martedì 30 giugno 2009

Robot che pompano adrenalina: Exploit Yourself di Carl Erik Rinsch





Perchè riesce a pompare più adrealina Carl Erik Rinsch in 50 secondi che MgG e Michael Bay con i loro kolossal da 200 milioni di dollari?

lunedì 29 giugno 2009

Da Demolition Man alla videoarte: Civilization di Marco Brambilla

Tutti conoscono Marco Brambilla per il film Demolition Man, con Sylvester Stallone e Wesley Snipes. Non tutti invece sanno che il Nostro è anche un quotato videoartista, con all'attivo collaborazioni con giganti del calibro di Matthew Barney (marito di Bjork, artista pluripremiato e multimilionario, ex modello, ex campione di football, grande consumatore di death metal). In qualunque caso, che vi interessi Sylvester o Matthew Barney, qui trovate il suo fantastico Civilization. Ultimo parto dell'ex pubblicitario meneghino.

Tra kawaii culture, James Dean e il fottuto inferno: 10 motivi per farsi un giro a Venezia





1. Il padiglione italiano: senza ombra di dubbio tra i picchi di questa 53ma Biennale. Dedicato a Marinetti e ospitato presso la locazione Tese delle Vergini (Arsenale), stordisce per il livello medio delle proposte. C’è la fotografia metafisica di Matteo Basilè, le colossali ceramiche di Bertozzi&Casoni, gli uomini di legno scolpiti da Aron Demetz, la natura strabordante di Giacomo Costa, la nuova arte sacra di Nicola Verlato (un genio, vedi immagine sopra),… Ci sarebbe anche il nuovo pezzo di Cattelan, ma lui preferisce esporre nel padiglione nordico.



2. Mapping the Studio: se volete recuperare in un solo giorno quanto di meglio prodotto negli ultimi 10 anni di arte moderna, visitate questa mostra. Takashi Murakami, Jeff Koons, Jake e Dinos Chapman, Richard Prince, Maurizio Cattelan, Michael Borremans, Bruce Nauman, tutti sotto lo stesso tetto (due tetti, a dire il vero: Palazzo Grassi e Punta della Dogana). Quando vi ricapita? Manca solo lo squalo di Hirst e il sangue congelato di Quinn!



3. JPop: tra le sei opere di Takashi Murakami (tra cui 727-272 e My Lonesome Cowboy) presso Mapping the Studio e il padiglione dei Giardini dedicato e allestito dalla gotica Miwa Yanagi (ormai esplosa a livello planetario) gli amanti dell’arte giapponese più pop non possono che essere soddisfatti.



4. Tadao Ando: l’opera di restauro della Punta della Dogana a opera dell’architetto giapponese è un capolavoro. Come coniugare ultramoderno e architettura del ‘600 da maestri.



5. Il fantagiardino in putrefazione di Nathalie Djurberg: non sono mai stato un grande fan della stop motion in plastilina proposta dalla svedese, ma questa volta il suo allestimento presso i Giardini ha fatto centro. Un giardino allucinogeno, fatto di fiori enormi e coloratissimi, che rivela un lato malato e decadente.



6. Partecipazione del pubblico: uno dei trend più evidenti pare il coinvolgimento dei visitatori all’interno dell’opera. Tra esperienze virali (sommergibili che spuntano nel Canal Grande), distribuzione di cartoline da spedire a più persone possibili, piante che necessitano dello sforzo fisico dello spettatore per essere innaffiate e rimanere in vita, opere da fotografare e diffondere tramite questo mezzo, installazioni da personalizzare come meglio si crede (con tanto di istruzioni sul significato di ogni singolo componente del pezzo) pare che il pubblico sia ormai parte integrante dell’atto artistico.



7. Fucking Hell (dei Chapman Bros.): la migliore rappresentazione dell’Inferno di sempre. Vedere la gente che prima si avvicina a questo diorama con il sorriso sulle labbra e poi se ne allontana in silenzio e con un vago senso di nausea non ha prezzo. Mica male per dei soldatini!



8. Richard Prince: c’è chi dice che sia uno dei più grandi artisti viventi. Concordo.



9. Dancing Nazis di Piotr Uklanski: un enorme dancefloor luminoso in pieno stile anni ’80. Musica dance a palla. Una parete coperta da ritratti di soldati nazi. Tutto all’interno di un palazzo del ‘600. Non ci ho capito molto, ma rimane un’esperienza da provare.



10. La morte di un collezionista: se tutto questo vi puzza di snob e vacuo allora il padiglione nordico rappresenta la vostra rivincita. Presentato come un’enorme e fichissima villa in vendita, piena di mobili stupendi e di opere altrettanto valide (tra cui il nuovo Cattelan), prevede una sorpresina finale. Una volta usciti sul retro infatti troverete la piscina e, dentro la vasca, il cadavere galleggiante del precedente proprietario. Ben gli sta, al bastardo elitario!

venerdì 26 giugno 2009

Pausa!





