Chiariamo subito le cose, l’indonesiano Merantau è superiore a buona parte delle produzioni uscite dalla Thailandia negli ultimi anni (escludiamo Tabunfire e, parzialmente, Chocolate) per due semplici motivi: narrazione e linguaggio. Meno spettacolare e pornografico dei vari Ong Bak e Born to Fight, sicuramente più maturo e pronto a dare il via a una scuola già codificata al primo tentativo esportabile.
Partendo dal solito cliché del campagnolo travolto dalla lordura della modernità (la stessa storia che si ripete dai tempi del Piccolo Drago, passando per gli elefanti di Tony Jaa) Gareth Evans costruisce una vicenda dove le trovate di regia più clamorose vengono relegate ai segmenti di narrazione piuttosto che a quelli action. Escamotage tanto semplice quanto funzionale, perfetto nel costruire un crescendo emozionale e nell’allontanare lo spettro della banalizzazione. Così abbiamo a che fare con un film drammatico inframmezzato da scene di combattimento e non una serie di clip atletiche legate tra loro con un labile filo logico. Questo non significa che si ha che fare con una sceneggiatura da Palma D’Oro, ma almeno eviterete di mandare avanti veloce alla ricerca della prossima tempesta di mazzate.
L’arte marziale sfruttata dal protagonista è il letale silat, se possibile ancora più rozza e brutale (ma più variegata) del muay thai. La regia accompagna le furiose rotazioni del protagonista con ampie carrellate circolari, l’inquadratura non chiude mai su particolari incomprensibili (ingiustificabile dictat della nuova scuola statunitense, mutuato goffamente da certe intuizioni importate da HK) e indugia spesso in movimenti tanto dinamici da dimenticarsi del protagonista stesso (nel senso che continuano anche quando questo esce di scena). Nonostante qualche ingenuità il risultato è decisamente più funzionale e caratterizzante di qualsiasi Ong Bak 2, di cui si ricordano unicamente gli oggetti che vorticano a pochi centimetri dall’obbiettivo. Le coreografie si mantengono su ottimi livelli, prediligendo velocità e precisione alla spettacolarità pura e semplice. Coraggiosa la scelta di evitare eccessiva postproduzione audio ai combattimenti, mantenendo un approccio più o meno realistico, aiutando invece gli stunt con l’apporto di qualche cavo. Non manca neppure LA scena, segmento per cui l’intero lungometraggio merita la visione. In questo caso un duello all’interno di un ascensore, paragonabile per intensità all’ormai leggendario scontro Wu Jing/ Donnie Yen in SPL.
Nonostante la lunghezza e il mood non certo da commedia romantica Merantau scorre veloce, coinvolge e mantiene alta l’attenzione. Senza puntare tutto sulla performance marziale, cosa che pareva impossibile all’interno della new wave del cinema action.
Partendo dal solito cliché del campagnolo travolto dalla lordura della modernità (la stessa storia che si ripete dai tempi del Piccolo Drago, passando per gli elefanti di Tony Jaa) Gareth Evans costruisce una vicenda dove le trovate di regia più clamorose vengono relegate ai segmenti di narrazione piuttosto che a quelli action. Escamotage tanto semplice quanto funzionale, perfetto nel costruire un crescendo emozionale e nell’allontanare lo spettro della banalizzazione. Così abbiamo a che fare con un film drammatico inframmezzato da scene di combattimento e non una serie di clip atletiche legate tra loro con un labile filo logico. Questo non significa che si ha che fare con una sceneggiatura da Palma D’Oro, ma almeno eviterete di mandare avanti veloce alla ricerca della prossima tempesta di mazzate.
L’arte marziale sfruttata dal protagonista è il letale silat, se possibile ancora più rozza e brutale (ma più variegata) del muay thai. La regia accompagna le furiose rotazioni del protagonista con ampie carrellate circolari, l’inquadratura non chiude mai su particolari incomprensibili (ingiustificabile dictat della nuova scuola statunitense, mutuato goffamente da certe intuizioni importate da HK) e indugia spesso in movimenti tanto dinamici da dimenticarsi del protagonista stesso (nel senso che continuano anche quando questo esce di scena). Nonostante qualche ingenuità il risultato è decisamente più funzionale e caratterizzante di qualsiasi Ong Bak 2, di cui si ricordano unicamente gli oggetti che vorticano a pochi centimetri dall’obbiettivo. Le coreografie si mantengono su ottimi livelli, prediligendo velocità e precisione alla spettacolarità pura e semplice. Coraggiosa la scelta di evitare eccessiva postproduzione audio ai combattimenti, mantenendo un approccio più o meno realistico, aiutando invece gli stunt con l’apporto di qualche cavo. Non manca neppure LA scena, segmento per cui l’intero lungometraggio merita la visione. In questo caso un duello all’interno di un ascensore, paragonabile per intensità all’ormai leggendario scontro Wu Jing/ Donnie Yen in SPL.
Nonostante la lunghezza e il mood non certo da commedia romantica Merantau scorre veloce, coinvolge e mantiene alta l’attenzione. Senza puntare tutto sulla performance marziale, cosa che pareva impossibile all’interno della new wave del cinema action.
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