Nuovo stupendo tomo fuori per Mark Batty Publisher, questa volta dedicato all'arte del glitch. Per chi non ha perso ore su emulatori o vecchi "computer" (virgolette d'obbligo) i glitch sono errori di sistema che portano a quelle schermate sospese tra arte astratta e suggestioni cyber punk. A dire il vero quelli di The Designers Republic lo facevano già 20 anni fa, ma pare che per il totale sdoganamento sia arrivato il momento solo ora. Sotto qualche esempio.
martedì 29 settembre 2009
lunedì 28 settembre 2009
[trailer] Rampage di Uwe Boll: l'orrore
Un tizio sbrocca, si costruisce una tuta in kevlar e, semplicemente, abbatte tutto quello che si muove. Dicono che sia un gran film, nonostante la presenza di Uwe dietro la macchina da presa. Di sicuro è la dimostrazione che un vero film horror non richiede mostri, sette, vampiri o tantomeno presenze ectoplasmatiche. Il reale, quello che ti può succedere uscendo per strada, sarà sempre la cosa più terrorizzante tu possa incontrare. Senza tante menate simboliche o metaforiche.
Piccola nota personale: i 4 secondi tra le due schermate in bianco e nero sono la cosa più terrorizzante che mi sia capitato di vedere da parecchio tempo a questa parte. Dentro ci sono almeno 10 anni di cronaca, tra scenari di guerra, terrorismo e atti di follia omicida.
Piccola nota personale: i 4 secondi tra le due schermate in bianco e nero sono la cosa più terrorizzante che mi sia capitato di vedere da parecchio tempo a questa parte. Dentro ci sono almeno 10 anni di cronaca, tra scenari di guerra, terrorismo e atti di follia omicida.
L'arte della coercizione: The Housemaid di Kim Ki-young (Sud Corea/1960)
Ci voleva l’interessamento di un certo Jean-Michel Frodon, caporedattore dei Cahiers du Cinéma, e i soldi di Scorsese, Armani e Cartier per riportare alla luce questo The Housemaid. Autentico esempio di film politico, nasconde sotto la veste di noir in versione “psicodramma familiare” una sottile metafora dei giochi politici che accompagnano ogni giorno della nostra vita.
In una ricca famiglia della Corea degli anni ’60 l’arrivo di una cameriera è destinato a incrinare per sempre gli equilibri familiari, con risultati sempre più drammatici e sconvolgenti.
Il film si apre con una copia di sequenze illuminanti per poter capire il resto dell’opera. Nella prima la coppia protagonista si ritrova a tavola, commentando ad alta voce le notizie del giorno. Il punto focale di tutto il dialogo è come i datori di lavoro siano diventati dipendenti dalla loro servitù, che a loro volta non può esistere senza lo stipendio mensile. Subito dopo lo scambio di battute ci si sposta sui figli, impegnati in quel tradizionale gioco in cui si sfruttano un elastico e le proprie dita per costruire dei complessi reticoli. A ogni passaggio interviene uno dei due giocatori, perde chi non è in grado di tessere la ragnatela seguente. Kim Ki-young parte da questo semplice preambolo per costruire un castello di potere e sottomissione sempre più morboso e inaccettabile, fino alla grottesca conclusione.
Abilissimo nel tratteggiare le psicologie dei suoi personaggi, il Maestro sud coreano sfrutta a pieno un parco attori ridotto (neppure una decina di personaggi) e un’unica location principale per ironizzare in maniera feroce e nerissima sui complessi meccanismi di coercizione che definiscono le relazioni umane. Lo spettro del tradimento diventa motore primo di un gioco di specchi che finisce per confondere e abbagliare i suoi stessi fautori, in una partita a scacchi dove perdono tutti. Personaggi odiosi, messa in scena tra l’horror e il noir, tasso di morbosità capace di disturbare ancora oggi (e si consideri che il film è del 1960).
Al di là della raffinatissima fotografia e di una serie di soluzioni tecniche che lasciano interdetti (le carrellate sull’asse o il montaggio epilettico del funerale) quello che rimane di una simile opera è la finezza e l’intelligenza con cui si affrontano i temi. Nessun didascalismo politico da quattro soldi (tipo quelli che si vogliono addossare allo splendido District 9, dove lo spunto è più McGuffin che reale metafora) e nessun bisogno di arrivare a quel cinema dell’estremo che pare essere diventato unica via per scuotere. Ci vogliono 1000 Martyrs per arrivare alla pesantezza di certi giochi psicologici che si vedono in questo The Housemaid (tipo convincere un bambino di 4 anni di essere stato avvelenato, con conseguente crisi di panico e morte per incidente domestico dovuto a questa).