In occasione della Biennale e della mostra Mapping the Studio per i prossimi giorni sarò a Venezia. Vi lascio con la bella notizia che i Suffocation hanno rilasciato il loro nuovo lavoro totalmente in streaming. Passano gli anni e i nostri rimangono i re incontrastati dell'aggressione sonora, anche se pure questa volta hanno toppato l'artwork. Ma cosa pretendete da dei testimonial di History Channel?

giovedì 25 giugno 2009

Grazie Troma: Combat Shock in dvd!





Devo già molto a Lloyd Kaufman (fondatore della Troma), cosucce come aver scoperto James Gunn o aver pubblicato in dvd I guerrieri dell'anno 2072 (unico postapocalittico a opera di Lucio Fulci). In qualunque caso ora devo aggiungere questo alla lista. Una sorta di Apocalisse Domani (di Antonio Margheriti) senza nessuna traccia di umorismo, un Taxi Driver incattivito dalla mancanza di luce ventennale. Un film imperdibile per chiunque ami le derive più grim & gritty del noir metropolitano.

Quando l'orrore viene da Singapore: Blood Ties di Chai Yee-Wei (2009)





La solita storia orientale di fantasmi rancorosi, ma con qualche novità. Prima di tutto la provenienza, a dimostrazione di come Singapore sia sempre più lanciata nel futuro (a ogni livello, dalla moda allo sviluppo sostenibile), poi per il bel pastone di generi che ci troviamo davanti. Vendette, poliziotti corrotti, sparatorie, spiriti maledetti e tanto altro ancora. Non vedevo un guazzabuglio simile dai tempi del mitico The Imp (HK/1980) o, ancora meglio, da quelli di Vendetta (HK/1992). Il 10 settembre nei cinema.

martedì 23 giugno 2009

[oldies but goldies] Sword of the Beast di Hideo Gosha (Jap/1965)

Parlare della società, magari sfruttando qualche metafora suggestiva, è sempre un’operazione molto rischiosa. Basta un passo in più per scadere nel didascalico (o nella generalizzazione), mentre in senso opposto si rischia di finire nell’astruso o inintelleggibile. Un bel problema, soprattutto quando si va a riflettere su di un universo complesso come quello giapponese, famoso per la spersonalizzazione dell’individuo a favore della struttura (conta di più l’appartenenza a una determinata rete sociale rispetto alla propria famiglia). E non sono luoghi comuni.



Sapendo che quello che ci si appresta a vedere è un chambara del 1965 risulta facilissimo immaginarsi nette divisioni tra samurai, ronin e briganti. Questo perché non si prende in considerazione la presenza di un fuoriclasse come Hideo Gosha dietro la macchina da presa. Al di là di un incredibile perizia registica (soprattutto nell’uso della profondità di campo, si prenda come esempio la rissa con il getto d’acqua direzionato verso lo spettatore e gli sbuffi di vapore) colpisce come al centro di quest’opera ci sia soprattutto l’individuo. Sia che si tratti di un soldato
o di cane sciolto, il personaggio cambierà caratterizzazione almeno due o tre volte nell’arco degli 85 minuti di film. Non esiste schema precostituito su cui costruire l’agente, ma una serie di mutamenti che ci appariranno più che mai umani. Una stessa persona può avere atteggiamenti positivi e negativi nella stessa giornata, seguire pedissequamente le regole l’attimo prima per poi fregarsene alla grande pochi minuti dopo. E’ la fragilità dell’essere umano, motore primo di tutto quello che percepiamo come realtà.



Alla stessa maniera i personaggi di Gosha sbagliano, si pentono, ritornano sui loro passi e cambiano spesso idea. Una bella mazzata rispetto alla rigida ubbidienza del samurai, spesso glorificato per la sua dedizione totale al padrone e alla via. Siamo dalle parti di un Kill! di Kihachi Okamoto, ma senza l’umorismo e l’atmosfera picaresca (piccolo consiglio, li trovate entrambi nell’incredibile cofanetto Rebel Samurai a cura della Criterion). Un film di spade sottilmente esistenzialista, dove non si perde l’occasione per deridere gli stessi comportamenti che in altri titolo assumono valore quasi di definizione per il gender (quella che negli anni sarebbe diventata l’ipervirilità, crepuscolare o meno, da eroe) o per bacchettare gli aspetti meno nobili della nostra razza.



