Uno dei motivi per cui amo il vecchio cinema di HK è quella capacità innata di spremere il minutaggio al midollo. Film che fino a 89 minuti sembravano buoni prodotti, senza nulla per cui spiccare, allo scoccare dei fatidici 90 riuscivano a entusiasmare come grandi capolavori. Il raro Cops and Robbers fa pienamente parte di questa categoria, oltre che fare da apripista a tutto quel noir lercio e livido ( alla Dangerous Encounters: 1st Kind e Long Arm of the Law) destinato a morire in qualche vicolo HKonghese con l’avvento dell’heroic bloodshed.
Cops and Robbers parte banalmente, seguendo le spericolate scorribande della più classica delle squadre di polizia. I soliti scavezzacollo poco cresciuti, tutti scherzi e risate. Così tra un partita a baseball e una sfida al poligono ecco arrivare la recluta. Timido, impacciato, quasi infastidito dai metodi poco ortodossi dei nuovi colleghi. Tutta la prima parte del lungometraggio è colma di richiami all’infanzia, dal titolo stesso fino all’hobby dell’antagonista (costruire pistole giocattolo). Poi, come da copione, le cose prenderanno una brutta piega. Gli eterni ragazzi incominceranno a cadere uno a uno. Sarà compito del più giovane, la candida matricola, porre fine alla catena di violenza. Sfondando la testa al cattivo di turno (un ritardato con un conto in sospeso, a ragione, proprio con le forze dell’ordine) e vomitando sul suo cadavere. Eppure la purezza dei giochi non è ancora spazzata via, per quello occorre la normalizzazione dell’orrore. Quando il sopravissuto, shockato dai fatti recenti, presenterà le dimissioni al corpo dove presta servizio si sentirà adulare dai suoi superiori. Desiderosi di non lasciarsi sfuggire un giovane di così buone speranze. “La polizia ha bisogno di persone come te” sono le ultime parole che il Nostro si sente dire, conscio che con la sua vecchia faccia (quella educata e rispettosa degli altri) non si sarebbe mai meritato un simile svolazzo di cortesie.
Così bastano cinque minuti per cambiare completamente il carattere di Cops and Robbers. Un gioco di specchi che schernisce lo spettatore, rischia di deluderlo e gli impedisce di prepararsi al peggio. Come i fiotti di sangue del melodramma My Heart is that Eternal Rose (riuscite a immaginarvi un titolo migliore?) o il nichilismo deflagrante di Expect The Unexpected. Non sai che film stai vedendo fino a quando non compare la scritta fine (e questo non significa appellarsi estenuantemente al meccanismo del twist, orpello gratuito e privo di presa allo stomaco dello spettatore senziente). Oppure, viceversa, potremo lasciarci tramortire dal fatalismo nero come la pece di Wai Ka Fai. Nel suo Too Many Ways to Be No.1 (altro titolo grandioso) assistiamo alla creazione di un due universi paralleli, divisi da un evento minimo. E se nel gemello (ma successivo) Sliding Doors (o Lola Corre) esiste la possibilità del lieto fine, nel mondo di WKF si può solo sperare di limitare il disastro. A metà film sai già che andrà a finire male, eppure la noia è lontanissima. Merito della coesione di poetica e linguaggio, obbiettivo raggiungibile con una costruzione dell’opera basata sulla centralità dell’idea e non sull’affastellarsi di punti fissi. Senza un cuore pulsante si rischia di ottenere uno scheletro reso sterile dalla perfezione.
Tutto vero, sempre che quello che si cerca non sia proprio un percorso algido e privo di asperità. Quante opere si basano sul loro andamento da schiacciasassi? Macchine da guerra prive di appigli a cui puntare per uno spiraglio di luce. L’esempio di Old Boy è ormai logoro, eppure la certezza che il risultato sarebbe stato meno efficace se ci fossero stati dei buchi di sceneggiatura (e, a volte, i buchi servono) è impermeabile al passare delle stagioni. La vendetta doveva essere chirurgica, senza cuore, spietata. PERFETTA. Ogni eccesso di retorica emotiva ne avrebbe intaccato la potenza di fuoco, rovinando indelebilmente l’intero lavoro (cosa che vale per tutta la trilogia). Tanto per far capire a quanto poco servano regole e paradigmi inattaccabili, anche quando si tenta di rovesciarli.