Opera unica, inimitabile, con un finale tanto amorale e sconcertante da non poterlo non considerare una tra le pietre fondanti di quello che un certo cinema asiatico oggi rappresenta.
domenica 27 settembre 2009
[clip] The Human Centipede di Tom Six: Miike + Cronenberg + Hideshi Hino?
Giusto il tempo di gioire per Drag Me to Hell e il ritorno di un certo tipo di horror (di serie B ma impeccabile, divertente ma non cialtronesco, semplicissimo ma inaspettato) che arriva questo Tom Six a rovinarci la festa. Da quello che si legge in giro The Human Centipede è una bomba, ma in questi casi il rischio scult è sempre dietro l'angolo. La storia di uno scienziato pazzo che intende realizzare un millepiedi umano, collegando tra loro diversi malcapitati attraverso l'apparato digerente, potrebbe essere degna della tripletta del titolo come di uno sconosciuto cineasta indonesiano/filippino.
Saremo più dalle parti di un Von Trier (uno che più ci prende per il culo più noi siamo felici, vedi la volpe parlante di Antichrist) o della soporifera serietà di Martyrs?
Saremo più dalle parti di un Von Trier (uno che più ci prende per il culo più noi siamo felici, vedi la volpe parlante di Antichrist) o della soporifera serietà di Martyrs?
giovedì 24 settembre 2009
Blu + David Ellis = Capolavoro (e questa volta non esagero)
Che si sappia, io considero Blu e Nicola Verlato il futuro dell'arte "alta" italiana. Due geni, due modi di esprimersi totalmente all'opposto. Se il secondo sta portando a fondo un discorso su di una sorta di nuova arte sacra virata al pop, il bolognese Blu invece preferisce spostare un bel pò più in la i limiti espressivi della street art. Guardatevi il filmato sopra (realizzato in una settimana con l'aiuto di David Ellis) e sentitevi minuscoli. Non dovete avere vergogna, è una reazione naturale.
mercoledì 23 settembre 2009
Botte dal mondo: Marantau di Gareth Evans (Indonesia/2009)
Se il muay thai vi ha già stancato, se gli elefanti di Tony non vi dicono ancora nulla, allora arriva dall'Indonesia un nuovo modo per far del male alla gente: il silat. Tanto per farvi capire di cosa si tratta ecco cosa dice Wiki:
La Pentjak Silat è un' arte marziale usata dal popolo indonesiano durante la tentata conquista da parte degli olandesi.
Sconosciuta agli occidentali fino al 700, la Silat è caratterizzata da colpi devastanti, brutali, che prediligono l'efficacia, alla bellezza di esecuzione della tecnica. Vengono usate sia tecniche di pugno, calcio, gomiti, ginocchia e dita negli occhi, ma quello che caratterizza questo tipo di combattimento è l'uso di tecniche di rottura articolari ad impatto (non per trazione o compressione, statiche, come in altre arti come ju-jitsu o Jūdō). Nel silat si assumono spesso posizioni di guardia apparentemente contorte, difficili da apprendere, ma che una volta diventate abituali permettono l'esecuzione di colpi rapidi e potenti. Tipica è la posizione accovacciata, stabile quando si è a piedi nudi nella foresta umida e scivolosa, a cui spesso viene abbinato l'uso del caratteristico coltello (karambit) usato su linee basse per tagliare i tendini degli arti inferiori, rendendo l'avversario inoffensivo. Diverse tecniche sono state prese in considerazione da molti esperti di sistemi di combattimento moderni e di difesa personale, ed è spesso appreso insieme al kali filippino.
A presto per aggiornamenti sul dvd.
La Pentjak Silat è un' arte marziale usata dal popolo indonesiano durante la tentata conquista da parte degli olandesi.