Parlando di vittime, carnefici, branchi e lupi solitari, gli aggettivi più utilizzati nei dialoghi sono, guarda caso, proprio legati al mondo animale (fin dal titolo). Tutto a dimostrare come la vitalità (bestialità) di un uomo non possa essere contenuta in un rigido reticolato di regole e convenzioni e, per forza di cose, tenderà sempre a emergere. In che modo è tutto da vedere.



lunedì 22 giugno 2009

The Sniper di Dante Lam (HK/2009)

Se fossi il produttore di The Sniper bacerei in fronte Dante Lam. Mentre da una parte del mondo ci si perde in un gigantismo spastico e infantile, un buon professionista come Dante riesce a consegnarci un prodotto impeccabile spendendo meno di 4 milioni di dollari. Non è certo un film per cui gridare al miracolo, ma in 90 minuti (90, non 150 o 180) troviamo concentrati tutti gli ingredienti che servono per rendere godibile un action thriller dal taglio adulto.



C’è alla base un’idea originale (una faida interna tra i cecchini della polizia di HK), il percorso di maturazione della giovane recluta talentuosa (ruolo interpretato dal sex symbol nascente), la caduta nell’abisso della follia da parte dell’antagonista (naturalmente ex cecchino radiato), due storie che si intrecciano fatalmente, un pizzico di melodramma e l’inevitabile sparatoria finale. Se non si considera qualche caduta nel machismo al momento dell’addestramento (anche se pare una costante inevitabile, a qualsiasi latitudine) il film è virtualmente inattaccabile. Sceneggiatura semplice e compatta come un blocco di marmo, buoni interpreti e regia calibrata sulla storia che deve raccontare. E questo è molto meno scontato di quello che sembra.




Qui si parla di tiratori scelti, non di Chow Yun Fat con doppia Beretta. Dante Lam questo lo sa e, una volta inserite a forza (per far contenti i produttori) le solite due carrellate accelerate in post produzione, costruisce tutta la narrazione su di un' atmosfera rarefatta e dilatata. Il sonoro viene incontro alle esigenze del regista, mettendo spesso in primo piano i suoni convenzionalmente collegati ai momenti di massima concentrazione (il respiro del protagonista, il vento,..). Non esplode nulla (quasi), nessuno uccide 3000 persone nell’arco di pochi minuti, succede solo una cosa per volta e tutti sembrano essere in attesa di qualcosa. Esattamente il tipo di regia che ci si aspetterebbe per un film che parla di cecchini. Si sarebbe potuto lavorare di più sul parallelismo tra la poetica del caricatore infinito tanto cara ai registi di HK e l’inedito one shot, one kill di questo The Sniper, fatto sta che a mantenere alta l’attenzione dello spettatore più smaliziato ci pensano i minuscoli colpi di genio disseminati da Dante per tutta la durata del lungometraggio, sia a livello di linguaggio che di sceneggiatura. Una sparatoria al chiuso tra militari attrezzati con armi a lunga gittata non è cosa da tutti i giorni, mentre una serie di enigmi trovano tutte le soluzioni prima dei titoli di coda (chi è l’uomo elegante che segue il militare radiato? Perché tutta questa attenzione nei confronti di un acquario?).



Non il film che vi porterete nella tomba, neppure un titolo da tenere in testa per le classifiche di fine anno. Eppure i 90 minuti passeranno in soffio, il cervello rimarrà acceso e alla fine non avrete da mugugnare nulla sul regista incapace. C’è chi lo chiama mestiere, chi invece artigianato.




sabato 20 giugno 2009

Passenger Press e L'Uomo Vogue

Su L'Uomo Vogue di questo mese (art issue in occasione della Biennale di Venezia) trovate una micro intervista a Nicola Verlato, uno degli artisti coinvolti nel prossimo The Passenger Album. Mica male!

venerdì 19 giugno 2009

Dal pixel al livido: 10 anni di linguaggio action

Sembrerà strano, ma tutto parte dalla Francia. Anno di grazia 2001, due giovani registi (Ariel Zeitoun e Julien Seri, spinti dal produttore Luc Besson) danno alle stampe Yamakasi. Il film ha il merito di far conoscere al pubblico l’arte del parkour, la corsa urbana come atto estetico, ma è comunque poca cosa. In ogni caso i semi di un ritorno al corpo sono gettati, pronti a germogliare due anni dopo con il terremoto Ong Bak (regia di Prachya Pinkaew). Produzione thailandese, più simile a un demo per il disumano atleta Tony Jaa che a un vero film, viene scoperto dal solito Besson che pensa bene di rimontarlo, rimusicarlo e distribuirlo in occidente. Il film diventa un must dell’home video, restituendoci un’epoca di eroi fatti di carne e non pixel. Stunt letali, nessuna manipolazione in CGI, zero pugnette filosofiche ad annacquare un mare di mazzate. Il successo è tale da spingere la EuropaCorp a produrre un nuovo film nel ritrovato filone fisico: è il 2004 e Pierre Morrel dirige Banlieue 13. L’occidente ha la sua nuova arte marziale (il parkour) e i suoi Bruce Lee: David Belle e tutta la cricca di runner francesi. La celebrazione planetaria di questi atleti si avrà nel 2006, quando Martin Campbell costruirà sul parkour tutta la prima sequenza del blockbuster 007 – Casinò Royale.