Cops and Robbers parte banalmente, seguendo le spericolate scorribande della più classica delle squadre di polizia. I soliti scavezzacollo poco cresciuti, tutti scherzi e risate. Così tra un partita a baseball e una sfida al poligono ecco arrivare la recluta. Timido, impacciato, quasi infastidito dai metodi poco ortodossi dei nuovi colleghi. Tutta la prima parte del lungometraggio è colma di richiami all’infanzia, dal titolo stesso fino all’hobby dell’antagonista (costruire pistole giocattolo). Poi, come da copione, le cose prenderanno una brutta piega. Gli eterni ragazzi incominceranno a cadere uno a uno. Sarà compito del più giovane, la candida matricola, porre fine alla catena di violenza. Sfondando la testa al cattivo di turno (un ritardato con un conto in sospeso, a ragione, proprio con le forze dell’ordine) e vomitando sul suo cadavere. Eppure la purezza dei giochi non è ancora spazzata via, per quello occorre la normalizzazione dell’orrore. Quando il sopravissuto, shockato dai fatti recenti, presenterà le dimissioni al corpo dove presta servizio si sentirà adulare dai suoi superiori. Desiderosi di non lasciarsi sfuggire un giovane di così buone speranze. “La polizia ha bisogno di persone come te” sono le ultime parole che il Nostro si sente dire, conscio che con la sua vecchia faccia (quella educata e rispettosa degli altri) non si sarebbe mai meritato un simile svolazzo di cortesie.
Così bastano cinque minuti per cambiare completamente il carattere di Cops and Robbers. Un gioco di specchi che schernisce lo spettatore, rischia di deluderlo e gli impedisce di prepararsi al peggio. Come i fiotti di sangue del melodramma My Heart is that Eternal Rose (riuscite a immaginarvi un titolo migliore?) o il nichilismo deflagrante di Expect The Unexpected. Non sai che film stai vedendo fino a quando non compare la scritta fine (e questo non significa appellarsi estenuantemente al meccanismo del twist, orpello gratuito e privo di presa allo stomaco dello spettatore senziente). Oppure, viceversa, potremo lasciarci tramortire dal fatalismo nero come la pece di Wai Ka Fai. Nel suo Too Many Ways to Be No.1 (altro titolo grandioso) assistiamo alla creazione di un due universi paralleli, divisi da un evento minimo. E se nel gemello (ma successivo) Sliding Doors (o Lola Corre) esiste la possibilità del lieto fine, nel mondo di WKF si può solo sperare di limitare il disastro. A metà film sai già che andrà a finire male, eppure la noia è lontanissima. Merito della coesione di poetica e linguaggio, obbiettivo raggiungibile con una costruzione dell’opera basata sulla centralità dell’idea e non sull’affastellarsi di punti fissi. Senza un cuore pulsante si rischia di ottenere uno scheletro reso sterile dalla perfezione.
Tutto vero, sempre che quello che si cerca non sia proprio un percorso algido e privo di asperità. Quante opere si basano sul loro andamento da schiacciasassi? Macchine da guerra prive di appigli a cui puntare per uno spiraglio di luce. L’esempio di Old Boy è ormai logoro, eppure la certezza che il risultato sarebbe stato meno efficace se ci fossero stati dei buchi di sceneggiatura (e, a volte, i buchi servono) è impermeabile al passare delle stagioni. La vendetta doveva essere chirurgica, senza cuore, spietata. PERFETTA. Ogni eccesso di retorica emotiva ne avrebbe intaccato la potenza di fuoco, rovinando indelebilmente l’intero lavoro (cosa che vale per tutta la trilogia). Tanto per far capire a quanto poco servano regole e paradigmi inattaccabili, anche quando si tenta di rovesciarli.
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