Sconosciuta agli occidentali fino al 700, la Silat è caratterizzata da colpi devastanti, brutali, che prediligono l'efficacia, alla bellezza di esecuzione della tecnica. Vengono usate sia tecniche di pugno, calcio, gomiti, ginocchia e dita negli occhi, ma quello che caratterizza questo tipo di combattimento è l'uso di tecniche di rottura articolari ad impatto (non per trazione o compressione, statiche, come in altre arti come ju-jitsu o Jūdō). Nel silat si assumono spesso posizioni di guardia apparentemente contorte, difficili da apprendere, ma che una volta diventate abituali permettono l'esecuzione di colpi rapidi e potenti. Tipica è la posizione accovacciata, stabile quando si è a piedi nudi nella foresta umida e scivolosa, a cui spesso viene abbinato l'uso del caratteristico coltello (karambit) usato su linee basse per tagliare i tendini degli arti inferiori, rendendo l'avversario inoffensivo. Diverse tecniche sono state prese in considerazione da molti esperti di sistemi di combattimento moderni e di difesa personale, ed è spesso appreso insieme al kali filippino.
A presto per aggiornamenti sul dvd.
martedì 22 settembre 2009
[capolavori] Cable - The Failed Convict (The End/2009)
Tornano in silenzio e piazzano un’uscita nella miglior cinquina dell’anno. Senza mezze misure, regalandoci una lezione magistrale in southern rock (sotto Rohypnol). Lenti, sofferti, straziati da distorsioni e rallentamenti quasi post core. Assieme a Coalesce, Mastodon e Agoraphobic Nosebleed un’altra testimonianza importante del suono pesante (nell’accezione che lascia il segno) in questo 2009. Meno abrasivi delle altre proposte (a eccezione dei progsters di Atlanta) ma carichi di un’inspirazione fisica e concreta tale da permettergli di pubblicare un lavoro che è la summa della loro poetica. Più equilibrati e maturi delle loro sortite precedenti, in un certo senso piacevoli nel loro crepuscolo umorale. Questa è la colonna sonora di scenari ormai cliché come paludi e la provincia profonda, ancora terribilmente efficaci nonostante la sovraesposizione. Ottimo antidoto alla corrente calata new death che, sebbene ricca di esempi meritevoli, pare essersi incanalata nella corsia dell’implosione. Ritmiche impossibili, suoni gelidi e lavori di chitarra troppo simili al taglio di un bisturi contro maglie dilatate, melodie lontane e il clima torrido del blues. Nonostante il caldo umido che si porta dietro pare comunque una boccata d’aria fresca, un rassicurante passo indietro su scenari più rassicuranti ma mai così attraenti. Come già detto con il capolavoro OX dei Coalesce, un disco che tra 15 non vi vergognerete di avere sulla mensola. Anzi, probabilmente lo ascolterete più di ora, monumento al suono e all’attitudine che fu. Solida e stabile come un blocco di granito, questa è la poesia dei Cable.
Le prospettive funamboliche di Adam Haynes
Ringrazierò sempre il buon Christian per avermi fatto scoprire l'incredibile Adam Haynes. Qui sopra una serie di illustrazioni per Nike.
lunedì 21 settembre 2009
[le bustone] The Seventh Curse di Lam Ngai Kai (1986/HK)
Non tutti i film necessitano di un analisi seria e approfondita. Esistono masterpiece capaci di riportarci a quella dimensione tipicamente infantile legata a doppio filo con le classiche bustone da edicola. Pacchetti multicolor ravvivati da strilli fuori misura, oggetti invitanti e misteriosi. All’interno ci trovavi sempre qualcosa che non ti aspettavi, e anche se ogni ingrediente era completamente slegato dagli altri l’alchimia che si veniva a creare era qualcosa di inimitabile. Questa rubrica è ispirata proprio a quelle bustone, e a tutti quei film dove l’accumulo vale più della coerenza interna. Opere sgangherate, sottovalutate, ma ricche di un fascino che solo l’enumerazione dei singoli ingredienti può spiegare.
- Lam Ngai Kai dietro alla macchina da presa. Se non avete idea di chi si stia parlando pensate a un Ed Wood sotto massicce dosi di Ritalin e con una tecnica cinematografica tale da garantirgli la realizzazione di tutto quello che ha in testa.
- Chow Yun Fat nella parte di un esperto di magia nera amante della pipa.