Tra il 2004 e il 2005 escono, sempre in Thailandia, due pellicole fondamentali: Tom Yum Goong e Born to Fight, entrambi dalla squadra dietro a Ong Bak. Il primo nasce come strumento promozionale per l’ormai star internazionale Tony Jaa ma finisce per generare un cortocircuito di significati impossibile da ignorare. Scritto come se si trattasse di un videogioco, riporta alla ribalta il piano sequenza (strumento di realismo per eccellenza nel linguaggio cinema, vedi il filmato sopra). Il massimo della finzione ci viene restituito sfruttando il linguaggio della realtà, e tanto basta per annullare anni di sospensioni a mezz’aria e salti esagerati. Born to Fight si apre con una citazione (Police Story) tutt’altro che casuale, sintomatica anzi di tutto il movimento: elevando al quadrato una scena già nota ai più per la sua scelleratezza (dopotutto il materiale originale, un inseguimento attraverso un centro abitato, è farina del sacco di Jackie Chan) si ottiene una sorta di certificazione di quello che verrà, oltre che un perfetto manifesto del nuovo cinema del corpo. Il film di Panna Ritthikrai si esaurisce infatti in un’incredibile sequenza di stunt al limite dell’umano, definendo un nuovo standard di quanto ci si possa spingere in là nella rappresentazione del pericolo.


La platea mondiale esulta rendendo i due film cult immancabili, facendogli guadagnare presenze a ogni festival specializzato e la possibilità di essere visti anche dai profani del cinema asiatico (Tom Yum Goong verrà rimontato, musicato da RZA e intitolato The Protector). Le reazioni sono molteplici ma è soprattutto quella dell’industria di Hong Kong a interessare. La patria del cinema di arti marziali reagisce malissimo, stretta tra le ore dei cinedrammoni cinesi a base di stilizzazioni da quattro soldi e le ginocchiate thai, e decide di dare una svolta al linguaggio autoctono. Nel 2005 arriveranno nelle sale il wuxia Seven Swords e il noir Sha Po Lang, diretti rispettivamente dal Maestro Tsui Hark e dall’eterno emergente Wilson Yip. Il primo è il profeta del wirework, l’uomo che assieme ai due geni Woo-ping Yuen e Siu-Tung Ching ha inventato il linguaggio marziale moderno e per poi ucciderlo con l’avanguardia di The Blade. Seven Swords appare come il contrario dei Hero: furioso, violento, con le cessioni a cavi e CGI ridotte al minimo (ma siamo pur sempre nei territori del fantasy alla cantonese). Il film non è un capolavoro (soprattutto per via dell’ora e mezza tagliata dai distributori) ma è una lezione di stile come non se ne vedeva da tempo, ben lontana dal back to basics thai. Stesso discorso per SPL: nero come la pece, con un Donnie Yen (coreografo e protagonista) in stato di grazia. La manciata di secondi del suo duello con Jing Wu sono indimenticabili: la velocità pare raddoppiata in camera di montaggio, ma i trucchi sono banditi e la realtà ci travolge nuovamente. La stessa coppia Yip/Yen tornerà alle stesse tematiche in Flashpoint, del 2007. Anche se il film non raggiunge qualitativamente (soprattutto a livello di sceneggiatura) il suo gemello SPL i venti minuti finali sono da Oscar della brutalità, roba che non si vedeva da Fist of Legend (del 1994, da recuperare tassativamente per l’infinita scena finale) . Tanto basta per far guadagnare al lungometraggio una visione obbligatoria. Il resto dell’ex colonia inglese pare soffocare tra derive alla Michael Bay, cineserie varie e il filone infinito del poliziotto sotto copertura.


