A ben vedere Chew è un lavoro perfetto proprio perché assolutamente non indispensabile. Non è il capolavoro ambizioso destinato a cambiare per sempre l’arte sequenziale, e neppure la meteora cool da seguire a ogni costo per capire dove andrà a parare nei prossimi anni il fumetto mainstream. Chew è semplicemente un fumetto divertente, intelligentissimo e autentico figlio dei propri tempi. Scritto e disegnato per una lettura briosa, senza per questo essere destinato a finire nel dimenticatoio una volta concluso. L’opera di John Layman e Rob Guillory è, detto in poche parole, intrattenimento a cinque stelle. Di quello che si incastra in tempo zero nell’immaginario collettivo proprio in virtù del suo essere genuinamente leggero e… attenzione alla parola proibita… piacevole. Partendo da uno spunto d’attualità (o perlomeno lo era all’uscita del primo volume statunitense) si finisce in un noir atipico e scorretto, con modalità e soluzioni introvabili altrove se non in un albo a fumetti. Dialoghi brillanti e mai volgari (o sforzati), tavole veloci e uno stile grafico che pare riprendere Eduardo Risso in versione old school Cartoon Network fanno il resto.
Altro punto a favore: tutta la vicenda parte da un’esperienza che tutti i lettori hanno vissuto sulla loro pelle (il terrore indotto per l’aviaria). Quale mezzo migliore per creare empatia e connessioni di significato tra fruitore e opera? Un po’ come il crollo delle torri in Ex Machina o l’abuso di Internet in KickAss (dove l’eroe diventa tale grazie a YouTube e MySpace). Una visione lucida del proprio tempo è quello che ha consentito a opere di fantascienza come Starship Troopers o District 9 di diventare dei classici istantanei, sfruttando la crisi medio orientale il primo (con questi nemici tutti uguali [disumanizzati] nascosti in grotte desertiche o impegnati in vigliacchi attacchi a distanza) o il nuovo apartheid mondiale il secondo (si veda il discorso relativo alle vite di scarto portato avanti da Bauman nell’omonimo testo). Si pensi invece a quanto, per esempio, suoni fuori tempo massimo l’idea di un fumetto che ci narra di una guerra fredda tra Umani e Alieni. Forse l’unico punto favorevole del casino che sono i nostri tempi è proprio l’abbondanza di materiale su cui lavorare, autentico bengodi da saccheggiare a piene mani. Sia che si tratti di delicate situazioni geopolitiche, gli esempi appena citati, piuttosto della mania dilagante per la pulizia, come succede in Chew. In un epoca dove l’Amuchina pare essere più preziosa dell’acqua noi ci ritroviamo immersi in una storia fatta di dichiarazioni d’amore consumate sotto geyser di vomito, sushi scaduto, pasti a base di cani putrefatti e investigatori cannibali. Si parte da provocazioni triviali (i soliti teenagers impegnati a pisciare nella friggitrice del fast food dove lavorano) e si arriva all’incorporazione dell’ultimo tabù da parte dei buoni. Senza mai disturbare veramente. Miracoli delle nuvole parlanti e del loro linguaggio specifico, membrana flessibile e malleabile come poche altre. Siamo ad anni luce dalla mediocrità dell’horror statunitense contemporaneo basato sulle stesse intuizioni. Esempio perfetto la pesca miracolosa nelle interiora di maiale in Saw 2: ne divertente come Chew, ne estrema come l’affogamento della sfortunata di turno tra le proprie feci nel primo Dead or Alive (regia di Takashi Miike, chi se no?).