- Un protagonista che è un ricco e raffinato intellettuale, un ricercatore medico e che non disdegna neppure missioni suicide con le forze speciali della polizia di HK.
- Un numero incredibile di scene totalmente slegate dalla vicenda. Tipo un paio di nudi orrendi e tutta la scena action/poliziesca in apertura (che non dura neppure poco).
- Alien incrociato a un pipistrello.
- Scheletri di cartapesta.
- Un feto volante carnivoro.
- Uno scontro di kung fu tra uno scheletro di cartapesta che si trasforma in un alien/pipistrello e un feto volante carnivoro (giuro!).
- Una pressa in cui sono spiaccicati bambini, con conseguente indugiare della macchina da presa.
- Stigmate esplosive.
- Combattimenti di kung fu su di un Buddha gigante realizzato nella roccia più friabile del mondo.
- Buddha giganti che emettono getti di liquame verde dagli occhi.
- Scippi a tutto il fantasy americano anni ’80.
- Scenette comico/romantiche affiancate a frangenti dove decine di persone muoiono in maniere atroci.
- Uomini ripieni di vermi.
- Il fucile a pompa più potente della storia.
- Lam Ngai Kai dietro alla macchina da presa. Se non avete idea di chi si stia parlando pensate a un Ed Wood sotto massicce dosi di Ritalin e con una tecnica cinematografica tale da garantirgli la realizzazione di tutto quello che ha in testa.
- Chow Yun Fat nella parte di un esperto di magia nera amante della pipa.
- Un protagonista che è un ricco e raffinato intellettuale, un ricercatore medico e che non disdegna neppure missioni suicide con le forze speciali della polizia di HK.
- Un numero incredibile di scene totalmente slegate dalla vicenda. Tipo un paio di nudi orrendi e tutta la scena action/poliziesca in apertura (che non dura neppure poco).
- Alien incrociato a un pipistrello.
- Scheletri di cartapesta.
- Un feto volante carnivoro.
- Uno scontro di kung fu tra uno scheletro di cartapesta che si trasforma in un alien/pipistrello e un feto volante carnivoro (giuro!).
- Una pressa in cui sono spiaccicati bambini, con conseguente indugiare della macchina da presa.
- Stigmate esplosive.
- Combattimenti di kung fu su di un Buddha gigante realizzato nella roccia più friabile del mondo.
- Buddha giganti che emettono getti di liquame verde dagli occhi.
- Scippi a tutto il fantasy americano anni ’80.
- Scenette comico/romantiche affiancate a frangenti dove decine di persone muoiono in maniere atroci.
- Uomini ripieni di vermi.
- Il fucile a pompa più potente della storia.
sabato 19 settembre 2009
Sono tornato!
A pezzi, ma sono tornato. Gli ultimi giorni ero in uno stato talmente catatonico da rivolgermi tranquillamente anche a un mostro sacro come Walter Van Beirendonck (il tizio della foto sopra). Detto questo la soddisfazioni più grosse sono state vedere Berlusconi praticamente ignorato dalla folla (che provi a sdrammatizzare sulla crisi in una fiera del tessile) e i francesi costretti a premiare un'azienda italiana per il migliore tessuto della stagione. Ora datemi un paio di giorni di ripiglio e poi si ricomincia.
sabato 12 settembre 2009
District 9 di Neil Blomkamp (2009): il ritorno dell'eroe
Disctrict 9 ha due grossi punti a suo favore: a) non è un film politico b) non fa ridere. Se osservando il trailer ci si aspettava una sorta di fusione tra il capolavoro (fantascientifico e pornografico) Starship Troopers e Cloverfield, il prodotto finito ci restituisce invece qualcosa di totalmente diverso. Guadagnando ulteriori punti.
Prima di tutto a livello di linguaggio: D9 è la perfetta fusione tra mockumentary e action della nuova generazione. Il giovanissimo Neil Blomkamp (30 anni) riesce a unire con un fil rouge indissolubile il realismo della tv verità e le suggestioni della narrazione videoludica, passando dal collage di interviste/riprese a mano/scritte in sovraimpressione della prima metà alle soggettive ipercinetiche della seconda. Immergendo poi il tutto in un mondo violento, concreto e dannatamente sgradevole. Dove sta allora la differenza con il sommo olandese Paul Verhoeven? Semplice, nell’empatia.