Al mucchio selvaggio si unisce anche la Corea del Sud, ormai industria solidissima e ben definita (chi non conosce i proverbiali drammoni coreani da 4 ore?) ma ancora priva di un proprio linguaggio marziale. Escludendo la variante school rumble, i vari esempi di wuxia patinati (guardatevi Duelist di Myung-se Lee per capire a che punto si possa arrivare nel concepire un film bello solo a vedersi) e i nuovi fantasy urbani (Arahan) non rimane che City of Violence di Seung Wan Ryoo, protetto di Park Chan Wook. Il film è una sciocchezzuola girata in un digitale folgorante, fatta di colori ipersaturi, ammiccamenti cinefili (per gli estimatori di Walter Hill compaiono pure i Baseball Furies) e umorismo brillante. Piacevolissima a vedersi, ma priva di peso specifico. Dall’altra parte del mondo invece il corpo non può essere ricettacolo di una filosofia del combattimento (ne mancano le radici storiche) e si fa semplicemente plastilina su cui modellare evoluzioni sempre meno digitali. Il nuovo Die Hard (serie simbolo dell’action fisico statunitense, con il protagonista sempre più ridotto a poltiglia) è un tonfo, mentre un film minuscolo come Crank diviene il nuovo standard. Nessun tipo di esplosione gargantuesca alla Michael Bay, regia pornografica (qui in versione MTVclip rispetto agli eccessi thai) e un protagonista più stuntman che attore. Nel 2008 il Dark Knight di Nolan arriva a incassare quasi un miliardo di dollari proponendo scelte di regia del tutto avulse dal resto dei comic movie: la rapina iniziale puzza di anni ’70 lontano un chilometro (per rigore e fisicità) mentre in tutto il film gli eccessi da effetto speciale sono ridotti al minimo consentito (a un film studiato per i multisala). Stesso discorso per il John Rambo di Stallone. Anche se il sangue è digitale sono proiettili piuttosto realistici a falciare soldati cambogiani. Il fumoso effetto speciale, le scene di massa e il gigantismo produttivo pagano sempre meno, mentre la concretezza è sempre più gradita. Sembra accorgersene anche Lexi Alexander, che irrobustisce il suo Punisher con una dose esorbitante di ultraviolenza. Purtroppo il film viene trascurato dalla casa di produzione, finendo ben presto nel cassonetto dei flop. Fatto sta che l’unica scena contestata apertamente e all’unanimità dai fan è proprio l’unica che sa di digitale posticcio (quando Frank si appende a testa in giù dal lampadario). Neil Marshall dimostra di aver capito tutto e salva un film derivativo come Doomsday puntando proprio sulla messa in scena old school (ma non vintage). Il film si stacca nettamente dai vari Resident Evil e si guadagna il plauso della fetta di pubblico a cui doveva piacere, facendoci pure scendere una lacrimuccia all’idea che il tanto agognato progetto del rifacimento di Dove Osano le Aquile in chiave Die Hard sia morto del tutto.

Arriviamo al 2009. Esce nelle sale Ong Bak 2 e sfonda i botteghini autoctoni, dimostrando però di non essere altro che la versione 2.0 (e traslata temporalmente) del primo capitolo. Ci sono un sacco di arti marziali, sangue a fiumi e… nient’altro (lasciamo il discorso di immaginario fantasy thai per un'altra volta). In occidente arriva Crank 2, che riconferma la paura provata con Ong Bak 2. Il film è tiratissimo, gasante e… già visto. Anche in questo caso l’irruenza del primo capitolo non è rinnovata, ma solo iper vitaminizzata. I francesi ci riprovano con Banlieue 13: Ultimatum e il maestro Tsui pare fare di tutto per ritardare le riprese di Seven Swords 2. L’attesissimo live action di Blood: the last vampire ha già annoiato al secondo trailer e il sinteticissimo Stephen Sommers è stato licenziato dal suo ultimo film. Vedremo cosa saprà fare Stallone con il machismo crepuscolare di The Expendables mentre, a malincuore, constatiamo che l’ultimo vero segnale di vita di questo trend rimane il thailandese Chocolate (2008). Dove alle mazzate si unisce anche una storia (!) fuori contesto, una protagonista autistica e nuove sperimentazioni linguistiche. Regia di Prachya Pinkaew, quello di Ong Bak.

giovedì 18 giugno 2009

Caro Gesù, fai che Yuen Woo Ping non si sia rincoglionito del tutto


I meno attenti lo ricorderanno per le coreografie di Matrix, Kill Bill, La Tigre e il Dragone e Fearless. Chi lo conosce bene lo farà sopratutto per Iron Monkey e Drunken Master, due capolavori indiscutibili del cinema d'arti marziali. Ma quei tempi sono ormai lontani, tra mestiere che diventa nuovo standard e fiumi di soldi cinesi. L'ultima speranza è che questo nuovo True Legend sia poco mandarino e tanto cantonese. E che Gesù mi ascolti.

[trailer] Thirst di Park Chan Wook (Kor/2009)





Trailer Us per il prossimo capolavoro di Park Chan Wook. Dopo il thriller politico, il vengeance movie e la commedia surreale (guai a chi snobba I'm a cyborg but that's ok solo per la sua natura zuccherina!) ecco il sud coreano alle prese con i vampiri. Comunque vada la scena delle scarpe è già mitologia.

mercoledì 17 giugno 2009

[trailer] Banksy@The Bristol Museum





Dopo la mostra a New York, Banksy torna a casa. Il celebratissimo writer presenta infatti al Bristol Museum qualcosa come 70 nuovi pezzi, oltre a quanto già visto nella Grande Mela. Le nuove genialate del caustico artista prenderanno posto tra le opere della collezione permanente (di tutt'altro genere!) del museo, in modo da causare un cortocircuito di significati non indifferente. Curiosa anche la campagna di promozione: tra poster virali, finti scandali e trailer cinematografici.

lunedì 15 giugno 2009

Sarò paranoico ma...





