di scrittura, condizionandola. Così ecco il blocchetto Aliens, quello 1997 Fuga da New York, quello Armata delle Tenebre e quello Mad Max. Fin qui tutto bene, ora passiamo a parlare dei problemi. Anzi, del problema: Rhona Mitra.
Sergio Leone sapeva bene l’importanza dell’antieroe, di quanto una figura simile avrebbe catturato l’immaginazione del pubblico. Un gioco continuo tra raffinata decostruzione di una figura mitica e sbruffonata gratuita. E così una battuta da pulp di terza categoria come “Vai a morire solo?” diventa leggenda se messa in bocca a un Clint Eastwood cinico, bastardo e doppiogiochista. Vedere Snake Plissken prendere bellamente per il culo Lee Van Cleef o Ash autoproclamarsi un “non così bravo ragazzo” puntando una doppietta al volto del suo clone malvagio sono autentici spicchi epica moderna. Rhona Mitra invece no. Escludendo un paio di uscite decisamente felici (guardate la faccia della protagonista quando si sente apostrofare come “pericolosa” dalla figlia di McDowell) abbiamo a che fare con un'eroina senza macchia e paura, senza alcun tipo di eccesso. Senza alcun tipo di carisma. L’impressione è quella di una pressione da parte dei finanziatori, ansiosi di gettare al pubblico la nuova Alice. E’ quasi impossibile pensare a un errore da parte del regista che mette tra i suoi film preferiti “Grosso guaio a Chinatown” e “La spada a tre lame”. Insomma, questo la materia la conosce!
In un film fatto di frattaglie, lamiere, bossoli e cannibali (oltre che un paio di altre sorprese) quello che manca è il bastardo che ci mette nella posizione di tifare per i cattivi stando dalla parte dei buoni, la porzione di dialogo da ripetere allo sfinimento con gli amici, quel quid che permette a un’opera legata alla fiction di diventare parte della nostra vita reale.
A questo punto accontentiamoci solamente del film più tosto dell’anno.
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