giovedì 14 aprile 2011

[Pyunologia pt.3] Captain America di Albert Pyun (US/1990)



Mi si lasci il privilegio di partire prendendola piuttosto larga. In uno degli scorsi interventi relativi al nostro regista hawaiiano preferito si era tirato in ballo un confronto con Mario Bava. Considerato il fatto che si sta per andare a parlare di cinecomics anche questa volta occorre scomodare il Maestro, sempre nella prospettiva di poter capire meglio le intenzioni di Pyun. Per arrivare a parlare di Captain America si deve partire infatti da Diabolik (diretto da Bava, ovviamente), campione indiscusso del suo genere anche a distanza di decenni.


A differenza di tutti gli altri cinecomics prodotti Diabolik riesce a dare una profondità enorme al linguaggio del fumetto rendendolo, paradossalmente, pura superficie. Inscrivere l’opera di Bava unicamente nel linguaggio cinematografico è infatti un errore di concetto imperdonabile. Tirando le somme siamo più dalle parti della video arte sui generis, complice la fusione completa tra pop-art e prodotto di genere. In misura molto maggiore rispetto agli horror di Morrissey prodotti dallo stesso Warhol, tra l'altro. Mario Bava getta in faccia allo spettatore una versione apparentemente stereotipata e piatta della narrativa disegnata, giocando invece su come luoghi comuni e percezione della finzione abbiano influenza sul grande pubblico. Il risultato è un film dove le cose che sembrano vere in realtà non esistono (tutta la caverna sotterranea di Diabolik era composta in realtà da modellini ingranditi con un gioco di specchi) e le poche cose vere sembrano finte (il castello in cui avviene il furto di gioielli pare fatto di cartapesta). Meravigliose poi la continue prese in giro nei confronti di certe esagerazioni da blockbuster, in primis la distruzione di tutti gli uffici del governo (scena copiata poi da Fincher per il finale del suo Fight Club). Ancora una volta il Maestro si riconferma tra i più grandi registi di sempre, affinando la sua incredibile capacità di ratificare i generi e contemporaneamente di rileggerli in chiave postmoderna (con almeno 40 anni di anticipo). Operazione riscontrabile nel sabotaggio al gotico di La Maschera del Demonio, nello slasher totale Reazione a Catena (a cui bastano i primi 10 minuti per destrutturare il genere, inventato dallo stesso Bava con 6 Donne per l’Assassino), nella psichedelia ipertrofica di Ercole al Centro della Terra (uno dei pastiche di generi più strabordanti a cui abbia assistito) e, tra le altre cose, nella sottilissima parodia della fantascienza low budget di Terrore nello Spazio (in cui compaiono tre razze di alieni senza che se ne veda una. Tutto grazie a raffinatissimi giochi di sceneggiatura e messa in scena).


Un lavoro concettuale straordinario e in anticipo sui tempi, a cui va a fondersi una messa in scena di una classe e di uno stile (chi se lo ricorda?) che oggi sarebbero impossibili anche solo da mettere su carta. Dalle scenografie sospese tra il design di Joe Colombo e le più sfrenate fantasie alla James Bond fino alla colonna sonora di un Morricone in stato di grazia, capace di unire lounge music e free jazz. Senza dimenticarsi di una Marisa Mell oltraggiosamente bella (sempre fasciata in miniabiti da infarto) e di Michel Piccoli nella parte di Ginko. Confrontate con la CGI e la totale mancanza di gusto odierne e avrete un risultato impietoso (a dir poco).


Tornando sul Capitan America di Pyun ci si deve fermare all’aspetto teorico. I primi 30/35 minuti sono la precisa trasposizione tardo ottantiana di quanto fatto da Bava con Diabolik. Il fumetto si palesa come tale e si auto sabota infilando continui richiami al ridicolo tra le pieghe del cinema di cassetta. Di fatto tutta questa prima parte del film è straordinaria. Pop a budget zero, divertentissimo e scanzonato. Non indugia sui propri difetti e si concentra piuttosto su ritmo e trovate da b-movie horror. Se dopo si volesse fare i precisi a ogni costo ci sarebbero intere sequenze sovrapponibili agli Ultimates di Mark Millar, ma facciamo finta di niente e manteniamo un bel ricordo di una bella serie a fumetti. Si deve dire però che se le esagerazioni su carta hanno la funzione di gasare il nerd medio, su pellicola hanno un risultato praticamente opposto. Vedere un Capitan America che si fa un volo intercontinentale attaccato a un razzo ed evita all’ultimo minuto l’impatto di questo con la Casa Bianca semplicemente prendendo a calci il missile è paragonabile solo al nostro Capitano che, dopo essersi risvegliato da un ibernazione di 50 anni, si fa Groenlandia – Canada di corsa. Tutte cose che, per inciso, nel film succedono veramente. E sono comunque meno fiche del Teschio Rosso che parla italiano (visto che nella trasposizione cinematografica lo si fa passare per frutto di esperimenti del regime fascista).


Peccato che dopo un inizio così scoppiettante il lungometraggio si involva paurosamente, trascinandosi stancamente fino al finale. Siamo sempre nella zona dell’opera godibile, ma quel senso di autentica perla dimenticata che riesce a trasmettere nei primi minuti svanisce poco a poco. La poetica di Pyun è soffocata dai bisogni di una produzione infame, riuscendo a malapena a fare capolino. Rimane il sapore dell’amaro in bocca nell’accontentarsi di un quasi mediocre film TV quando si sarebbe potuto avere tra le mani un capolavoro psicotonico di povertà e fantasia (come era stato The Sword & The Sorcerer). Peccato, non rimane che consolarsi riguardandosi le prodezze di Marisa Mell/ Evan Kant.



2 commenti:

Slum King ha detto...

Spero che la director's cut riveli un finale meno stanco.

MA! ha detto...

Pyun ha comunicato tramite il suo Twitter che ci sta lavorando. Ha definito la versione finale "weirder". Chissà che roba salta fuori!