Un centinaio di morti su oltre 100.000.000 di abitanti. Una bella campagna del terrore. Una crisi globale. Cosa ci puoi ricavare?



Se non vedete il filmato, qui il link diretto.

Inferno's Pompa Magna: furia electrogrindpop


Adoro i romani Inferno, da sempre. Tutti gli altri gruppi grind spingono per costruirsi un immaginario/suono sempre più estremo. Loro no. Si spacciano per rock, ma finiscono per somministrarci una letale commistione di grindcore, HC e math, tutto amalgamato da un uso sapiente e mai scontato dell’elettronica. Così ci si ritrova con una produzione chirurgica (ma non iperprocessata), gelida e tagliente come una lama di rasoio, che se ne va a braccetto con suggestioni electropop. Un delirio, come confermano titoli e testi della canzoni. Senza esagerazioni, spesso pare di trovarsi più dalle parti di un Ire Works stonato che tra le tracce di Human 2.0. Considerate che le band umane sono riuscite ad assimilare Calculating Infinity più o meno con l’uscita di Miss Machine (ovvero 5 anni dopo, nel 2004), poi pensate che gli Inferno hanno debuttato nel 2004 con questo suono già ben codificato e inconfondibile. Tanto per farvi capire quanto questi ragazzi prendano poco in considerazione l’ipotesi di essere derivativi od opportunisti. La loro è l’ennesima dimostrazione che pesantezza e intelligenza possono andare a braccetto con il concetto di piacevolezza, basta esserne capaci. Si veda l’impennata qualitativa che hanno avuto i Cephalic Carnage una volta deciso di limare e limitare derive free jazz o proto sludge, o il rock apparentemente inoffensivo di quei paraculi degli Every Time I Die (i Guns N’Roses post Dillinger Espape Plan?). Nel loro piccolo anche quei fenomeni dei Dr. Doom, pazzi olandesi dediti a una sorta di grind melodico senza metri di paragone. Un disco che farà la felicità di chi non sa cosa farsene del blast beat perenne ma che si annoia pure con le scalette svedesi e certi eccessi da schizzati a tutti i costi (Psyopus?). E poi il packaging è stupendo: artwork naif alla Blood Brothers con finestrella su cd annessa. A quando il contratto con la Black Market Activities (almeno)?

martedì 9 giugno 2009

[kick-ass movie] Mercenaries from Hong Kong di Jing Wong (HK/1981)

Uno dei capisaldi indiscutibili del kick-ass movie è il cliché della squadra. Introdotto da Akira Kurosawa, primo cineasta a scomporre gli aspetti costitutivi dell’eroe in maniera corale, questo espediente narrativo ha alimentato a lungo certo cinema action, allontanandosi sempre più dalle intenzioni intimiste del suo esordio e finendo per costituire un immaginario agli antipodi dei presupposti iniziali (si passa dalla soppressione delle debolezze individuali all’aumento della potenza collettiva). Tra i principali sostenitori di questa seconda corrente è impossibile non citare un personaggio come Jing Wong.



IMDB segnala qualcosa come 138 film sceneggiati, 128 prodotti, 71 interpretati e 93 diretti in 28 anni di carriera (ancora in pieno corso). Un fiuto incredibile per ciò che il pubblico chiede, nessun pudore nello scadere nel becero populismo e nella exploitation più volgare. Ricchissimo grazie alla sua capacità di inventare nuovi filoni (il genere bari e gioco d’azzardo è farina del suo sacco, ma riesce a fare suo anche il ramo delle risse scolastiche) e al vizio di sfruttare franchising in maniera più o meno legale (City Hunter, il videogame Street Fighter, Super Mario, A Better Tomorrow tra i moltissimi esempi. Si vedano pure le incredibili speculazioni sulle sue stesse idee!), il Nostro riesce a imporsi anche come autore grazie alla sua regia sempre viva e piena di guizzi. Tutto senza dimenticare che anche il mitico Clarence Fok è una sua scoperta. Per chi fosse totalmente a digiuno di cinema made in HK sappiate che Clarence è un mostro di tecnica registica, un montatore come se ne vedono pochi (proverbiali le sue scene action supersoniche), un grande direttore della fotografia oltre che un coreografo capace di dire la sua senza problemi. Come investire tutto questo talento? Dirigendo, sotto l’egidia del nostro reuccio del bmovie, capolavori di cattivo gusto come Naked Killer. Tassativamente uno dei film da vedere nella vita. Lesbiche killer, mazzate in gran quantità e membri mozzati fatti mangiare a poliziotti idioti. Inevitabile il successo al botteghino e la speculazione conseguente. Indovinate da parte di chi?