Un basso peso specifico non lo si raggiunge con il vuoto pneumatico, come dimostrano le quintalate di fumetti realmente gratuiti che finiscono ogni settimana sugli scaffali delle fumetterie. Una delle categorie che più spesso insinua le nostre finanze è il classico pastiche postmoderno dove, con la scusa dell’ironia, ci troviamo infilato tutto l’armamentario trash degli ultimi 30 anni. Quindi alieni, ninja, tizie in bikini con UZI, splatter, blablablabla… zzzzzz… Chew invece, pur essendo un vero compendio di bizzarrie disgustose, riesce a mantenere una natura organica e complessa, dove ogni spunto pazzesco ha un suo perché perfettamente logico e coerente. Un po’ come succedeva nel fenomenale The Umbrella Chronicles, altro esempio di prodotto commerciale intoccabile sotto ogni aspetto. Tanto per dimostrare che si può portare avanti un discorso qualitativamente impeccabile pur rimanendo all’interno del sistema. Non un monito a cedere alle lusinghe del populismo, quanto ad accendere (e a far accendere al lettore) il cervello. Aggirare gli ostacoli ha sempre richiesto una certa arguzia.
Altro punto a favore: tutta la vicenda parte da un’esperienza che tutti i lettori hanno vissuto sulla loro pelle (il terrore indotto per l’aviaria). Quale mezzo migliore per creare empatia e connessioni di significato tra fruitore e opera? Un po’ come il crollo delle torri in Ex Machina o l’abuso di Internet in KickAss (dove l’eroe diventa tale grazie a YouTube e MySpace). Una visione lucida del proprio tempo è quello che ha consentito a opere di fantascienza come Starship Troopers o District 9 di diventare dei classici istantanei, sfruttando la crisi medio orientale il primo (con questi nemici tutti uguali [disumanizzati] nascosti in grotte desertiche o impegnati in vigliacchi attacchi a distanza) o il nuovo apartheid mondiale il secondo (si veda il discorso relativo alle vite di scarto portato avanti da Bauman nell’omonimo testo). Si pensi invece a quanto, per esempio, suoni fuori tempo massimo l’idea di un fumetto che ci narra di una guerra fredda tra Umani e Alieni. Forse l’unico punto favorevole del casino che sono i nostri tempi è proprio l’abbondanza di materiale su cui lavorare, autentico bengodi da saccheggiare a piene mani. Sia che si tratti di delicate situazioni geopolitiche, gli esempi appena citati, piuttosto della mania dilagante per la pulizia, come succede in Chew. In un epoca dove l’Amuchina pare essere più preziosa dell’acqua noi ci ritroviamo immersi in una storia fatta di dichiarazioni d’amore consumate sotto geyser di vomito, sushi scaduto, pasti a base di cani putrefatti e investigatori cannibali. Si parte da provocazioni triviali (i soliti teenagers impegnati a pisciare nella friggitrice del fast food dove lavorano) e si arriva all’incorporazione dell’ultimo tabù da parte dei buoni. Senza mai disturbare veramente. Miracoli delle nuvole parlanti e del loro linguaggio specifico, membrana flessibile e malleabile come poche altre. Siamo ad anni luce dalla mediocrità dell’horror statunitense contemporaneo basato sulle stesse intuizioni. Esempio perfetto la pesca miracolosa nelle interiora di maiale in Saw 2: ne divertente come Chew, ne estrema come l’affogamento della sfortunata di turno tra le proprie feci nel primo Dead or Alive (regia di Takashi Miike, chi se no?).
Un basso peso specifico non lo si raggiunge con il vuoto pneumatico, come dimostrano le quintalate di fumetti realmente gratuiti che finiscono ogni settimana sugli scaffali delle fumetterie. Una delle categorie che più spesso insinua le nostre finanze è il classico pastiche postmoderno dove, con la scusa dell’ironia, ci troviamo infilato tutto l’armamentario trash degli ultimi 30 anni. Quindi alieni, ninja, tizie in bikini con UZI, splatter, blablablabla… zzzzzz… Chew invece, pur essendo un vero compendio di bizzarrie disgustose, riesce a mantenere una natura organica e complessa, dove ogni spunto pazzesco ha un suo perché perfettamente logico e coerente. Un po’ come succedeva nel fenomenale The Umbrella Chronicles, altro esempio di prodotto commerciale intoccabile sotto ogni aspetto. Tanto per dimostrare che si può portare avanti un discorso qualitativamente impeccabile pur rimanendo all’interno del sistema. Non un monito a cedere alle lusinghe del populismo, quanto ad accendere (e a far accendere al lettore) il cervello. Aggirare gli ostacoli ha sempre richiesto una certa arguzia.