Nessun tipo di distacco, nessuna strizzatina d’occhio, nessuna citazione. D9 è la storia di un uomo piccolo e fastidioso (razzista, capace di fare carriera solo per le parentele, petulante) che si trasforma in un eroe, rivelandoci piano piano la sua profonda umanità e la sua grandezza. A parte il magnifico pretesto iniziale e l’ambientazione inusuale (neppure troppo, se si pensa alla provenienza del regista) a livello di scrittura non abbiamo nulla di nuovo (capirete come si conclude il film già prima che finisca il primo tempo), ma era tempo che nessuno si prendeva la briga di tratteggiare la figura dell’eroe in maniera tanto disperata e melodrammatica. Non pensate al sorriso sornione di Bruce Willis in Armageddon, qui il martirio è reale. Puzza di sangue, piscio e polvere. Non c’è nulla di piacevole in tutto ciò. Prendete l'annicchilente mancanza di retorica di Tropa de Elite (uno dei miei dieci film preferiti di sempre) e immaginatevene le conseguenze diammetricalmente opposte.
Geniale la scelta di dare un nome umano (Christopher) all’alieno protagonista, antitesi della controparte terrestre. Padre affettuoso, valente scienziato, sempre ripreso a figura intera e dotato di movenze più che umane. Anche in questo caso l’empatia è assoluta.
Concludiamo con un comparto tecnico di livello assurdo (le movenze del mecha sono impressionanti per antropoformismo) e colonna sonora da tuffo al cuore (oltre che lezione della vita per chi pensa che le marcette pompose e i riffacci metal siano l’unico modo per gasare lo spettatore). A quando la petizione per dare in mano a questo Neil il live action di We3?
Prima di tutto a livello di linguaggio: D9 è la perfetta fusione tra mockumentary e action della nuova generazione. Il giovanissimo Neil Blomkamp (30 anni) riesce a unire con un fil rouge indissolubile il realismo della tv verità e le suggestioni della narrazione videoludica, passando dal collage di interviste/riprese a mano/scritte in sovraimpressione della prima metà alle soggettive ipercinetiche della seconda. Immergendo poi il tutto in un mondo violento, concreto e dannatamente sgradevole. Dove sta allora la differenza con il sommo olandese Paul Verhoeven? Semplice, nell’empatia.
Nessun tipo di distacco, nessuna strizzatina d’occhio, nessuna citazione. D9 è la storia di un uomo piccolo e fastidioso (razzista, capace di fare carriera solo per le parentele, petulante) che si trasforma in un eroe, rivelandoci piano piano la sua profonda umanità e la sua grandezza. A parte il magnifico pretesto iniziale e l’ambientazione inusuale (neppure troppo, se si pensa alla provenienza del regista) a livello di scrittura non abbiamo nulla di nuovo (capirete come si conclude il film già prima che finisca il primo tempo), ma era tempo che nessuno si prendeva la briga di tratteggiare la figura dell’eroe in maniera tanto disperata e melodrammatica. Non pensate al sorriso sornione di Bruce Willis in Armageddon, qui il martirio è reale. Puzza di sangue, piscio e polvere. Non c’è nulla di piacevole in tutto ciò. Prendete l'annicchilente mancanza di retorica di Tropa de Elite (uno dei miei dieci film preferiti di sempre) e immaginatevene le conseguenze diammetricalmente opposte.
Geniale la scelta di dare un nome umano (Christopher) all’alieno protagonista, antitesi della controparte terrestre. Padre affettuoso, valente scienziato, sempre ripreso a figura intera e dotato di movenze più che umane. Anche in questo caso l’empatia è assoluta.
Concludiamo con un comparto tecnico di livello assurdo (le movenze del mecha sono impressionanti per antropoformismo) e colonna sonora da tuffo al cuore (oltre che lezione della vita per chi pensa che le marcette pompose e i riffacci metal siano l’unico modo per gasare lo spettatore). A quando la petizione per dare in mano a questo Neil il live action di We3?
giovedì 10 settembre 2009
Yan Wei per Levi's China
Piccola pausa dalle fiere per segnalarvi la nuova campagna stampa della Levi's (divisione Cina). Indovinate chi è la protagonista? Esatto, la nostra Yan Wei. Quella pazza di cui siamo stati i primi, a livello mondiale, a pubblicare un volume monografico. Mica male!