Una volta definito l’uomo passiamo al film. Diciamo subito che Mercenaries from Hong Kong non ha molto a che spartire con I Sette Samurai. Incredibile, vero? Protagonista assoluto della vicenda è Ti Lung, l’attore con la media di morti per pellicola più alta nella storia del cinema (che vi aspettate da uno che ha lavorato con Chang Cheh e John Woo?). Ex militare ora mercenario, finisce nei guai per via di una missione punitiva nei confronti di un membro della malavita Hong Konghese. Fortunatamente il nostro riceve un offerta che non potrà rifiutare: la possibilità di crearsi una nuova vita (fuggendo dai problemi con le triadi) e una pensione dorata. Ti Lung decide allora di chiamare a rapporto tutta le vecchia squadra per un’ultima, sanguinosa missione. C’è il cecchino con la storia triste (citazione da Castellari e il suo Grande Racket?), il playboy esperto di esplosivi, il violento, … tutti i luoghi comuni che alla fine si cercano in un film del genere. Unica vera novità è che tutti nella squadra si vestono uguali, sia in missione che nella vita quotidiana, creando non poca ilarità da parte dello spettatore. Una volta definitive queste prerogative il film è uno spasso: tonnellate di piombo, ultraviolenza, torture, bambini nel posto sbagliato al momento sbagliato (la firma di Wong Jing), onore tradito, riscatto, vendetta e dardi sparati da oggetti imbarazzanti. The End. 90 minuti precisi, la lunghezza perfetta dell’intrattenimento.



Come la tradizione dei film spaccaculi insegna non c’è traccia di umorismo esplicito, se non da parte della solita spalla idiota. Nonostante questo la rozzaggine e la totale assenza di rispetto per la vita umana da parte dei protagonisti garantisce perle di autentico piacere. Come in The Last Blood o in My Schoolmate the Barbarian (l’unico film di arti marziali con i punti guadagnati dai combattenti segnalati in sovraimpressione) tutto procede per eccesso e accumulo, seguendo il modello degli shonen manga o dei videogame (grande passione di Wong) più old school. Il pubblico ha quello che vuole (quando le disgrazie degli altri tiravano più dei buoni sentimenti), il buongusto rimane uno sconosciuto e qualcuno è un pochino più ricco di prima. Pura exploitation, materia prima di ogni kick ass movie che si rispetti.




Mercenaries From Hong Kong - Shaw Brothers Films - Click here for this week’s top video clips

lunedì 8 giugno 2009

[trailer] Written by di Wai Ka-fai (HK/2009)





La figlia di un avvocato perde il suo amato padre in un incidente d'auto. Per esorcizzare la disgrazia decide di scrivere un romanzo dove lei muore e l'uomo sopravvive. All'interno del libro il protagonista decide a sua volta di esorcizzare la disgrazia scrivendo un libro dove lui muore e la figlia sopravvive. Naturalmente questa decide di scriverci un libro dove le situazioni si invertono...



Wai Ka fai è tante cose... uno dei migliori sceneggiatori al mondo, spalla di Johnnie To, regista tecnicamente mostruoso, macchina da cinema capace di affastellare capolavori, schifezze inaccettabili, suicidi commerciali e cinepattoni alla cantonese come se nulla fosse. La quintessenza del cinema di HK verrebbe da dire, con i suoi bassi umori e gli inarrivabili picchi di poesia. Uno capace di passare dal western metafisico (Peace Hotel) al noir nichilista (Too many ways to be no 1), senza tralasciare la commedia più leggera (Shopaholics). Servono altri motivi per aspettare questo film?

venerdì 5 giugno 2009

Passenger Press al MiAmi 2009


Questa sera, domani e domenica la Passenger Press sarà presente al MiAmi, festival della musica indipendente. Ci siamo noi (assieme a tanti altri editori indipendenti), 54 band e i ragazzi del Circolo Magnolia. Se passate da quelle parti fatevi sentire!



P.S.: quello qui sopra è il mio contributo per il prossimo volume (dedicato al cinema). Un omaggio al classicone del kung fu Five Deadly Venom.

Fucking Hell in Venice



Puntuale come sempre ecco che Venezia si appresta ad aprire le porte alla Biennale d’Arte (dal 7 giugno al 22 novembre). Questa volta l’attesa da parte del sottoscritto è alle stelle: in laguna saranno infatti presenti i terribili fratelli Chapman, per di più con il remake del loro capolavoro perduto Hell. Se non avete idea di cosa sto parlando sappiate che l’originale è andato distrutto nell’incendio del Momart nel 2004.
Fucking Hell (così si chiama questo rifacimento) è un enorme diorama a forma di svastica dove 30.000 soldatini modificati a mano mettono in scena una battaglia di epiche proporzioni. Mutanti contro nazi contro zombie. In mezzo ci trovi Mc Donald trasformati in forni crematori, campi di concentramento, fosse comuni e ogni genere di orrore. Tra cui Hitler impegnato a dipingere un quadro ad acquerello (una delle tele della serie If Hitler Had Been a Hippy How Happy Would We Be, sempre a opera dei fratellini Dinos e Jake). In altre parole, un fottuto inferno.
Come al solito ci si muove sul limite della provocazione gratuita (anche se il picco in questo senso i due esponenti del movimento Young British Artists l’hanno raggiunto con i bambini/bambole gonfiabili/vibratori a grandezza naturale, opera intitolata Fuck Faces tanto per stare sul leggero) ma la curiosità di vedere un'opera di tali proporzioni rimane comunque immensa.

giovedì 4 giugno 2009

L'arte noir di Jeremy Geddes





Qui il suo blog, qui il link alla prossima pubblicazione curata da Ashley Wood (prima c'erano Sparrow e Swallow, entrambi più che consigliati) in cui compariranno le opere del nostro australiano.

Jeonju Digital Project DVD Box disponibile dal 15 giugno

Ogni anno la giuria del Jeonju International Film Festival seleziona tre registi per cui mettere a disposizione un budget di 50.000.000 KRW. I cineasti selezionati si devono così presentare al festival con un medio di 3o minuti girato in digitale. Nessuna restrizione o tema da seguire, solo la volontà di sperimentare. Tra i partecipanti celebri vale la pena di ricordare un certo Shinya Tsukamoto e un signor nessuno chiamato Bong Joon Ho.



Dal 15 giugno, direttamente sul sito della manifestazione, sarà disponibile un megacofanetto contenente tutti i 27 medi (con sub inglesi!), per un totale di 915 minuti e 9 dvd. Ho mandato una mail all'organizzazione e mi hanno fatto sapere che il costo sarà sui 100 dollari, spese per l'Italia comprese. Considerate anche che molti dei film in questione li troveremo solo in questa uscita.

mercoledì 3 giugno 2009

Amazing Radio: nessun contratto, nessun manager, tanta musica

Una radio gratuita, fruibile via Internet e tramite il circuito DAB, dove ascoltare solo artisti senza contratto. E scaricare le loro canzoni più belle, con la sicurezza che il 70% del ricavato vada direttamente nelle tasche degli artisti. Dando la possibilità a tutti di proporsi come dj (inviando playlist, non sparando boiate). Non è un sogno, trovate tutto qui.

martedì 2 giugno 2009

Bye Bye, Kentucky Fried Chicken!

Alla catena Kentucky Fried Chicken hanno standard così alti che, PER LEGGE, non possono più utilizzare to eat nelle loro campagne. Motivazione: secondo la legge americana tale verbo può essere utilizzato solo in riferimento "...to substances appropriate for human consumption". Qui l'articolo completo.

Come sovvertire i clichè, risparmiare soldi e creare una campagna che funzioni





Avete presente le pubblicità della birra? Le potete dividere in vari filoni: quelle con la battuta virile, quelle con la grafica accattivante, quelle con il testimonial strapagato,... Il risultato non cambia mai: tutte si rivolgono al target di riferimento (maschio, 20/30 anni) come se fosse un primate ai primi stadi evolutivi e hanno una presa pari a zero (a parte pochi, meritevoli casi isolati).



Per loro fortuna quei geni della Dos Equis ci hanno pensato bene prima di investire i loro soldi nell'ennesima campagna inutile, con il risultato di spendere meno e meglio. Come? Sovvertendo i luoghi comuni, partendo proprio dal testimonial. Perchè tra gli estimatori della birra in questione possiamo annoverare addirittura l' Uomo più interessante del mondo. Mica bruscolini. Un uomo anziano (prima differenza dal giovanilismo dilagante), di classe (seconda differenza), snob (terza differenza) e che abitualmente non beve birra. Qui si parla di una leggenda vivente, uno abituati a vini pregiati e scotch esclusivi, non alla volgare bionda. Però ci tiene a farci sapere che nel caso debba bere una birra preferisce Dos Equis. Che non è una birra dissentante, visto che lo slogan della ditta è Stay thirsty. Una birra per raffinati intenditori insomma, non per quattro stronzi sgallettati.



Oltre a tutto questo alla Dos Equis hanno pensato bene di impiegare anche la potenza di YouTube. Sul noto sito infatti trovate una serie di perle di saggezza da parte del nostro nuovo guru. Tutte molto sagaci, acide e terribilmente snob. In altre parole: perfette per la parodia. Il genere in assoluto più in voga sul tubo. Ecco il secondo tempo della campagna, ovvero la creazione di un meme virale che crea empatia e partecipazione. Roba che neanche J.J. Abrams.








lunedì 1 giugno 2009

Death metal? No, death pedal!

DEATH PEDAL Trailer by Kareem Shehab from Killa Kareem on Vimeo.





Qui trovate in preorder il nuovo dvd del regista Kareem Shebab. Un documentario sul meglio del fixed gear freestyle, nuovo fenomeno dello sport urbano.