Piccolo OT: ho pure viso District 9. Ne parlerò più avanti, voi non azzardatevi a perdervelo.
Piccolo OT: ho pure viso District 9. Ne parlerò più avanti, voi non azzardatevi a perdervelo.
domenica 6 settembre 2009
Pausa!
Puntuali come qualsiasi cosa possa risultare fastidioso anche per questa stagione sono arrivate le fiere. Siccome per le prossime due settimane sarò diviso tra Milano e Parigi dubito avrò molto tempo per scrivere. Ci si sente più avanti (ma non si sa mai).
Vista l'alta densità di poser che mi aspetta per le prossime due settimane (se riesco faccio una foto ai buyer più meritevoli di derisione, tanto per farvi capire i veri problemi del made in Italy) vi lascio con un video dei Black Tusk, che la parola poser non sanno neanche cosa significhi.
Vista l'alta densità di poser che mi aspetta per le prossime due settimane (se riesco faccio una foto ai buyer più meritevoli di derisione, tanto per farvi capire i veri problemi del made in Italy) vi lascio con un video dei Black Tusk, che la parola poser non sanno neanche cosa significhi.
Videocracy di Erik Gandini: peccato che chi vuole sapere sappia già
La cosa più desolante di un prodotto come questo è la sua inutilità sul mercato italiano. Non perché Videocracy sia brutto o fazioso (anzi), ma per via del fatto che tutti quelli che lo andranno a vedere avranno già le idee chiare sul dominio televisivo nel nostro paese. E poi, ammettiamolo, non occorre essere geni per capire come il Presidente abbia passato gli ultimi 3 decenni a manipolare le menti degli italiani (che vogliono essere manipolati). Se il cosa dovrebbe essere di una chiarezza disarmante (a meno che: 1) non abbiate mai preso un aereo se non per chiudervi in qualche villaggio che puzza in modo insostenibile di nonluogo augeniano 2) non avete una connessione Internet 3) non avete mai letto un libro se non quelli compresi nell’esposizione del vostro supermercato) allora concentriamoci sul come.
Il bergamasco di Svezia Erik Gandini riesce a narrare di una realtà terribile alternando immagini di repertorio a grandi intuizioni di regia. Le inquadrature fisse sui protagonisti, con la loro voce fuoricampo a narrarne le storie, un uso intelligente del sonoro e un tono sempre sospeso tra più registri (si sconfina perfino nell’horror, passando per la commedia e il giornalismo più tradizionale) tengono alta l’attenzione. I due punti più alti degli 85 minuti risultano essere l’annichilente candore con cui Lele Mora mostra uno slide show a base di svastiche e croci uncinate dal suo cellulare (scena agghiacciante, intelligentemente mostrata in presa diretta e senza tagli dal regista) e l’amoralità di Corona, non a caso ripreso completamente nudo. Due volti del male assoluto, intramezzati da spot elettorali da subumano e dai sorrisi di un uomo che ha ridotto l’Italia (perché più della metà di noi gli ha lasciato campo libero) a suo bengodi personale.
Il solito documentario comunista su un grande imprenditore? Direi di no. Il fatto che la testimonianza degli orrori venga direttamente dalla bocca di chi li perpetra dovrebbe azzerare ogni forma di faziosità, così come la provenienza dei fondi con cui è stato girato (la Svezia, dove, almeno da questo punto di vista, la coda di paglia non hanno la minima idea di cosa sia). Se all’estero si faranno delle grasse risate vedendo come qualche milione di italiani sia ancora convinto che Silvio stia lavorando in buona fede, a noi non rimane che abbassare il capo e aspettare che il l’attuale classe politica si estingua (non manca molto, anche aspettando cause naturali). Tanto chi dovrebbe veramente vedere questo documentario sarà chiuso in multisala in pieno hinterland, indossando occhialetti per il 3d.
giovedì 3 settembre 2009
Ci sarà anche lui!
Quello basso, non quello vestito da ballerina! E per di più con una storia in Troma-continuity (tanto per fare i nerd a ogni costo).
Sogno di collaborare con Lloyd Kaufman da quando ho 15 anni, ovvero dal giorno in cui le mie dita da adolescente stonato strinsero quella mitica vhs targata Nocturno. Era una confezione doppia, dentro trovavano posto Il Vendicatore Tossico 1 e Tromeo & Juliet. Da quel pomeriggio ne è passato di tempo, ma senza quella scossa non avrei mai scoperto realtà come Bloodbuster e il circuito degli scambi (da dove arriva la mia passione per il cinema del far east). Provate a immaginare cosa significasse per me, nato e cresciuto nella profonda provincia, venire a contatto con un mondo così ENORME. Oltre il mio paesello c'era un oceano di cose da scoprire, tanto vasto che non ho ancora finito di esplorarlo. Sarò melodrammatico, ma pensare a Lloyd che risponde ai miei messaggi dal suo Blackberry mi emoziona non poco. Mi pare che si stia chiudendo un cerchio. Vedremo cosa prospetta il futuro.
Sogno di collaborare con Lloyd Kaufman da quando ho 15 anni, ovvero dal giorno in cui le mie dita da adolescente stonato strinsero quella mitica vhs targata Nocturno. Era una confezione doppia, dentro trovavano posto Il Vendicatore Tossico 1 e Tromeo & Juliet. Da quel pomeriggio ne è passato di tempo, ma senza quella scossa non avrei mai scoperto realtà come Bloodbuster e il circuito degli scambi (da dove arriva la mia passione per il cinema del far east). Provate a immaginare cosa significasse per me, nato e cresciuto nella profonda provincia, venire a contatto con un mondo così ENORME. Oltre il mio paesello c'era un oceano di cose da scoprire, tanto vasto che non ho ancora finito di esplorarlo. Sarò melodrammatico, ma pensare a Lloyd che risponde ai miei messaggi dal suo Blackberry mi emoziona non poco. Mi pare che si stia chiudendo un cerchio. Vedremo cosa prospetta il futuro.
mercoledì 2 settembre 2009
La Marvel avrà anche J.M.Straczynski e Joss Whedon...
...ma per il prossimo numero di The Passenger (fuori a Lucca) hanno scritto per noi:
Roman Polanski, che non vi spiego neanche chi è.
Bruce LaBruce, icona del cinema queer per eccellenza. Ha diretto questo.
Pang Ho Cheung, in due parole: il futuro del cinema di Hong Kong. 36 anni, già un paio di capolavori nel carniere. Fatevi un favore e ruperatevi Exodus.
Alle matite una schiera di fichissimi artisti indipendenti, oltre a contributi di maestri riconosciuti (tipo Edoardo Risso, vedi sopra).
E, vi assicuro, non è tutto. Seguite il tutto sul blog della Passenger Press (già che ci siete scaricatevi pure il P.A.L.E., adoratelo e ordinatelo).
Roman Polanski, che non vi spiego neanche chi è.
Bruce LaBruce, icona del cinema queer per eccellenza. Ha diretto questo.
Pang Ho Cheung, in due parole: il futuro del cinema di Hong Kong. 36 anni, già un paio di capolavori nel carniere. Fatevi un favore e ruperatevi Exodus.
Alle matite una schiera di fichissimi artisti indipendenti, oltre a contributi di maestri riconosciuti (tipo Edoardo Risso, vedi sopra).
E, vi assicuro, non è tutto. Seguite il tutto sul blog della Passenger Press (già che ci siete scaricatevi pure il P.A.L.E., adoratelo e ordinatelo).
martedì 1 settembre 2009
E' uscito il nuovo Cable e nessuno mi dice nulla!
Provvedo nei prossimi giorni, intanto beccateveli qui. Sludge rock come lo sanno fare in pochi.
Adbuster 85: Thought Control in Economics
Fuori il numero 85 del magazine indipendente Adbuster, simbolo del culture jamming. A differenza dei numeri precedenti questo si presenta come più compatto e coeso, andando a comporre un bel trattato sulle differenza tra l'economia neoclassica e quella sostenibile. Un'uscita che si presenta ricca fin dalla stupenda copertina di Ian Spriggs, passando per tutta una serie di trattati (ma anche toccanti esperienze di vita reale) offerti da economisti new school. A conti fatti il volumetto rappresenta una sorta di activist toolkit per cominciare a capire come dovrebbe girare il mondo. Completa il tutto la solita serie di contributi artistici e una bella galleria di campagne stampa sabotate.
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